DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA: la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà  fondamentali.



Avv. Salvatore Braghini

La Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ha istituito la Corte europea dei Diritti dell’Uomo al fine di vigilare sulla corretta applicazione dei principi, diritti e libertà che la stessa Convenzione solennemente enuncia. La Corte è composta da un numero di giudici pari a quello degli Stati contraenti, senza però le funzioni di rispettiva rappresentanza. Oltre ogni Stato contraente ogni individuo che si ritenga oggetto di una violazione della Convenzione può inoltrare direttamente alla Corte di Strasburgo un ricorso, che, in caso sia ritenuto ammissibile, sarà sottoposto al giudizio di una Camera. La Camera si pronuncia a maggioranza ed è interessante evidenziare una peculiarità, vale a dire che ogni giudice che abbia partecipato all’esame della questione ha facoltà di allegare alla sentenza sia l’esposizione di una sua eventuale opinione distinta, concordante o dissenziente, sia una semplice dichiarazione di dissenso.

 E’ questo il caso della sentenza della Corte del 16 luglio 2009, che ha definito il ricorso del cittadino bosniaco Sulejmanovic (ricorso n. 22635/03), con la quale la Camera ha condannato l’Italia a risarcire al ricorrente la somma di 1.000 € per danni morali patiti nel periodo di detenzione nel carcere di Rebibbia a Roma. Nella sentenza, assunta a maggioranza,  si registra l’opinione dissenziente del giudice italiano Zagrebelsky e dal giudice Jocienè, due autorevoli magistrati europei. I due componenti il collegio hanno evidenziato nelle argomentazioni della Corte alcune criticità che è utile approfondire. 
Per ben comprenderle è necessario ricostruire la vicenda. Un cittadino della Bosnia Erzegovina, che era stato condannato a 2 anni e 5 mesi di carcere per rapina aggravata ed altri reati, con il passaggio in giudicato della sentenza veniva trasferito al penitenziario di Rebibbia, dove trascorreva 4 mesi e mezzo in una cella di 16,20 mq, condivisa con altre cinque persone. Successivamente veniva trasferito in una cella più grande. Il Sulejmanovic nel periodo di detenzione era rimasto rinchiuso in cella quotidianamente per 18 ore e 30 minuti, a cui si deve aggiungere un’ora per i pasti, potendo uscire di cella 4 ore e 30 minuti al giorno. Lo stesso aveva chiesto durante la detenzione, per due volte, di poter lavorare senza essere mai accontentato. I suoi avvocati avevano denunciato tempestivamente la violazione dell’articolo 3 alla Corte di Strasburgo, lamentando le condizioni di detenzione e in particolare lo stato di sovraffollamento (1560 detenuti a fronte di una capienza di 1188) e il tempo eccessivo trascorso all’interno della cella. 
La Corte, richiamando le sentenze della Grande Camera nei casi Saadi c. Italia (sentenza del 28 febbraio 2008) e Labita c. Italia (sentenza del 6 aprile 2000), fonda la sua motivazione sull’art. 3 della Convenzione, che proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti, quali che siano i comportamenti della vittima. In tale articolo della Convenzione, consacrando uno dei valori cardine nelle società democratiche, si impone allo Stato di assicurare che tutti i prigionieri siano detenuti in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione del provvedimento non provochino all’interessato uno sconforto e un malessere di intensità tale da eccedere l’inevitabile livello di sofferenza legato alla detenzione e che, tenuto conto delle necessità pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in modo adeguato. La Corte enuclea anche parametri di riferimento, ricordando che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti e delle pene inumani o degradanti del Consiglio d’Europa (Ctp), ha fissato a 7 mq per persona la superficie minima suggerita per una cella di detenzione e che un sovrappopolamento carcerario grave costituisce di per sé un problema sotto il profilo del rispetto dell’art. 3 della Convenzione. In effetti la Corte, pur evidenziando che la variabilità delle circostanze (tra cui la durata della privazione di libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all’aria aperta o la condizione mentale e fisica del detenuto) induce a non poter dare la misura precisa e assoluta dello spazio personale che deve essere attribuito a ciascun detenuto secondo la Convenzione, si spinge nondimeno ad affermare che in certi casi – e Sulejmanovic è tra questi - la mancanza di spazio personale per i detenuti era stata talmente evidente da giustificare, di per sé, la constatazione della violazione dell’articolo 3. 
Il collegio giudicante richiama anche un altro principio sussidiario, in base al quale, nei casi in cui il sovraffollamento non solleva automaticamente l’eccezione di violazione dell’articolo 3, al fine di verificare il rispetto di questa disposizione, possono essere presi in considerazione altri aspetti riguardanti le condizioni di detenzione. Tra questi elementi figurano la possibilità di utilizzare i servizi igienici privatamente, l’areazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria aperta, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base. Vengono anche riportati precedenti violazioni dell’art. 3 in casi nei quali il recluso pur potendo disporre dai 3 ai 4 metri quadrati, la mancanza di spazio era accompagnata da una carenza di ventilazione e di luce (come nei casi Moisseiev c. Russia, n. 62936/00, 9 ottobre 2008 ; Vlassov c. Russia, n. 78146/01, 12 giugno 2008 ; Babouchkine c. Russia, n. 67253/01, 18 ottobre 2007 ; Peers c. Grecia, n. 28524/95, sentenza del 19 aprile 2001). Nel caso Sulejmanovic – a giudizio della Corte - tali affermazioni di principio trovano un riscontro concreto almeno per uno degli aspetti sollevati dal ricorrente. Difatti, nel primo periodo di carcerazione, in cui il ricorrente è stato detenuto in uno spazio disponibile pari a 2,70 mq, la Corte sostiene che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione, a causa della mancanza palese di uno spazio personale, ciò rappresentando di per sé un trattamento inumano o degradante. Al contrario, la Corte non ritiene di accogliere altre lamentele del ricorrente: sia con riferimento alla possibilità di uscire dalla cella, avendo a disposizione il Sulejmanovic quasi 9 ore, tra l’interno e il cortile, con la possibilità di socializzare con gli altri detenuti; sia riguardo alla non fruibilità di attività lavorativa all’interno del carcere, ritenendo che questa condizione, di per sé, non è sufficiente per ritenerla contraria all’articolo 3 della Convenzione. 
La Corte ha pertanto ritenuto che per il secondo periodo del trattamento a cui è stato sottoposto il ricorrente, il contesto detentivo non abbia raggiunto quel livello di gravità richiesto perché il caso possa essere considerato suscettivo di violazione dell’art. 3 della Convenzione. Ma quali, dunque, gli aspetti critici rilevati dai giudici dissenzienti? 
Secondo il giudice Zagrebelsky e  Jocienè, contrariamente da quanto accertato dai loro colleghi, non sarebbe stato violato l’art. 3 perché nel caso concreto non si evince la necessaria gravità generalmente richiesta per ritenere sussistente la commissione di trattamenti disumani e degradanti. Richiamando l’orientamento della giurisprudenza della Corte, si ritiene violato l’art. 3 soltanto se e quando risulta sorpassata una soglia minima di gravità, e ciò si verifica più precisamente allorché le condizioni di detenzione sottopongano l’interessato ad uno “sconforto” o ad una prova di un’intensità tale da eccedere il livello inevitabile di sofferenza ineren¬te la condizione carceraria. Accettata tale premessa, il ragionamento dei due giudici europei mette al centro un’altra considerazione, e cioè che lo spazio di detenzione, pur costituendo un elemento di particolare importanza, non può essere considerato in modo esclusivo e dirimente. Essa dipende, infatti, dall’insieme dei dati della causa, in particolare dalla durata del trattamento e dai suoi effetti fisici o mentali ed anche, a volte, dal sesso, dall’età e dallo stato di salute della vittima (Price c. Regno Unito, n. 33394/96;  CEDH 2001-VII, Mouisel c. Francia n. 67263/01; CEDH 2002-IX, e Gennadi Naoumenko c. Ucraina, n. 42023/98,10 febbraio 2004). La riprova - secondo i giudici minoritari - sarebbe data dalla sentenza Valasinas c. Lituania del 24 luglio 2001, Ricorso n. 44558/98, Sentenza. sez. III, con cui la Corte ha ritenuto che non fosse stato violato l’art. 3 nonostante lo spazio a disposizione del detenuto fosse compreso tra 2,70 e 3,20 mq. Il periodo carcerario per cui il ricorso del Sulejmanovic è stato accolto e l’Italia condannata riguarda quello vissuto con altri cinque detenuti, in una cella di 16,20 mq. A tal proposito i dissenzienti evidenziano l’incongruità del riferimento operato dalla maggioranza dei giudici alle indicazioni del Co¬mitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) per almeno due ordini di motivi. Le misure indicate dal Comitato di 7 mq con 2 m o più fra i muri e 2,50 m tra il suolo ed il soffitto, non individuano una soglia minima ma piuttosto un livello dimensionale auspicabile e poi, motivo ancor più pregnante, non sarebbero riferite a celle destinate alla detenzione, che di norma accolgono più di una persona, bensì a celle singole di polizia. È proprio riferendosi a questa seconda categoria -  precisa Zagrebelsky  - che il Cpt prende in considerazione la questione del sovraffollamento e delle conseguenze generali di esso, che enumera e considera in maniera molto ragionevole, escludendo ogni automatismo quanto alla dimensione delle celle e al numero dei detenuti. Circa il numero eccessivo di detenuti in rapporto alla dimensione della cella, il giudice italiano osserva che l’esigui¬tà dello spazio a disposizione di un detenuto non è mai stato trattato nella giurisprudenza della Corte quale criterio esclusivo, essendo presi in considerazione altri fattori supplementari (accesso alla luce ed all’aria naturali, condizioni igieniche, calore e ventilazione, un rischio concreto di diffusione di malattie, l’assenza di acqua potabile o corrente, la condivisione di letti fra i detenuti, una durata molto breve del periodo all’aperto, la circostanza che i servizi sanitari si trovino troppo esposti agli sguardi esterni). Ed anche se alcune sentenze denunciano l’esiguità di spazio personale a disposizione di un detenuto (sotto i 3 mq) quale causa, di per sé, idonea a giustificare una consta¬tazione della violazione dell’articolo 3 della Convenzione, tale affermazione di principio è stata nei fatti contraddetta in diversi ricorsi esaminati. Valgano per tutti i ricorsi Labzov c. Russia (n. 62208/00, 15 giugno 2005) e Valasinas c. Lituania (n. 44558/98, 24 luglio 2001), in cui la Corte ha stabilito che a fronte di uno spazio personale compreso tra 2,70 mq e 3,20 mq non vi è comunque stata violazione dell’articolo 3. Nella sentenza Trepachkine la stessa Corte afferma di non poter dare la misura, in maniera precisa e definitiva, dello spazio personale che deve essere concesso ad ogni detenuto ai sensi della Convenzione, poiché tale questione può dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le condizioni di accesso all’ora d’aria o lo stato di salute fisica e mentale del detenuto. Si consideri, inoltre, che per i giudici europei, la soglia minima richiesta non sarebbe stata superata anche per l’età del ricorrente e in ragione del periodo relativamente breve di detenzione. 
Tirando le fila del discorso, una valutazione globale della vita carceraria ci sembra la cifra del ragionamento dei giudici dissenzienti e ciò sembra tanto più condivisibile se pensiamo che nella stessa sentenza la Corte ha assolto l’Italia per il periodo di detenzione del ricorrente successivamente all’aprile 2003 (secondo periodo detentivo), ritenendo che andassero considerati anche altri elementi, come la possibilità di utilizzare toilette in modo privato, un’adeguata aerazione, l’accesso alla luce e all’aria naturale, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base. Eppure, a partire dall’aprile 2003, non sono intercorsi cambiamenti particolarmente rilevanti, anche in considerazione del fatto che le dimensioni della cella erano di poco superiore a quella del primo periodo detentivo e certo non raggiungevano neanche le dimensioni “auspicate” dal Comitato contro la tortura. 
In effetti, a ben guardare, anche un altro parametro era cambiato, anche se non direttamente riferibile all’”ambiente vitale” strettamente assegnato al recluso, e forse è proprio quest’ultimo che deve preoccupare i governi italiani. La Corte osserva, infatti, che nel secondo periodo di detenzione, la capacità di accoglienza massima del carcere di Rebibbia era stata superata di una quota compresa tra il 14,5% e il 30%, talché il problema del sovraffollamento “non ha raggiunto, nel periodo in causa, un livello di proporzioni drammatiche”. Invero, il ricorrente, per il secondo periodo di carcerazione non aveva più denunciato problemi relativi al riscaldamento o all’uso dei servizi igienici e aveva goduto anche di diversi periodi fuori dalla cella, usando il cortile, alcune strutture ricreative interne al carcere e diversi momenti di contatto con altri detenuti.
 A questo punto una domanda connessa all’endemico problema del sovraffollamento nelle carceri italiane, si fa strada in modo ineludibile. Atteso che ancora troppo poco è stato fatto per risolvere tale problema, che cosa accadrebbe se tale sentenza incoraggiasse una valanga di contenziosi che potrebbero accumularsi davanti alle Camere della Corte Europea? 
Dunque la sentenza della Corte che condanna l’Italia nel caso testé esaminato, pur con tutte le sue aporie, criticità ed incongruità, potrebbe costituire un monito per l’Italia e sollecitare un’azione sistemica intesa a rimuovere le cause che ciclicamente ripropongono l’annoso problema del sovrappopolamento. Nel Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti d’Italia recentemente pubblicato dalla Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, si legge un’osservazione molto acuta che richiama il caso Sulejmanovic. Il giudice Sajò, uno dei membri del collegio giudicante allineato con la maggioranza che ha redatto la sentenza di condanna, rilevando la violazione dell'art. 3, sottolinea come tale violazione non sia legata strettamente alla dimensione delle celle o alla condizione di sovraffollamento che, per quanto sia in aperta violazione con le norme internazionali in materia, non è tale da compromettere irrimediabilmente la salute mentale o fisica del ricorrente, bensì alla negligenza dell'Italia, in quanto lo Stato non ha messo in atto alcuna misura per compensare il momentaneo (e qui il giudice è stato anche troppo generoso) sovraffollamento delle carceri. Sajò afferma: “Nelle particolari circostanze del caso, l’inumanità della situazione risiede nel fatto che lo Stato non ha dimostrato di avere adottato misure compensative supplementari per attenuare le condizioni estremamente gravose derivanti dalla sovrappopolazione del carcere. Esso avrebbe potuto prestare particolare attenzione alla situazione, ad esempio concedendo altri vantaggi ai detenuti. Ciò sarebbe servito a far passare loro il messaggio che lo Stato, pur dovendo far fronte ad un’improvvisa crisi carceraria, non era indifferente alla sorte dei detenuti e intendeva creare condizioni detentive che, tutto sommato, non facessero pensare al detenuto come a nient’altro che un corpo da dover sistemare da qualche parte. Nel caso di specie, la mancanza di attenzione da parte dello Stato aggiunge una punta d’indifferenza all’acuta sofferenza causata dalla punizione, sofferenza che andava già quasi oltre l’inevitabile (KudÅ‚a c/Polonia [GC], n. 30210/96, § 92, Corte Europea dei Diritti dell'Uomo 2000-XI).”
 
 
 
 
 
 
 

Fai una domanda