Anche per le sentenze del giudice amministrativo rileva il giudicato formale ex art. 324 c.p.c.



Il Giudice del lavoro del Tribunale di Melfi, con sentenza pronunziata in data 17/4//2009, rigettava il ricorso proposto in data 25/11/2006 da D.A. nei confronti dell'I.N.P.S. con compensazione tra le parti delle spese processuali.

Con l'indicato ricorso il D., premesso di essere stato dipendente dell'I.N.P.S. dal 2/11/71, sospeso cautelarmente dal servizio in data 24/9/92 a seguito dell'apertura di un procedimento disciplinare avente ad oggetto la manomissione contestata al D. dell'archivio locale 01M al fine di precostituire indebitamente a favore di terzi un elevato numero di posizioni assicurative immettendo dati non suffragati da alcun supporto cartaceo giustificativo e, quindi, destituito dal servizio in data 27/2/93, aveva esposto: - che, in epoca successiva alla sua destituzione, e precisamente in data 21/2/96, era stata emessa dal G.U.P. di Potenza ed in relazione a due posizioni contributive sentenza n. 13/96 di non luogo a procedere; - che ancora in data 15/2/2001, per un fatto analogo relativo alle contestazioni disciplinari, il G.U.P. di Melfi aveva emesso sentenza n. 25/01 di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione (impugnata dal D. dinanzi alla Corte di Appello di Potenza che aveva emesso la sentenza n. 311/03 di non doversi procedere per insussistenza del fatto); - che il Tribunale di Potenza, sezione penale, con sentenza n. 188/03 lo aveva assolto da tutti i reati allo stesso ascritti per insussistenza del fatto; - che la Procura Generale di Potenza, benché sollecitata dal Direttore Generale F.F. dell'I.N.P.S., aveva valutato di non proporre impugnazione avverso detta ultima sentenza; - che l'appello era stato, comunque, proposto dal P.M. presso il Tribunale di Potenza e la Corte di Appello di Potenza, con sentenza n. 297/04 aveva dichiarato l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione; - che avverso tale sentenza il D. aveva proposto ricorso per Cassazione che era stato rigettato con sentenza n. 2341/05; - che in data 3/12/2003 la Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale della Basilicata aveva emesso sentenza n. 1/2004/R di assoluzione del D. dagli addebiti disciplinari; - che in data 7/2/2006 la Corte dei Conti Sezione prima giurisdizionale centrale di appello aveva rigettato il ricorso proposto dal Procuratore Generale della Corte dei Conti di Roma nei confronti del D.; - che in data 11/5/2005 il Tribunale di Potenza - Ufficio G.I.P., per un fatto analogo a quelli delle contestazioni disciplinari attribuite al D., aveva emesso sentenza di non luogo a procedere nei suoi confronti per non aver commesso il fatto; - che in data 13/2/2006 aveva presentato al Direttore Generale dell'I.N.P.S. richiesta di revisione del procedimento disciplinare ai sensi di quanto previsto dall'art. 13 all. 1 del ROP dell'I.N.P.S.; - che tale richiesta era stata rigettata. Sostenendo di aver diritto alla suddetta revisione alla luce delle nuove prove emerse durante i procedimenti giurisdizionali e sopraggiunte dopo il licenziamento aveva chiesto al Tribunale di Melfi di riconoscere l'illegittimità del provvedimento negativo di revisione e, conseguentemente, di condannare l'I.N.P.S. alla sua riassunzione con tutte le conseguente in termini di corresponsione degli emolumenti dalla data della destituzione, di ricostruzione della carriera e della posizione contributiva.
Si era costituito in giudizio l'I.N.P.S. ed aveva contrastato quanto ex adverso dedotto eccependo, tra l'altro, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, l'inapplicabilità dell'art. 13, all. 1, del ROP dell'I.N.P.S. al caso in questione, per essere stata la legittimità del provvedimento di destituzione accertata in via definitiva dal giudice amministrativo, e comunque evidenziando la mancanza di nuove prove idonee a consentire la riapertura del procedimento disciplinare.
Il primo giudice, ritenuta la propria giurisdizione ed escluso che il giudicato amministrativo potesse essere ostativo alla esperibilità della procedura di cui all'art. 13, all. 1, del ROP, aveva, nel merito, valutato come pienamente legittimo il diniego di revisione da parte della P.A., osservando che i provvedimenti giurisdizionali richiamati dal ricorrente non potevano allo stesso giovare ai fini di una pretesa totale esclusione di ogni sua responsabilità in ordine ai fatti contestatigli in sede disciplinare ed in ogni caso che mancavano prove nuove idonee a giustificare la riapertura del procedimento amministrativo.
Avverso tale sentenza D.A., con ricorso depositato il 4/3/2010, proponeva appello, censurando la stessa per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione ai punti in cui si era fatto riferimento: 1) alla sentenza del Tribunale di Potenza n. 188/03 (evidenziando l'erroneità di quanto affermato dal primo giudice in ordine alla visualizzazione delle posizioni assicurative da parte del ricorrente nonché in ordine alla fittizia creazione di posizioni contributive in favore di familiari del stesso ed al suo ruolo di concorrente nelle attività di compilazione delle domande nonché evidenziando l'erroneità della omessa valutazione delle circostanze che era stata impedita dall'I.N.P.S. l'effettuazione delle prove di simulazione per acclarare le responsabilità degli eventuali autori e che era mancata ogni utilità economica stante l'inesistenza di pratiche di parenti del D.); 2) alla sentenza della Corte di Appello di Potenza n. 311/03 (evidenziando che non si comprendeva perché il giudice non avesse ritenuto di rilevare né avesse osservato che il reato di abuso di ufficio sarebbe dovuto essere rubricato come truffa aggravata ed in ogni caso rilevando che nessuna ammissione di colpevolezza vi era stata da parte dell'imputato); 3) sentenza del GUP di Potenza n. 156/05 (evidenziando che erroneamente il giudice ne aveva escluso una diretta rilevanza ai fini della sussistenza di fatti nuovi per una revisione del procedimento disciplinare); 4) sentenza della Corte dei Conti sez. giurisdizionale di Appello n. 83/06 (evidenziando l'erronea mancata considerazione da parte del giudice degli elementi accertati ed esposti nella sentenza del giudice contabile a favore del ricorrente).
Chiedeva, pertanto, all'adita Corte di Appello di Potenza, Sezione del Lavoro, di voler accogliere le conclusioni come specificate in epigrafe.
Veniva fissata dal Presidente, ai sensi dell'art. 435 c.p.c., l'udienza collegiale di discussione con decreto del 9/3/2010 per il giorno 8/7/2010. A tale udienza, rilevata una irregolarità della notifica all'appellato, veniva disposta la rinnovazione della stessa ai sensi dell'art. 291 c.p.c. fissandosi per l'adempimento il termine perentorio del 10/10/2010 e per la discussione la nuova udienza dell'11/11/2010.
Con comparsa del 14/10/2010 si costituiva l'I.N.P.S. per resistere a quanto ex adverso dedotto ed argomentato. Formulava l'Istituto appello incidentale chiedendo che, in riforma del capo 2 della sentenza appellata, fosse accertato e dichiarato che, in presenza di provvedimento definitivo di destituzione, la cui legittimità era stata accertata dal T.A.R. e confermata dal Consiglio di Stato, non poteva in alcun caso essere disposta la "riapertura" del procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 13 all. 1 del ROP dell'I.N.P.S..
All'odierna udienza, all'esito della discussione da parte dei procuratori delle parti, la Corte adita si pronunciava come da dispositivo, di cui veniva data pubblica lettura.
 
Un dipendente dell’INPS, dopo essere stato sottoposto a procedimento disciplinare e sospeso cautelarmente, citava dinanzi al giudice del lavoro il predetto Istituto, chiedendo la revisione del suddetto procedimento disciplinare (ex art. 13, all. 1, del ROP dell’INPS) e la condanna alla sua riassunzione, adducendo, tra le altre cose, l’emersione di nuove prove durante i procedimenti giurisdizionali cui lo stesso era stato sottoposto e dopo il suo licenziamento.
Ma il ricorso veniva rigettato in primo grado e il dipendente adiva la Corte di Appello di Potenza, la quale, nella sentenza in annotazione, ha preso in considerazione proprio il suddetto art. 13, rubricato «Revisione del procedimento disciplinare», a norma del quale: «1. Il procedimento disciplinare può essere riaperto se il dipendente cui fu inflitta la sanzione ovvero il coniuge superstite o i figli adducano nuove prove tali da far ritenere che sia applicabile una sanzione minore o possa essere dichiarato il proscioglimento dall’addebito con esclusione dei procedimenti definiti con giudizio abbreviato. 2. La riapertura del procedimento è disposta dal soggetto che ha irrogato la sanzione il quale, qualora ritenga che l’istanza di riapertura non possa essere accolta, ne dispone la reiezione con provvedimento motivato».
A tale proposito, la Corte di Appello ha rilevato che, in effetti, dalla disposizione appena citata si evince che, in presenza di nuove prove, la valutazione di rivedere le proprie statuizioni disciplinari viene rimessa alla valutazione della Pubblica Amministrazione, tuttavia, nel caso di specie, «tra l’adozione del provvedimento disciplinare (“destituzione”) e la richiesta di revisione ex art. 13 ROP è intervenuto un “giudicato amministrativo” (la sentenza del Consiglio di Stato […] avente ad oggetto l’annullamento del provvedimento di destituzione è, infatti, divenuta definitiva)».
Pertanto, dopo aver richiamato l’art. 324, c.p.c., relativo alla “cosa giudicata formale”, il Collegio ha definito la questione richiamando la giurisprudenza costante, secondo la quale, «in quanto compatibile, l’art. 324, c.p.c. rilev(a) anche per le sentenze dei giudici amministrativi: il giudicato formale della sentenza del giudice amministrativo si forma quando è decorso il termine per appellare la sentenza del TAR, ovvero per proporre ricorso in cassazione avverso la decisione del Consiglio di Stato».
In definitiva, l’appello è rigettato, poiché in presenza di un giudicato amministrativo, il procedimento disciplinare non può essere riaperto, residuando, in favore del dipendente, esclusivamente la revocazione ai sensi dell’art. 395, c.p.c.   
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Corte di appello di Potenza, Sez. Lav., 28 dicembre 2010, n. 674
Motivi della decisione
Rileva preliminarmente la Corte l'inammissibilità dell'appello incidentale proposto dall'I.N.P.S.
Si premette che per poter proporre impugnazione incidentale occorre che vi sia un interesse giuridico meritevole di tutela, pertanto non può proporre appello incidentale: a) chi è risultato totalmente vittorioso ma vorrebbe una motivazione diversa; b) chi si duole di una soccombenza teorica, e cioè chi ha vinto nel merito ma si è visto rigettare una eccezione preliminare (ad esempio di prescrizione, o di decadenza): in questo caso la parte ha l'onere semplicemente di riproporre l'eccezione non accolta e non di proporre appello incidentale ex art. 346 c.p.c.; c) chi ha già proposto appello principale.
L'interesse a proporre appello incidentale sorge, dunque, quando si verifica una soccombenza. Questa deve essere reale: è dunque inammissibile l'appello incidentale volto ad ottenere la modifica della motivazione. (cfr. Cass. Sent. n. 3308 del 14/10/1969 "Una impugnazione incidentale è concepibile solo in quanto vi sia una soccombenza, per cui, quando la parte vittoriosa chiede al giudice superiore di dare alla questione una soluzione più corretta fermo rimanendo il dispositivo, non deve né può proporre impugnazione incidentale, ma deve e può solo sollevare la questione stessa ex art. 346 (se si tratta di appello), ovvero in base al potere di correzione della motivazione spettante alla Corte di Cassazione ex art. 384 cod. proc. civ. in tal caso, difatti, l'impugnazione incidentale è inammissibile per difetto di interesse, dato che l'impugnazione ha la sua ragione di essere solo in quanto possa provocare l'annullamento della sentenza (se si tratta di ricorso per Cassazione) o la sua riforma (se si tratta di appello)" ed in senso conforme, con riguardo al giudizio di appello, Cass. Sent. n. 5626 del 16/11/1985, Cass. Sent. n. 8034 del 03/10/1994, Cass. Sent. n. 3110 del 17/03/1995, Cass. Sent. n. 5673 del 25/06/1997, Cass. Sent. n. del 19/10/2000, Cass. Sent. n. 2066 del 12/02/2003, Cass. Sent. n. 14086 del 11/06/2010 nonché, sempre in senso conforme, con riguardo al ricorso dinanzi al giudice di legittimità, Cass. Sent. n. 6631 del 24/03/2006, Cass. Sent. n. 6519 del 19/03/2007, Cass. Sent. n. 7057 del 24/03/2010).
Nel caso di specie l'I.N.P.S. (risultato vittorioso nel giudizio de quo, salvo che per la parte relativa alla regolamentazione delle spese che non ha formato oggetto di specifica censura) ha in modo inammissibile proposto appello incidentale al fine di ottenere la riforma del capo 2 della parte motiva della sentenza appellata e cioè di quello in cui è stato ritenuto che, pur in presenza di provvedimento definitivo di destituzione, la cui legittimità era stata accertata dal T.A.R. e confermata dal Consiglio di Stato, poteva essere disposta la "riapertura" del procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 13 all. 1 del ROP dell'I.N.P.S.
Se, però, da un punto di vista formale, le considerazioni svolte dall'Istituto non possono valere quale gravame incidentale ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 346 c.p.c., tuttavia le stesse integrano una valida riproposizione della eccezione già formulata in sede di comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado ed avente ad oggetto l'inapplicabilità al caso in questione dell'art. 13 del ROP dell'I.N.P.S. per essere già intervenuto il giudicato amministrativo.
Orbene, ritiene la Corte che tale eccezione sia fondata e come tale precluda l'esame delle questioni (di merito) poste dall'appellante.
L'art. 13 citato intitolato "Revisione del procedimento disciplinare" prevede, in analogia con la disposizione di cui all'art. 121 del D.P.R. n. 3 del 1957, che: "1. Il procedimento disciplinare può essere riaperto se il dipendente cui fu inflitta la sanzione ovvero il coniuge superstite o i figli adducano nuove prove tali da far ritenere che sia applicabile una sanzione minore o possa essere dichiarato il proscioglimento dall'addebito con esclusione dei procedimenti definiti con giudizio abbreviato. 2. La riapertura del procedimento è disposta dal soggetto che ha irrogato la sanzione il quale, qualora ritenga che l'istanza di riapertura non possa essere accolta, ne dispone la reiezione con provvedimento motivato (....)."
Rispetto ad una situazione nella quale è rimessa alla valutazione della pubblica Amministrazione la possibilità di rivedere le proprie determinazioni disciplinari (laddove, evidentemente, sussista il presupposto delle "nuove prove") quella per cui è causa si differenzia in ragione del fatto che tra l'adozione del provvedimento disciplinare ("destituzione") e la richiesta di revisione ex art. 13 ROP è intervenuto un "giudicato amministrativo" (la sentenza del Consiglio di Stato n. 4485/2002 depositata in data 5/9/2002 avente ad oggetto l'annullamento del provvedimento di destituzione è, infatti, divenuta definitiva).
Come è noto l'art. 324 c.p.c. definisce la "cosa giudicata formale" e dispone che "si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell'articolo 395".
Dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali - nel periodo anteriore alla riforma avutasi con la legge 6 dicembre 1971, n. 1034, la giurisprudenza del Consiglio di Stato era divisa, con riguardo alla proponibilità del giudizio di ottemperanza, sulla necessità del giudicato formale; la Corte di Cassazione ha sempre ritenuto necessario il giudicato formale (Sez. Un., 7 novembre 1973, n. 2897; Sez. Un., 18 settembre 1970, n. 1563) -, è ormai pacifico che, in quanto compatibile, l'art. 324 c.p.c. rilevi anche per le sentenze dei giudici amministrativi: il giudicato formale della sentenza del giudice amministrativo (che consente di esperire l'azione prevista dall'art. 27, n. 4, del testo unico 26 giugno 1924, n. 1054) si forma quando è decorso il termine per appellare la sentenza del TAR, ovvero per proporre il ricorso in cassazione avverso la decisione del Consiglio di Stato.
Si applicano, in tal caso, l'art. 2953 del codice civile (sugli "effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi" e sulla prescrizione decennale dell'actio iudicati) e l'art. 2909 del codice civile (sulla "cosa giudicata", e per il quale "l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa").
Per queste controversie, può richiamarsi la regola per la quale "il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, determinando le conseguenti preclusioni processuali" (si veda Consiglio Stato , sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1580) nonché l'ulteriore principio secondo cui "ai sensi dell'art. 2909 c.c., il giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il "titolo" della stessa azione ed il "bene della vita" che ne forma oggetto; entro tali limiti, il giudicato copre il "dedotto ed il deducibile ", cioè non soltanto le questioni di fatto e di diritto fatte valere in via di azione e di eccezione e, comunque, esplicitamente investite dalla decisione, ma anche le questioni che, pur non dedotte in giudizio, costituiscano un presupposto logico ed indefettibile della decisione stessa, restando salva ed impregiudicata soltanto la "sopravvenienza di fatti e situazioni nuove", verificatisi dopo la formazione del giudicato." (così Consiglio Stato, sez. VI, 7 giugno 2005, n. 2920).
Peraltro, il giudicato amministrativo che definisce una controversia nella quale sia stato impugnato un atto non si esaurisce nella relativa statuizione (di annullamento ovvero di declaratoria di legittimità) ma possiede anche un necessitato effetto conformativo, concretantesi in un atto ovvero in un comportamento il cui contenuto sia sostanzialmente desumibile dalla sentenza, con conseguente vincolo assoluto per l'Amministrazione ad attenersi, nella successiva attività, alla statuizione del giudice, alla stregua dei puntuali obblighi discendenti dalla pronuncia e declaratoria di nullità degli eventuali atti difformi dal giudicato.
La sentenza del giudice amministrativo accerta fatti, situazioni, rapporti ed esprime un giudizio di legittimità o illegittimità sui provvedimenti che li hanno generati e disciplinati. Il giudicato rende irreversibili accertamenti e giudizi. Cosa è un il giudizio amministrativo che nella sua parte preponderante sia orientato a dettare, o a contribuire a dettare, regole per l'azione futura, cosa è il giudicato che tocca vicende chiuse per le quali il provvedimento impugnato aveva inteso scrivere la parola "fine".
In buona sostanza, quando la discussione sia stata trasferita in sede giurisdizionale, tanto (come nello specifico) amministrativa quanto ordinaria, tale trasferimento ha effetto, per così dire, coprente, cioè costituisce uno sviluppo ulteriore, rispetto alla sede/fase anteriore di confronto, cui quindi non si può ritornare come se detta devoluzione non vi fosse stata.
Il descritto sistema, evidentemente, va raccordato con l'esigenza del dipendente di vedere esaminate nuove prove, nel senso che possono essere attivate le procedure di rivisitazione della vicenda ma soltanto nei limiti in cui ciò la legge consente.
Ed allora va ricordato che l'art. 36 legge n. 1034/1971 prevede: "Contro le decisioni pronunziate dal Consiglio di Stato in secondo grado sono ammessi il ricorso per revocazione, nei casi e nei termini previsti dall'articolo 396 del codice di procedura civile, e il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione".
Invero la norma indicata non richiama espressamente l'art. 395 c.p.c. (Casi di revocazione) "Le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: 1) se sono l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra ; 2) se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza. 3) se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario; 4) se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare; 5) se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione; 6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato". Tuttavia tale aporia processuale non esclude, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, la possibilità di chiedere la revocazione di quelle sentenze quando siano affette da errore di fatto o contrarie a un precedente giudicato. Si è infatti rilevato che, nel sistema del processo amministrativo, la revocazione ordinaria delle decisioni del Consiglio di Stato in appello, se non è prevista dall'art. 36 legge n. 1034 del 1971, può ritenersi compresa nella previsione dell'art. 46 T.U. n. 1054 del 1924, che rinviando ai " casi stabiliti dal c.p.c. " allude evidentemente all'art. 395 (oltre che dall'art. 81 R.D. n. 642 del 1907) e che non è limitata alle decisioni pronunciate in primo grado. L'art. 36 legge n. 1034 del 1971 è norma speciale che non può però contraddire a quella generale né portare ad una esclusione di rimedi da questa previsti. È stato così ritenuto che l'art. 36 legge n. 1034 del 1971 non deroghi all'art. 46 T.U. n. 1054 del 1924 perché non è incompatibile con questo (quello prevede la revocazione straordinaria, questo tanto la revocazione straordinaria quanto quella ordinaria). L'art. 46, siccome si applica a tutte le decisioni del Consiglio di Stato, si applica a quelle pronunciate in secondo grado. L'art. 36 si sovrappone all'art. 46 senza effetti di antinomia (cfr. in tal senso ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 9 luglio 2002, n. 3823 Consiglio di Stato, sez. VI, 7 agosto 2002, n. 4123 Consiglio di Stato, sez. VI, 2 settembre 2002, n. 4399 Consiglio di Stato, sez. IV, 17 settembre 2002, n. 4670).
Da tanto consegue che, a fronte di un intervenuto giudicato amministrativo, non poteva essere disposta la "riapertura" del procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 13 all. 1 del ROP dell'I.N.P.S., residuando solo in favore del dipendente il rimedio della revocazione ex art. 395 c.p.c..
Alla luce delle considerazioni che precedono l'appello proposto da D.A. deve essere rigettato, sia pure con diversa motivazione.
La regolamentazione delle spese processuali del presente grado di giudizio segue la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Potenza, Sezione del Lavoro, definitivamente pronunziando sull'appello proposto da D.A. con atto depositato in data 4/3/2010 nei confronti dell'I.N.P.S. e sull'appello incidentale proposto dall'I.N.P.S. con atto depositato in data 14/10/2008 avverso la sentenza del Tribunale di Melfi n. 199/2009 pronunziata in data 17/4/2009, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa così provvede:
1) rigetta l'appello principale;
2) dichiara inammissibile l'appello incidentale;
3) condanna D.A. al pagamento in favore dell'I.N.P.S. delle spese processuali del presente grado di giudizio che liquida in complessivi euro 1.575,00 di cui euro 600,00 per diritti, euro 800,00 per onorari ed euro 175,00 per rimborso forfettario oltre accessori come per legge.
Potenza, 11/11/2010

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