DIRITTO PENALE. Esercizio abusivo della professione medica: quando scatta la truffa? Cass. pen. 9 febbraio 2011 n. 4641.



Nota dell'Avv. Augusto Careni.

Interessante caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte in tema di esercizio abusivo della professione. In appello un medico di base, specialista in neurologia, e la moglie, collaboratrice nello studio del primo ma laureata in lettere, venivano condannati per il delitto continuato di concorso in esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta e truffa aggravata.

In Cassazione i due imputati si difendono sostenendo in ordine all’esercizio abusivo della professione che il medico chirurgo, essendo abilitato ad attività di "diagnosi di prevenzione e sostegno psicologico", potesse quindi porre in essere le terapie per disagi “minori". Viene sostenuto ancora che in realtà vi era stato solo un intervento diagnostico preventivo di "proposta" terapeutica da parte del medico, con la conseguenza che sarebbe corretto ritenere il medico concorrente ex art. 110 c.p. per l'attività di agevolatore della attività della moglie.
In merito al reato di truffa poi i ricorrenti sostengono che la carenza dei titoli professionali era nota a tutti i frequentatori dello studio medico, stante anche la corretta indicazione dei ruoli riportata nella "brochure di studio". Viene quindi dedotta la carenza del dolo del delitto di truffa ritenuto per avere fornito trattamenti psicoterapeutici non erogabili, stante l'assenza di movente poichè avrebbero potuto essere richiesti onorari "per altre legittime prestazioni che lo studio medico era in grado di erogare.
I giudici di piazza Cavour la giurisprudenza di legittimità evidenziano, rifacendosi a costante giurisprudenza che risponde, a titolo di concorso, del delitto di esercizio abusivo di una professione, chiunque consenta o agevoli lo svolgimento da parte di persona non autorizzata di un'attività professionale, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato (Cass. 9.4.09 n. 17893, depositata 29.4.09, rv. 243657). 
In ordine al delitto di truffa aggravata, invece, non ravvisandosi l'elemento costitutivo dell'induzione in errore con artifici o raggiri diretti ad effettuare le sedute psicologiche, il reato non sussiste.
Ed infatti veniva accertato che le parti lese presentavano problemi inerenti la sfera psicologica o comportamentale, tali da richiedere eventuale idonea terapia, mentre la convinzione delle stesse di trovarsi dinanzi a persona qualificata non è stata conseguente ad esibizione di titoli inesistenti o da esplicite affermazioni ma da un comportamento di fatto non specificatamente rivolto a far credere l'esistenza di titoli professionali da parte della moglie del medico titolare dello studio.
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Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 17-12-2010) 09-02-2011, n. 4641
Svolgimento del processo e motivi della decisione 
Il difensore di C.D. e G.F. propone ricorso avverso la sentenza sopra indicata che ha confermato la responsabilità dei prevenuti, in ordine al delitto continuato di concorso in esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta e truffa aggravata (artt. 110, 81, 348 e 640 c.p., art. 61 c.p., n. 11).
I giudici di merito hanno accertato che la C. (laureata in lettere con diplomi nel settore della naturopatia, collaboratrice nello studio del marito G., medico di base, specialista in neurologia) aveva con il consenso ed il concorso del titolare dello studio, svolto attività proprie della professione di psicologo.
Entrambi inoltre avevano ingenerato nei querelanti la convinzione della necessità di sottoporsi a sedute di psicoterapia, ingenerando la convinzione di affidarsi a persona qualificata ed abilitata a quelle pratiche percependo l'ingiusto profitto di onorari percepiti in contanti senza ricevute anche con riferimento a sedute non effettuate per sopravvenuti impedimenti dei querelanti.
Il ricorrente deduce violazione di legge e difetto di motivazione di responsabilità fondata su false ed inattendibili dichiarazioni delle parti offese, rilevando, quanto al delitto di esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta che il dott. G. è medico chirurgo abilitato ad attività di "diagnosi di prevenzione e sostegno psicologico" quindi abilitato a "porre in essere le terapie per questi disagi minori". Rileva che per due delle parti offese ( M. ed il figlio F.P.) vi fu un intervento diagnostico preventivo di "proposta" terapeutica da parte del G., con la conseguenza che non è corretto ritenere il medico concorrente ex art. 110 c.p.per l'attività di agevolatore della attività della moglie C., influendo detto dato di fatto sull'elemento soggettivo del ritenuto delitto di truffa. Espone considerazioni sull'attività dello studio G. e sui convincimenti terapeutici di questo prevenuto che, ove interessato, avrebbe avuto titolo ad iscriversi nell'albo degli psicoterapeuti e che potrebbe rispondere eventualmente solo a titolo di colpa per "non avere adeguatamente vigilato sul comportamento del proprio subordinato C.". Deduce inoltre difetto di motivazione in ordine al delitto di truffa ritenuta per comportamento omissivo dei prevenuti per avere taciuto la carenza di titoli professionali della C., carenza che peraltro era nota a tutti i frequentatori dello studio medico, stante anche la corretta indicazione dei ruoli riportata nella "brochure di studio". Deduce la carenza del dolo del delitto di truffa ritenuto per avere fornito trattamenti psicoterapeutici non erogabili, stante l'assenza di movente poichè avrebbero potuto essere richiesti onorari "per altre legittime prestazioni che lo studio medico G. era in grado di erogare".
Le doglianze in ordine alla credibilità delle dichiarazioni delle parti offese si sostanziano in censure all'apparato motivazionale della decisione. Nel giudizio di Cassazione deve essere accertata la coerenza logica delle argomentazioni seguite dal giudice di merito nel rispetto delle norme processuali e sostanziali. Ai sensi del disposto di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E), la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità comporta dimostrare che il provvedimento è manifestamente carente di motivazione o di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti operata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali (Cass. S.U. 19.6.96, De Francesco). Esula infatti dai poteri della Corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Cass. S.U. 2.7.97 n. 6402, ud. 30.4.97, rv.207944, Dessimone). Il giudice di merito inoltre non è tenuto a confutare ogni specifica argomentazione dedotta con l'atto di appello in quanto il concetto di mancanza di motivazione non include ogni omissione concernente l'analisi di determinati elementi probatori perchè un elemento probatorio estrapolato dal contesto in cui esso si inserisce acquista un significato diverso a quello attribuibile in una valutazione completa delle prove acquisite (Cass. 1, 22.12.98 n. 13528, ud. 11.11.98, rv. 212053). Non può quindi dedursi vizio di motivazione per avere il giudice di merito trascurato uno o più elementi di valutazione che ad avviso del ricorrente avrebbero potuto o dovuto portare ad una diversa valutazione, perchè ciò si tradurrebbe in una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità (Cass. 5, 17.4.00 n. 2459, Garasto; Cass. 1, 11.6.92 n. 6922, ud. 11.5.92, Cannarozzo). Nella concreta fattispecie la Corte ha doverosamente valutato le dichiarazioni delle tre parti offese rilevando che le "lievi discrepanze tra il contesto temporale di frequentazione" si spiega non illogicamente con il decorso del tempo e con la genuinità delle dichiarazioni non concordate in una contesto familiare, mentre le doglianze dei ricorrenti al riguardo si palesano generiche non indicando concrete contraddizioni nelle dichiarazioni dei querelanti.
Le censure relative al concorso del G. devono essere rigettate, avendo la giurisprudenza di legittimità evidenziato che risponde, a titolo di concorso, del delitto di esercizio abusivo di una professione, chiunque consenta o agevoli (come accertato nel caso concreto) lo svolgimento da parte di persona non autorizzata di un'attività professionale, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato (Cass. 9.4.09 n. 17893, depositata 29.4.09, rv. 243657). Nella concreta fattispecie è rimasto accertato che il G. ha consentito nel proprio studio professionale attività di psicoterapeuta a persona non autorizzata (Cass. 6, 16.1.73 n. 2268, depositata 20.3.73, rv. 243657). Nè le doglianze possono essere riferite all'elemento soggettivo stante l'accertato dolo generico comprovato dall'intervento diretto sui querelanti per essere seguiti con sedute psicologiche dalla moglie. Inconferenti i riferimenti alle possibilità di erogare cure diverse che nel caso concreto non sono state nè richieste nè effettuate. I ricorsi devono peraltro trovare accoglimento con riferimento al ritenuto delitto di truffa in ordine al quale non sussiste l'elemento costitutivo dell'induzione in errore con artifici o raggiri diretti ad effettuare le sedute psicologiche.
Ciò in quanto è comunque stato accertato che le parti lese presentavano problemi inerenti la sfera psicologica o comportamentale, tali da richiedere eventuale idonea terapia mentre la convinzione delle stesse di trovarsi dinanzi a persona qualificata non è stata conseguente ad esibizione di titoli inesistenti o da esplicite affermazioni ma da un comportamento di fatto non specificatamente rivolto a far credere l'esistenza di titoli professionali da parte della moglie del dott. G..
All'annullamento senza rinvio limitatamente al delitto di truffa segue la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Milano per la determinazione della pena in ordine al residuo delitto, fermo restando il principio che in caso di rinvio per la sola determinazione della pena il giudicato (progressivo) formatosi sull'accertamento del reato e della responsabilità dell'imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l'applicazione di cause estintive successive all'annullamento parziale, trattandosi di cause sopravvenute non incidenti su quanto deciso in maniera definitiva (Cass. S.U. 23.5.97 n. 4904, ud. 26.3.97, rv. 207640).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al delitto di truffa perchè il fatto non sussiste; rigetta nel resto e dispone trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte di appello di Milano per la determinazione della pena in ordine al reato di cui all'art. 348 c.p..

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