CIVILE. LAVORO. Diffamare un collega di lavoro puņ comportare il licenziamento per giusta causa. Cass. civ. lav. n. 16381 del 17 luglio 2014.



In tema di sanzioni disciplinari il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso nel senso rigoroso imposto nella materia degli illeciti penali, dovendosi, invece, distinguere tra gli illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente attinenti all'organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e quindi conoscibili solo se espressamente previste ed inserite nel codice disciplinare da affiggere ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 7, e quelli costituiti da comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell'impresa o dei lavoratori, per i quali non è necessaria la specifica inclusione nello stesso codice disciplinare, poichè, in questi ultimi casi che possono legittimare il recesso del datore di lavoro per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il potere sanzionatorio deriva direttamente dalla legge. Cass. Civ. Sez. Lav. n. 16581 del 17 luglio 2014; conf. Cass. sez. lav. n. 18377 del 23 agosto 2006. 

Chi insulta ed offende un proprio collega sul posto di lavoro, è passibile di licenziamento per giusta causa. Queste le conclusioni a cui giunge la Suprema Corte confermando la sentenza della corte d’appello che aveva confermato come legittimo il licenziamento inflitto dal datore di lavoro ad un dipendente che aveva inveito violentemente contro un collega. Il lavoratore licenziato non aveva partecipato alle visite collegiali della squadra di lavoro ed aveva fornito ad un utente informazioni scorrette ed offensive circa l'esecuzione di un intervento chirurgico da parte di un suo collega. 

Per la Corte tali addebiti erano in grado di minare il rapporto di fiducia ed erano, perciò, riconducibili al concetto di giusta causa del recesso, senza che si ponesse rispetto alla contestazione di tali condotte la necessità della previa affissione del codice disciplinare.

Civ. Lav. n. 16381 del 17 luglio 2014.

Con sentenza dell'8/10 - 16/11/2010 la Corte d'appello di Ancona ha respinto l'impugnazione proposta da P.G. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale dello stesso capoluogo che gli aveva rigettato la domanda con la quale agli aveva chiesto l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli il 15/12/1999 dall'Azienda ospedaliera - universitaria degli ospedali riuniti "Umberto I - G.M. Lancisi - G. Salesi".

Ha spiegato la Corte che gli addebiti disciplinari, che non rappresentavano delle ipotesi di responsabilità dirigenziale, erano consistiti nei seguenti fatti: - Il P. aveva inveito violentemente contro un collega; il medesimo non aveva partecipato alle visite collegiali della squadra di lavoro ed aveva fornito ad un utente informazioni scorrette ed offensive circa l'esecuzione di un intervento chirurgico da parte di un suo collega.

Ha aggiunto la Corte che tali addebiti erano in grado di minare il rapporto di fiducia ed erano, perciò, riconducibili al concetto di giusta causa del recesso, senza che si ponesse rispetto alla contestazione di tali condotte la necessità della previa affissione del codice disciplinare. Per la cassazione della sentenza propone ricorso P.G. con quattro motivi.

Resiste con controricorso la predetta Azienda ospedaliera.

DIRITTO

1. Col primo motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 59, comma 3, art. 58 bis, e dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, nonchè la carente, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in quanto ritiene che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, le contestate violazioni non erano riferibili a comportamenti manifestamente contrastanti con la legge e col contratto o con valori comunemente accettati, tanto più che il provvedimento di licenziamento faceva riferimento alla violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento dei pubblici dipendenti approvato con D.M. 31 marzo 1994. In concreto, il ricorrente sostiene che egli non aveva violato regole di legge o di convivenza civile di gravità tale da giustificare l'eccezione alla regola della necessaria tipizzazione delle infrazioni e delle relative sanzioni e della conseguente necessità della loro pubblicazione. Il motivo è infondato. Invero, con argomentazione condivisibile, la Corte di merito ha spiegato che per le sanzioni espulsive sussiste la necessità della previsione del codice disciplinare per le sole condotte che in relazione alle peculiarità dell'attività o dell'organizzazione dell'impresa possano integrare ipotesi di giusta causa o giustificato motivo oggettivo, per cui la doglianza basata sulla prospettata necessità della pubblicità del codice disciplinare è superata dalla considerazione che nella fattispecie si trattava di violazioni avvertite dalla coscienza sociale quale minimo etico, quali, appunto, il fatto di inveire violentemente contro un collega di lavoro, fornire informazioni denigratorie sull'operato di un collega e non osservare le direttive di lavoro. Quindi, in tema di sanzioni disciplinari il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso nel senso rigoroso imposto nella materia degli illeciti penali, dovendosi, invece, distinguere tra gli illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente attinenti all'organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e quindi conoscibili solo se espressamente previste ed inserite nel codice disciplinare da affiggere ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 7, e quelli costituiti da comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell'impresa o dei lavoratori, per i quali non è necessaria la specifica inclusione nello stesso codice disciplinare, poichè, in questi ultimi casi che possono legittimare il recesso del datore di lavoro per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il potere sanzionatorio deriva direttamente dalla legge, (v. ad es. Cass. Sez. lav. n. 18377 del 23.8.2006).

2. Col secondo motivo il P. si duole della violazione degli artt. 36 e 59 del ccnl del 5/12/1996, dell'art. 2119 c.c., del D.Lgs. n. 29 del 1993, artt. 20, 21 e 29, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 22, art. 55, comma 4, e art. 59, nonchè dell'omessa motivazione su un punto decisivo della controversia nella parte in cui la Corte d'appello ha ritenuto corretto il procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare posto in essere dal Direttore Generale dell'azienda convenuta. In pratica si contesta la parte della decisione della Corte d'appello in cui si è escluso che nella fattispecie ricorresse un'ipotesi di responsabilità dirigenziale e si sostiene, invece, che nel pubblico impiego contrattualizzato trova applicazione il principio secondo cui nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 59, comma 4, trasfuso nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, tutte le fasi del procedimento disciplinare sono svolte esclusivamente dall'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, il quale è anche l'organo competente all'irrogazione delle sanzioni, ad eccezione del rimprovero verbale e della censura, con la conseguenza che il procedimento instaurato da un soggetto diverso, come nella fattispecie il Direttore Generale, dal predetto ufficio è illegittimo e la sanzione irrogata è nulla. Il motivo è inammissibile, essendo fondata l'eccezione di novità della questione, così come evidenziata dalla difesa dell'azienda ospedaliera, eccezione che trova riscontro nel fatto che dalla lettura della sentenza della Corte di merito non emerge che tale tema sia stato trattato in quella sede. Invero, non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità le questioni non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, nè rilevabili di ufficio. Quindi, è onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della questione, (v. ad es. Cass. Sez. 1, n. 23675 del 18/10/2013).

3. Attraverso il terzo motivo si denunzia l'erronea applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, e degli artt. 21 e 59, del CCNL di settore, nonchè la erroneità della motivazione in quanto si contesta l'affermazione della Corte di merito secondo la quale nella fattispecie era da escludere che gli addebiti posti a base del licenziamento disciplinare, anche con riferimento allo specifico episodio della mancata partecipazione alle visite programmate per la squadra dei medici, fossero da ricondurre alla tipica responsabilità dirigenziale. Tale motivo è infondato in quanto la Corte territoriale ha spiegato, con motivazione congrua ed esente da rilievi di carattere logico- giuridico, che dalla lettura dell'atto di recesso emergeva ben chiara la volontà della parte datoriale di sanzionare in via disciplinare il dipendente, tenuto anche conto del fatto che nell'ambito della cosiddetta responsabilità dirigenziale (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 21) viene in considerazione il complessivo profilo gestionale del dirigente in relazione al conseguimento di obiettivi prefissati. In particolare, la stessa Corte ha evidenziato che l'esclusione di una forma di responsabilità dirigenziale balzava evidente dalla disamina delle contestazioni inerenti gli episodi in cui il P. aveva inveito violentemente contro il collega Dott. M. ed aveva pronunziato frasi offensive sull'operato di un collega nel rivolgersi alla madre di un paziente. Egualmente la Corte ha escluso la ricorrenza di una ipotesi di responsabilità dirigenziale nel fatto contestato al ricorrente di non aver partecipato alle visite collegiali di "èquipe" (squadra), in quanto le norme collettive di riferimento di cui agli artt. 21 e 22, contemplavano l'intervento del Comitato dei garanti per le ipotesi di responsabilità di carattere gestionale che esulavano dai casi di condotte realizzate in violazione di singoli doveri e che inerivano, invece, ad un apprezzamento globale dell'attività del singolo dirigente. Oltretutto, la Corte d'appello ha rilevato che il fatto stesso che l'amministrazione aziendale aveva contestato al dipendente quest'ultima inosservanza insieme alle altre condotte di cui sopra dimostrava che l'addebito non era conseguente ad una valutazione complessiva di scarso rendimento, ma riguardava specifici inadempimenti.

4. Attraverso il quarto motivo il ricorrente articola una serie di censure con riferimento ad ognuno dei tre episodi oggetto della contestazione disciplinare. In particolare, per quel che concerne il primo addebito relativo al fatto di aver violentemente inveito contro il collega dr. M., il ricorrente denunzia la violazione dell'art. 112 c.p.c., per inosservanza del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato in quanto, a suo dire, in mancanza di un appello incidentale dell'azienda ospedaliera avverso la parte della decisione del giudice di primo grado che aveva escluso la gravità di tale episodio la Corte d'appello non avrebbe potuto esaminare la questione, ritenendo, invece, rilevante la suddetta contestazione disciplinare. Nel contempo il ricorrente denunzia per tale specifico addebito la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2119 c.c., nonchè vizi della motivazione con riferimento alla valutazione delle prove. In merito al secondo addebito, vale a dire quello riguardante la sua mancata presentazione alle visite collegiali di "equipe", il P. deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., e degli artt. 1455, 2119, 2697 c.c. e segg., nonchè vizi della motivazione in ordine alla valutazione del materiale probatorio. In pratica, il ricorrente ribadisce a tal riguardo che si versava in ipotesi di responsabilità dirigenziale per la quale avrebbe dovuto essere adottato il procedimento previsto dall'art. 59 del CCNL di settore nel rispetto delle norme di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, artt. 20 e 21, e che la Corte di merito avrebbe applicato in modo improprio il principio della non contestazione in quanto non era vero che egli aveva confermato di non aver partecipato alle suddette visite, essendosi limitato ad esternare una presa di posizione su un dato di fatto che, quand'anche provato, non comportava un suo colpevole inadempimento, per cui il corrispondente onere probatorio non poteva che ricadere sulla controparte interessata a dimostrare la violazione delle sue direttive. Inoltre, la contestazione di tale addebito sarebbe stata formulata in termini generici in conseguenza di una carente istruttoria disciplinare. Quanto al terzo addebito, cioè quello di aver espresso giudizi denigratori sull'operato di un collega nel colloquio con la madre di un paziente, il ricorrente osserva che in tal caso sarebbero state violate le norme di cui agli artt. 1455, 2119, 2729, 2697 c.c. e segg., artt. 115 e 116 c.p.c., e sarebbero emersi vizi della motivazione in merito alla valutazione del materiale probatorio. In particolare, il P. osserva che la frase incriminata, la cui esistenza era stata da lui contestata, era contenuta esclusivamente nella querela sporta dalla signora L., la quale non l'aveva confermata in sede di audizione testimoniale e dalla sentenza non emergevano circostanze atte a far ritenere che egli l'avesse realmente pronunziata, essendosi, invece, limitato a riferire alla L. quelle che erano le reali condizioni di salute del figlio. Osserva la Corte che il quarto motivo è infondato. Anzitutto, quanto alla prima doglianza sull'asserita violazione dell'art. 112 c.p.c., è sufficiente rilevare che l'azienda ospedaliera era risultata vittoriosa in primo grado ed in seconde cure aveva reiterato le proprie eccezioni avverso i singoli motivi d'appello della controparte rimasta soccombente, motivi che investivano la questione della gravità dei fatti oggetto degli addebiti disciplinari, evitando, in tal modo, la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell'art. 346 cod. proc. civ., per cui non era necessario, difettando un suo interesse al riguardo, che proponesse anche appello incidentale (in tal senso v. ad es. Cass. Sez. 1 n. 24021 del 26/11/2010). Egualmente infondato è il richiamo svolto al concetto di responsabilità dirigenziale in ordine all'addebito riguardante la mancata partecipazione alle visite collegiali di "equipe", atteso che, come si è già spiegato in occasione dell'esame del terzo motivo del presente ricorso, la Corte territoriale ha escluso, con adeguata e logica motivazione, la ricorrenza di tale forma di responsabilità nella fattispecie, considerando, invece, la sussistenza di una tipica responsabilità disciplinare connessa all'inosservanza di una specifica direttiva datoriale. Quanto alle restanti censure sulla gravità dei singoli episodi, sulla proporzione delle sanzioni, sulla valutazione del materiale probatorio e sul rigetto di specifiche richieste istruttorie si osserva che le stesse contengono inammissibili rivisitazioni del merito probatorio adeguatamente valutato dalla Corte d'appello con giudizio di fatto adeguatamente illustrato ed immune da vizi di carattere logico-giuridico, che si sottrae, pertanto, ai rilievi di legittimità. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 4000,00 per compensi professionali e di Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 11 marzo 2014. Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2014

- CONSULTA ANCHE DIRITTO DEL LAVORO.

Legittimo il licenziamento del lavoratore che incita ad atti di sabotaggio anche in assenza di precedenti sanzioni disciplinari. Cass. civ. lav. 18 gennaio 2011 n. 1074. 

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