DENTOLOGIA FORENSE: dovere di collaborazione con il Consiglio dell'Ordine e incompatibilitą  con la carica di presidente di un c.d.a. Cass. Sez. Un. 28 febbraio 2011 n. 4773.



L’art. 24 del Codice Deontologico dispone che "L'avvocato ha il dovere di collaborare con il Consiglio dell'Ordine di appartenenza, o con altro che ne faccia richiesta, per l'attuazione delle finalità istituzionali osservando scrupolosamente il dovere di verità. A tal fine ogni iscritto è tenuto a riferire al Consiglio fatti a sua conoscenza relativi alla vita forense o alla amministrazione della giustizia, che richiedano iniziative o interventi collegiali.

1. Nell'ambito di un procedimento disciplinare, la mancata risposta dell'iscritto agli addebiti comunicatigli e la mancata presentazione di osservazioni e difese non costituisce illecito disciplinare, pur potendo tali comportamenti essere valutati dall'organo giudicante nella formazione del proprio libero convincimento.

2. Qualora il Consiglio dell'Ordine richieda all'iscritto chiarimenti, notizie o adempimenti in relazione ad un esposto presentato da una parte o da un collega tendente ad ottenere notizie o adempimenti nell'interesse dello stesso reclamante, la mancata sollecita risposta dell'iscritto costituisce illecito disciplinare".”
 
“Il secondo capoverso” – affermano le Sezioni Unite con la sentenza in esame – “dell'art. 24 del codice deontologico forense deve pertanto essere interpretato - come il suo tenore testuale consente - nel senso che sanziona la mancata risposta dell'avvocato alla richiesta del Consiglio dell'ordine relativa a un esposto presentato nei confronti di un altro iscritto”.
Il principio da enunciare è dunque: "Non costituisce l'illecito disciplinare sanzionato dal secondo capoverso dell'art. 24 del codice deontologico forense la mancata risposta dell'avvocato alla richiesta del Consiglio dell'ordine di chiarimenti, notizie o adempimenti in relazione a un esposto presentato, per fatti disciplinarmente rilevanti, nei confronti dello stesso iscritto".
Le Sezioni Unite sono state chiamate  pronunciarsi anche sulla eventuale incompatibilità tra la professione di avvocato e la carica di presidente o amministratore unico di società commerciale.
In linea con costante orientamento (Cass. Sez. Un. 5 gennaio 2007 n. 37), le Sezioni Unite hanno affermato che l'incompatibilità di cui si tratta è configurabile "laddove l'avvocato assuma la carica di presidente del consiglio di amministrazione e/o di amministratore delegato di società commerciale con attribuzione, in forza di norme di legge o di statuto, di concreti ed effettivi poteri di gestione o di rappresentanza", indipendentemente quindi dalla circostanza che la società non svolga attività e che i poteri suddetti non vengano di fatto esercitati. 
Si è inoltre evidenziato che la eventuale non concreta operatività della società commerciale è "una condizione effimera, priva di stabilità anche perchè soggetta a condizioni di mercato, che non priva la società della sua qualità di impresa, nè la sottrae agli adempimenti e ai controlli previsti dalla legge, ed è pertanto meramente contingente".
 
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Cass. Sezioni Unite del 28 febbraio 2011 n. 4773.
Con decisione del 26 settembre 2008 il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Pistoia ha irrogato all'avvocato P.A. la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per quattro mesi, dichiarandola responsabile di 1) "non avere fornito al Presidente del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Pistoia, che ne aveva fatto espressa richiesta con lettera inviata il 28 maggio 2007, le proprie deduzioni in relazione all'esposto presentato da L.P. violando con tale comportamento l'art. 24, n. 2 del Codice Deontologico, nonchè i doveri di correttezza e diligenza con cui l'avvocato deve svolgere la propria attività professionale sanciti dagli artt. 6 e 7 del Codice Deontologico"; - 2a) "avere agito in giudizio in ma la fede atteso che la sig.ra I.F. non era stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato per la causa poi effettivamente promossa (azione per condanna al pagamento di Euro 400.000,00 quale corrispettivo di una compravendita"; - 2b) "avere utilizzato il provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato concesso per promuovere una causa di risarcimento danni per responsabilità professionale ed illecita gestione di conti correnti bancari contro soggetto diverso da quelli poi convenuti in giudizio, avendo con tale condotta violato i doveri di lealtà, correttezza e diligenza di cui agli artt. 6 e 8 del Codice Deontologico, con grave danno per l'assistita conseguente alla revoca dell'ammissione al gratuito patrocinio"; 3a) "avere assunto la carica di Amministratore Unico della società A. I. S. S.r.l. dal 4/3/2004 all'11/1/2007 violando il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, che prevede l'incompatibilità fra la carica di amministratore di una società e l'esercizio della professione forense"; 3b) "non avere fornito al Consiglio dell'Ordine i chiarimenti richiesti in relazione alla propria posizione nell'ambito della società A. I. S. S.r.l.
nonostante la espressa richiesta contenuta nella lettera 3/1/2008 del Presidente del Consiglio dell'Ordine".
Impugnato dall'avvocato P.A., il provvedimento è stato confermato dal Consiglio nazionale forense, che con decisione del 12 maggio 2010 ha rigettato il gravame.
L'avvocato P.A. ha proposto ricorso per cassazione, in base a cinque motivi. Il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Pistoia non ha svolto attività difensive nel giudizio di legittimità.
DIRITTO
Con il primo e il secondo motivo di ricorso l'avvocato P.A. formula una stessa censura, con riferimento rispettivamente ai fatti di cui ai capi di incolpazione 1) e 3b): sostiene che la mancata (o incompleta) risposta alle richieste di chiarimenti rivoltele a proposito dei due esposti presentati nei suoi confronti è stata erroneamente qualificata dal Consiglio nazionale forense come violazione dell'art. 24 dei codice deontologico.
La doglianza deve essere accolta.
La norma citata dispone:
"L'avvocato ha il dovere di collaborare con il Consiglio dell'Ordine di appartenenza, o con altro che ne faccia richiesta, per l'attuazione delle finalità istituzionali osservando scrupolosamente il dovere di verità. A tal fine ogni iscritto è tenuto a riferire al Consiglio fatti a sua conoscenza relativi alla vita forense o alla amministrazione della giustizia, che richiedano iniziative o interventi collegiali.
1. Nell'ambito di un procedimento disciplinare, la mancata risposta dell'iscritto agli addebiti comunicatigli e la mancata presentazione di osservazioni e difese non costituisce illecito disciplinare, pur potendo tali comportamenti essere valutati dall'organo giudicante nella formazione del proprio libero convincimento".
2. Qualora il Consiglio dell'Ordine richieda all'iscritto chiarimenti, notizie o adempimenti in relazione ad un esposto presentato da una parte o da un collega tendente ad ottenere notizie o adempimenti nell'interesse dello stesso reclamante, la mancata sollecita risposta dell'iscritto costituisce illecito disciplinare".
Il Consiglio nazionale forense ha ritenuto che il secondo capoverso sia applicabile anche nell'ipotesi in cui i chiarimenti, le notizie o gli adempimenti vengano richiesti all'iscritto, come nella specie, relativamente a un esposto presentato nei confronti di lui stesso e attinente a fatti in cui sia ravvisabile un illecito disciplinare: è pervenuto a tale conclusione osservando che dopo l'apertura di un procedimento disciplinare "il dovere di collaborare ... trova un limite nel diritto di difesa, che è prevalente costituendo un diritto costituzionalmente garantito", mentre nella fase preliminare, "che trova la fonte nel diritto vivente formatosi nella giurisprudenza disciplinare", l'avvocato "da un lato ha l'obbligo (oltre al diritto) di chiarire il suo comportamento nei confronti dei reclamante, e dall'altro ha il dovere di fornire al Consiglio, investito con l'esposto del dovere di valutare la sussistenza delle condizioni per aprire un procedimento, elementi che consentano ad esso il pieno e corretto esercizio delle sue funzioni istituzionali che tutelano prioritariamente un interesse pubblico".
La tesi non è condivisibile.
Nella stessa decisione impugnata si riconosce che una fase preliminare del procedimento disciplinare "non è prevista dalla legge". In effetti, il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 47, espressamente include nell'ambito dei "procedimenti disciplinari che siano stati iniziati" il momento della raccolta delle "opportune informazioni", dei "documenti... necessari" e delle "deduzioni che...pervengano dall'incolpato e dal pubblico ministero". 
L'istruzione predibattimentale non è dunque una fase precedente ed esterna al procedimento, nella quale l'avvocato sia tenuto, "osservando scrupolosamente il dovere di verità", a dare "sollecita risposta" a richieste di "chiarimenti, notizie o adempimenti" in ordine a fatti che possono comportare una sua responsabilità disciplinare. Così intesa, la norma in esame contrasterebbe con la regola, basilare del diritto processuale in ogni campo, del nemo tenetur cantra se edere, che è espressione del diritto di difesa costituzionalmente garantito e prevale quindi sull'esigenza del "pieno e corretto esercizio delle... funzioni istituzionali" dei Consigli degli ordini degli avvocati. Il secondo capoverso dell'art. 24 del codice deontologico forense deve pertanto essere interpretato - come il suo tenore testuale consente - nel senso che sanziona la mancata risposta dell'avvocato alla richiesta del Consiglio dell'ordine relativa a un esposto presentato nei confronti di un altro iscritto.
Il principio da enunciare è dunque: "Non costituisce l'illecito disciplinare sanzionato dal secondo capoverso dell'art. 24 del codice deontologico forense la mancata risposta dell'avvocato alla richiesta del Consiglio dell'ordine di chiarimenti, notizie o adempimenti in relazione a un esposto presentato, per fatti disciplinarmente rilevanti, nei confronti dello stesso iscritto".
Il terzo motivo di impugnazione attiene al fatto di cui al capo di incolpazione 3a): secondo la ricorrente l'assunzione da parte sua della qualità di amministratore unico della s.r.l. Arcadia International Service non è avvenuta in violazione del divieto sancito dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 3, convertito con L. 22 gennaio 1934, n. 36, poichè la società era "formalmente e di fatto inattiva" e "nessuna attività di gestione era stata posta in essere" dall'avvocato P.A..
L'assunto va disatteso.
La decisione impugnata, sul punto, è coerente con la giurisprudenza di questa Corte in materia (Cass. s.u. 5 gennaio 2007 n. 37), la quale è orientata nel senso che l'incompatibilità di cui si tratta è configurabile "laddove l'avvocato assuma la carica di presidente del consiglio di amministrazione e/o di amministratore delegato di società commerciale con attribuzione, in forza di norme di legge o di statuto, di concreti ed effettivi poteri di gestione o di rappresentanza", indipendentemente quindi dalla circostanza che la società non svolga attività e che i poteri suddetti non vengano di fatto esercitati. Da questo indirizzo non vi è ragione di discostarsi, poichè la non operatività, come correttamente ha osservato il Consiglio nazionale forense, è "una condizione effimera, priva di stabilità anche perchè soggetta a condizioni di mercato, che non priva la società della sua qualità di impresa, nè la sottrae agli adempimenti e ai controlli previsti dalla legge, ed è pertanto meramente contingente".
Il quarto e il quinto motivo di ricorso attengono all'unitario addebito, articolato nei capi di incolpazione 2a) e 2b), di aver proposto una domanda diversa da quella per la quale la cliente I.F. era stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato e di avere conseguentemente agito in giudizio in mala fede, con danno per l'assistita consistito nella revoca dei beneficio.
In primo luogo viene contestata la ricostruzione, compiuta dal Consiglio nazionale forense, delle vicende successive alla revoca del mandato e alla nomina di un altro difensore: le negligenze in cui l'avvocato P.A. sarebbe incorsa, per essersi disinteressata del corso ulteriore del giudizio.
Si tratta di deduzioni inconferenti, poichè riguardano considerazioni svolte bensì dal giudice a quo, ma non pertinenti al fatto che specificamente aveva formato oggetto di incolpazione e del quale la ricorrente è stata dichiarata responsabile; considerazioni quindi ultronee, che non risulta abbiano influito sulla scelta della specie e della misura della sanzione inflitta, le quali comunque dovranno essere di nuovo determinate nel giudizio di rinvio, tenendo conto soltanto dei fatti come erano stati addebitati all'avvocato P.A..
Con riguardo alla diversità tra la domanda effettivamente proposta (nei confronti degli acquirenti di un immobile di I.F., per ottenere il pagamento del prezzo) e quella cui si riferiva l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato (nei confronti del commercialista della stessa I., per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti all'appropriazione degli assegni emessi dai compratori del bene e consegnati al professionista), la ricorrente sostiene che ingiustificamente il Consiglio nazionale forense ha disconosciuto che l'azione, come esercitata, corrispondeva all'interesse e all'intento della parte.
La doglianza è infondata.
L'asserita maggiore utilità e convenienza, per la cliente, della domanda di adempimento contrattuale in luogo di quella di risarcimento, non esclude la scorrettezza dell'aver utilizzato il patrocinio a spese dello Stato per promuovere un giudizio del tutto diverso, per causa petendi, petitum e personae, da quello per il quale era stato rilasciato il provvedimento di ammissione: di "risarcimento danni per responsabilità professionale e illecita gestione di c/c bancari".
Accolti pertanto i primi due motivi di ricorso e rigettati gli altri, la decisione impugnata va cassata con rinvio al Consiglio nazionale forense.
Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate tra le parti, in considerazione del solo parziale accoglimento del ricorso.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso; rigetta gli altri;
cassa la decisione impugnata; rinvia la causa al Consiglio nazionale forense; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2011.
Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2011

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