DIRITTO CIVILE. Azione di risarcimento danni ex art. 2392 c.c. nei confronti di un amministratore di societą . necessaria la prova del pregiudizio?



La Corte di Cassazione con la sentenza n. 434 del 2012 si pronuncia su ricorso di una società che aveva adito l’autorità giudiziaria, domandando il risarcimento dei danni ex art. 2392 nei confronti dell’amministratore della stessa.

In primo grado il Tribunale aveva respinto la domanda e la sentenza, appellata dalla società, era stata confermata dalla Corte Territoriale.
Questa, infatti, rileva che la società si era limitata ad imputare all’amministratore la violazione dello statuto societario, senza però dare la prova che tali condotte avvessero arrecato pregiudizio economico alla società.
In particolare la società attribuiva all’amministratore il compimento di atti di straordinaria amministrazione senza il consenso del CdA, in due occasioni, avendo lo stesso trasatto una lite con un dipendente e avendo prelevato dal conto corrente della società un’ingente somma di denaro.
La società ricorre in Cassazione sulla base di due motivi.
In primo luogo, ritiene che la transazione per il valore economico, era da ritenere un atto di straordinaria amministrazione, e che il danno nei confronti della persona giuridica non andava provato in quanto risultava in re ipsa.
In secondo luogo, si lamenta che la Corte Territoriale avesse posto a suo carico la prova dell’utilizzazione per fini extrasociali della somma prelevata dall’amministratore.
La Corte ritiene inammissibili e infondati i motivi di ricorso.
In particolare, in riferimento alla transazione, ritengono i giudici di legittimità che la società avrebbe dovuto provare il pregiudizio economico derivante della transazione, mentre in merito al prelievo di denaro, conformemente a quanto affermato dalla Corte territoriale, ritengono provato, dalla documentazione prodotta dalla stessa società, che l’amministratore non aveva distratto per fini extrasociali la liquidità prelavata, ma l’aveva impiegata per saldare debiti della società ed a copertura degli emolumenti allo stesso dovuti per l’attività svolta negli anni ‘99 e 2000.
Dunque, in tale circostanza la ricorrente avrebbe dovuto ex art. 2697 c.c. fornire prova contraria sull’illecito utilizzo di denaro.
L’interprete, sulla base del dato normativo dell’art. 2392 c.c. , ha evidenziato come la responsabilità degli amministratori nei confronti della società può validamente distinguersi in due tipologie. Da una parte abbiamo la responsabilità derivante dagli obblighi aventi un contenuto specifico, in quanto predeterminati dalla legge o dallo statuto, dall’altra quella derivante da obblighi che si risolvono nella clusola generale di amministrare con prudenza, diligenza e non in conflitto di interessi. 
In tale ultimo, da una parte l’onere probatorio dell’attore è più gravoso in quanto, non si esaurisce nella prova dell’atto compiuto, ma investe tutti quegli elementi dai quali può dedursi che il comportamento implichi una violazione del dovere di diligenza (Cass. 17 gennaio 2007, n. 1045); dall’altra è lasciato al Giudice il compito di concretizzare la violazione.
Inoltre, l’interpretazione maggioritaria evidenzia come nel giudizio instaurato nei confronti degli amministratori, è necessario che l’attore fornisca la prova sia delle violazioni sia anche del danno derivato alla società da tale comportamento illecito.
Infatti, nelle società per azioni, l’eventuale violazione dei “doveri imposti dalla legge o dallo statuto”, non costituiscono, di per sé, presupposto sufficiente all’affermazione di responsabilità se non vi è la prova che le violazioni attribuite abbiano prodotto un pregiudizio alla società.
 
Corte di Cassazione Sez. Prima Civ. - Sent. del 16 gennaio 2012, n. 434
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 10.12.04, ha respinto l’appello proposto da Re.Al. S. Pie s.p.a. avverso la sentenza 10.10.02 del Tribunale di Monza, che aveva a sua volta respinto la domanda di risarcimento dei danni avanzata dalla società, ai sensi dell’art. 2392 c.c., nei confronti dell’amministratore B.S.
La Corte territoriale ha rilevato che Re.Al. S. Pie si era limitata ad imputare al B. di aver violato in due occasioni lo statuto societario - che gli vietava di compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il consenso del presidente del C.d.A. - per aver, di propria iniziativa, transatto una lite con un ex dipendente, riconoscendogli la somma di 55 milioni di lire, e per aver prelevato dal conto corrente ad essa intestato 180 milioni di lire, ma che non aveva provato che da tali condotte, peraltro non esulanti dai poteri gestori esercitabili autonomamente dall’appellato, le fosse derivato un pregiudizio economico; che, in particolare, la società non aveva neppure dedotto che la transazione fosse stata svantaggiosa o contraria ai suoi interessi, tenuto conto delle pretese avanzate dall’ex dipendente dinanzi al giudice del lavoro, né aveva dimostrato che la somma prelevata dal B. , di cui risultava documentato l’utilizzo, fosse stata in realtà distratta a fini extrasociali. R. S. Pie s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a due motivi.
S.B. non ha svolto difese.
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo di ricorso, Re. AI S. Pie, denunciando violazione di (non indicate) norme di diritto e vizi di motivazione, rileva che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la stipula di una transazione comportante una spesa di 55 milioni delle vecchie lire era atto sicuramente eccedente l’ordinaria amministrazione; assume, inoltre, che il danno derivato dall’illecito risultava provato in re ipsa, avendo essa dovuto versare una consistente somma di denaro ad un lavoratore le cui pretese erano contestate.
Il motivo va dichiarato inammissibile.
La domanda risarcitoria la cui causa petendi era costituita dall’avvenuta conciliazione della causa di lavoro è stata respinta dalla Corte di merito in base al duplice rilievo che l’atto non esulava dagli ordinari poteri di gestione dell’amministratore e che Re. Al. S. si era “limitata a pretendere dal B. la somma corrispondente a quella da versare, senza neppure prefigurare la svantaggiosità della transazione rispetto alle richieste avanzate avanti al giudice del lavoro dal dipendente”. Tale seconda ratio decidendi non è stata sottoposta ad alcuna critica dalla ricorrente, che, anziché precisare quali circostanze, da essa allegate nel corso del giudizio di merito e trascurate dal giudice d’appello, avrebbero dovuto convincere della sussistenza di un pregiudizio economico derivabile dalla stipula della transazione, ha assiomaticamente dedotto, per la prima volta nella presente sede di legittimità, che la mera pendenza della lite con il suo ex dipendente era sufficiente a dimostrare l’infondatezza delle pretese da questi avanzate e la conseguente sconvenienza del contratto concluso da B.
L’assenza di una specifica censura concernente una delle due autonome rationes decidendi sulle quali si fonda il capo della sentenza impugnato, rende superfluo l’esame di quella volta a contestare che la transazione costituisse atto di ordinaria amministrazione, che, quand’anche fondata, non potrebbe da sola condurre all’accoglimento del motivo.
2) Col secondo mezzo la ricorrente, denunciando ulteriore violazione di non indicate norme di diritto nonché vizio di motivazione, lamenta che la Corte territoriale abbia posto a suo carico l’onere di provare che la somma indebitamente prelevata da B. era stata utilizzata per fini extrasociali. La doglianza è infondata.
La Corte di merito ha infatti rilevato che, proprio dalla documentazione prodotta da Re.Al. S. , emergeva che l’appellato aveva utilizzato una parte della somma in questione per il pagamento di servizi fatturati dalla A. s.r.l., mentre, per l’altra parte, l’aveva trattenuta a copertura degli emolumenti dovutigli per gli esercizi ‘99 e 2000.
Ricorreva, pertanto, prova documentale che l’amministratore non aveva distratto a fini extrasociali la liquidità prelevata, ma l’aveva impiegata per saldare debiti gravanti sulla stessa Re.Al. S. : ne consegue, che, secondo la regola imposta dall’art. 2697 c.c., spettava all’odierna ricorrente di fornire la prova contraria, ovvero di dimostrare che B. aveva, in realtà, utilizzato il denaro per eseguire, in tutto o in parte, pagamenti da essa non dovuti, in tal modo cagionandole un danno di ammontare corrispondente alle somme indebitamente versate o trattenute.
Va aggiunto, per completezza, che la ricorrente non può pretendere di fornire tale prova nella presente sede di legittimità, attraverso l’inammissibile allegazione di documenti che avrebbe dovuto produrre nei precedenti gradi di merito.
Poiché Serafino B. non ha svolto difese, non v’è luogo alla liquidazione delle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
 
Depositata in Cancelleria il 16.01.2012

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