DIRITTO CIVILE. Famiglia legittima e famiglia di fatto equiparate anche ai fini del risarcimento del danno morale. Cass. civ. 7 giugno 2011 n. 12278.



Nota dell'Avv. Nunzia Liberatoscioli.

Nella sentenza n. 12278 del 7 giugno 2011, la Corte di Cassazione, anche ai fini del risarcimento del danno morale, ribadisce l’equiparazione tra la famiglia legittima e quella di fatto.

Nel caso di specie, in seguito ad un incidente stradale, l’ex moglie della vittima ed i figli legittimi, nonché la convivente e la figlia naturale dello stesso, chiedevano ciascuno il risarcimento del danno morale subito, il quale, in effetti, veniva liquidato dal giudice di primo grado in eguale misura fra la famiglia legale e quella di fatto. Tale pronuncia veniva confermata dalla Corte territoriale, per cui la compagnia assicurativa chiamata a liquidare il danno ricorreva per cassazione, adducendo, tra i vari motivi, la violazione degli artt. 2059, 2056, 1223 e 1226, c.c. e dei principi generali relativi al risarcimento del danno non patrimoniale, in quanto, a suo avviso, il giudice del merito avrebbe dovuto determinare il danno morale sulla base delle sofferenze effettivamente patite da ciascuno e non ripartendo l’importo «in modo automaticamente proporzionale tra tutti gli aventi diritto».
Pronunciandosi sulla questione, la Corte di Cassazione ha reputato il predetto motivo infondato, in considerazione del fatto che «i giudici di merito hanno proceduto alla ripartizione dell’importo dovuto per danno morale tra tutti gli aventi diritto non in modo automatico, ma, nella determinazione in concreto del danno, per ciascuno dei congiunti, hanno tenuto conto delle effettive sofferenze patite, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto».
In sostanza, ha precisato la Suprema Corte, i giudici di merito, tenendo conto della particolarità del caso concreto, non hanno fatto altro che seguire la giurisprudenza costante (cfr. Cass., 29 aprile 2005, n. 8976) che, «in materia di responsabilità civile ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno conseguente alle lesioni o alla morte di una persona in favore del convivente “more uxorio” di questa, pur richiedendo che venga fornita, con qualsiasi mezzo, la prova dell’esistenza e della durata di una comunanza di vita e di affetti e di una vicendevole assistenza morale e materiale, cioè di una relazione di convivenza avente le stesse caratteristiche di quelle dal legislatore ritenute proprie del vincolo coniugale».
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Corte di Cassazione, Sez. Terza Civ., sentenza del 07.06.2011, n. 12278
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso viene denunziata la violazione degli artt. 2059, 2056, 1223 e 1226 c.c. e dei principi generali in materia di liquidazione del danno non patrimoniale, nonché vizi di motivazione sul punto ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.
Ad avviso dei ricorrenti il giudice del merito non poteva procedere ad una determinazione complessiva ed unitaria del danno morale ed alla conseguente ripartizione dell’intero importo in modo automaticamente proporzionale tra tutti gli aventi diritto, bensì doveva determinare in concreto il danno morale per ciascuno dei congiunti tenendo conto delle effettive sofferenze patite.
1.1. Il motivo è infondato.
Infatti i giudici di merito hanno proceduto alla ripartizione dell’importo dovuto per danno morale tra tutti gli aventi diritto non in modo automatico, ma nella determinazione in concreto del danno per ciascuno dei congiunti hanno tenuto conto delle effettive sofferenze patite, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto (Cass. n. 116/2001).
1.2.1 giudici di merito hanno tenuto conto della particolarità della situazione in oggetto, condividendo la giurisprudenza, anche di legittimità, che in materia di responsabilità civile ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno conseguente alle lesioni o alla morte di una persona in favore del convivente “more uxorio” di questa, pur richiedendo che venga fornita, con qualsiasi mezzo, la prova dell’esistenza e della durata di una comunanza di vita e di affetti e di una vicendevole assistenza morale e materiale, cioè di una relazione di convivenza avente le stesse caratteristiche di quelle dal legislatore ritenute proprie del vincolo coniugale (Cass. Sez. 3, 29/4/2005 n. 8976).
In base agli stessi presupposti, la Corte di Appello ha ritenuto la sussistenza del diritto al risarcimento in favore di chi sia stata legata da un vincolo di filiazione naturale alla vittima del sinistro, ancorché non legalmente riconosciuta, laddove tale vincolo sia stato contraddistinto dalle medesime caratteristiche di quello tra genitore e figlio legittimo o naturale riconosciuto.
Dall’esame del compendio probatorio, i giudici di merito hanno ritenuto provato che da molti anni V.A. aveva stabilito la sede principale della sua attività lavorativa a Rende (CS) e lì aveva costituito con S.M.T. un’unione stabile, caratterizzata non soltanto da un legame affettivo, ma anche dalla gestione comune dei molteplici aspetti della vita quotidiana, con reciproco appoggio morale e materiale, nonché, successivamente, dalla condivisione dei compiti connessi alla nascita e alla crescita della figlia F., con la quale il V. intratteneva un rapporto sotto ogni profilo assimilabile a quello genitore-figlio; che V.A. aveva peraltro mantenuto stabili legami, anche affettivi, con i figli legittimi e con la moglie, i quali vivevano a Salerno e con i quali trascorreva regolarmente le principali festività, provvedendo sotto il profilo economico alle esigenze anche di questo nucleo familiare.
1.3. Si osserva che i Giudici di appello hanno parificato, ai fini del risarcimento dei danno morale, la famiglia legale e la famiglia di fatto, in quanto per quest’ultima è stata provata la stabilità e la continuità nel tempo del rapporto e delle relazioni affettive.
Successivamente hanno differenziato le singole posizioni degli aventi diritto, riconoscendo alla moglie ed alla convivente un importo maggiore rispetto ai figli, e per i figli un importo diverso per quelli conviventi e per la figlia sposata, a cui è stato liquidato un importo inferiore.
1.4. Quindi, nel risarcimento concreto del danno, tenendo conto della particolarissima situazione di un soggetto con due nuclei familiari legati a lui da una rapporto di protratta e contemporanea stabilità nel tempo, i giudici di merito, lungi dal lamentato automatismo, hanno tenuto conto della diversa intensità del vincolo familiare, moglie convivente e figli, e della effettiva convivenza, liquidando alla figlia sposata un importo inferiore.
2. Con il secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2056, 1223 e 1226 c.c. e dei principi generali in materia di liquidazione del danno non patrimoniale, nonché vizi di motivazione sul punto ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.
I ricorrenti deducono che la liquidazione del danno non patrimoniale deve comunque rispettare l’esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare dell’indennizzo (e non può consistere in una espressione simbolica).
2.1. Si osserva che i ricorrenti non hanno contestato in appello il criterio utilizzato per la quantificazione del danno morale complessivo, richiamando solo nella comparsa conclusionale del giudizio di appello i più recenti e più elevati importi, da centomila e duecentomila Euro, previsti nelle tabelle del Tribunale di Milano nella liquidazione del danno morale in favore del coniuge e dei figli.
Il motivo quindi deve considerarsi inammissibile perché introdotto per la prima volta nel giudizio di cassazione.
3. Come terzo motivo di ricorso viene denunziato vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione per aver i giudici di merito riconosciuto un contributo annuo di L. 10 milioni alla famiglia di fatto, nell’ambito della quantificazione del danno patrimoniale.
Infatti, secondo i ricorrenti i giudici di merito avevano riconosciuto che il V. erogava un contributo annuo di Euro 10.000,00 in favore della famiglia di fatto, senza che di tale circostanza fosse stata fornita alcuna prova.
3.1. Si osserva che sotto l’apparente denunzia di vizio di omessa motivazione i ricorrenti richiedono a questa Corte un riesame del merito della controversia con una valutazione delle risultanze probatorie diversa da quella motivatamente fatta propria dai giudici di merito.
Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa.
3.2. Nel caso di specie, la Corte di Appello ha ritenuto raggiunta la prova dell’effettiva coesistenza dei due nuclei familiari entrambi percepiti e vissuti dal defunto come “famiglia” e del sostegno economico fornito in uguale misura ad entrambi. Della linea argomentativa sviluppata, fondata su prove documentali e deposizioni testimoniali ritenute dalla Corte di appello attendibili, i ricorrenti non segnalano alcuna caduta di consequenzialità, mentre l’impugnazione si risolve in una generica prospettazione dei fatti alternativa a quella del giudice di merito: il che non può trovare spazio nel giudizio di cassazione. Giusti motivi impongono la compensazione delle spese del grado.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.
Depositata in Cancelleria il 07.06.2011

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