DIRITTO DEL LAVORO. Legittimo il licenziamento del lavoratore che incita ad atti di sabotaggio anche in assenza di precedenti sanzioni disciplinari. Cass. civ. lav. 18 gennaio 2011 n. 1074.



Nota dell'Avv. Nunzia Liberatoscioli.

La vicenda sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione trae spunto dal licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore subordinato, addetto al controllo di qualità del prodotto, al quale la società datrice di lavoro aveva contestato una serie di addebiti, tra cui l’aver sollecitato alcuni colleghi a compiere atti di sabotaggio.

Adducendo l’illegittimità del licenziamento, il dipendente lo aveva impugnato, chiedendo al giudice di essere reintegrato immediatamente nel proprio posto di lavoro, ma, sia in primo, sia in secondo grado, la domanda era stata rigettata, per cui la causa era giunta dinanzi alla Suprema Corte.
In particolare, nel ricorso, il dipendente lamentava, tra le altre cose, la sproporzione tra gli addebiti a lui contestati dalla società datrice di lavoro e la sanzione espulsiva, nonché il mancato rispetto della gradualità delle sanzioni, essendo stata irrogata nei suoi confronti la sanzione più grave.
Il ricorso, però, è stato respinto anche dal Collegio, in quanto tutti i motivi sono stati reputati infondati.
Innanzitutto, secondo la Corte di Cassazione, «è principio […] indiscusso che il giudice di merito – in ragione del fatto che il licenziamento deve costituire di certo per il lavoratore la più grave delle sanzioni in ragione dei suoi effetti – deve tenere conto della gravità della condotta addebitata al dipendente, da valutare non soltanto nella sua oggettività ma anche con riferimento all’elemento soggettivo che può assumere i connotati del dolo o della colpa, al fine di parametrare la singola sanzione al grado di illiceità della infrazione alla stregua del principio di proporzionalità». Ciò significa che il giudice, prima di decidere circa la configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento e, quindi, prima di pronunciarsi in ordine alla sua legittimità o meno, deve sottoporre la condotta del lavoratore ad una valutazione globale, sulla base di apprezzamenti di fatto, non censurabili in sede di legittimità, se congruamente motivati.
E poiché, nel caso di specie, i giudici di merito avevano valutato in senso globale la condotta del dipendente, la Corte di Cassazione ha avallato la decisione impugnata, confermando l’assunto per cui la condotta posta in essere dal lavoratore subordinato – che di per sé presentava una gravità tale da legittimare il licenziamento in tronco – ha determinato la completa perdita di affidabilità da parte della società datrice di lavoro, rendendo proporzionata la sanzione espulsiva, anche in assenza di precedenti sanzioni disciplinari.
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Cass. civ., Sez. lavoro, sentenza 18-01-2011, n. 1074
Motivi della decisione
Col primo motivo del ricorso il C. lamenta, ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione o falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e della L. n. 640 del 1966, artt. 1 e 3, sotto il profilo dell'errata sussunzione del fatto nelle norme e violazione della L. n. 604 del 1966, art.5, relativo all'onere probatorio.
In particolare, premesso che il secondo addebito di cui alla lettera di contestazione era stato ritenuto chiaramente insussistente, rileva, per quel che riguarda il primo addebito, che la Corte territoriale ne aveva ritenuto la fondatezza basandosi sul contenuto della deposizione della teste D.M., nonostante la genericità di tale deposizione nella quale non vi era alcun riferimento a condotte positive specificamente addebitate al C., e non emergeva l'esistenza di specifiche disposizioni aziendali concernenti l'obbligo di un controllo visivo dei tubi prodotti; per quel che riguarda il terzo addebito, rileva che la Corte territoriale si era basata esclusivamente sulla deposizione, pur essa generica, del teste P., concernente un fatto sicuramente non inquadrabile nella fattispecie di cui all'art. 2119 c.c. e della L. n. 640 del 1966, artt. 1 e 3, ai fini di un licenziamento; per quel che riguarda l'ultimo addebito, concernente la eliminazione di alcuni tubi pronti per la consegna, rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto la conducenza di tale episodio ai fini del licenziamento, avendo egli chiarito di aver ritenuto che si trattasse di "doppioni" che potevano pertanto essere eliminati.
Col secondo motivo del ricorso lamenta, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione o falsa applicazione degli artt. 2106, 2119 e 1455 c.c., sotto il profilo della sproporzione fra addebiti e sanzione espulsiva, e L. n. 300 del 1970, art. 7, sotto il profilo della gradualità, e comunque omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al medesimo punto controverso e decisivo della sproporzione.
In particolare rileva che la sanzione espulsiva era abnorme rispetto al carattere degli addebiti formulati, con evidente violazione del principio di proporzionalità, costituente requisito di legittimità sostanziale della sanzione, non avendo tra l'altro la Corte territoriale tenuto conto della intensità dell'elemento intenzionale e della entità del reciproco pregiudizio.
Col terzo motivo del ricorso il C. lamenta, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione di legge con riferimento all'art. 2119 c.c., sotto il profilo della violazione del principio di immediatezza, e comunque omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al profilo concernente il medesimo punto controverso e decisivo della immediatezza.
In particolare rileva che la società datoriale aveva sin dall'ottobre 2003 individuato esso ricorrente fra gli autori delle condotte contestate, essendo stato nel successivo mese di novembre trasferito in altro reparto; e pertanto il lungo intervallo di tempo trascorso fra tale trasferimento ed il successivo licenziamento evidenziava la violazione dei principio della immediatezza; e rilevando che comunque la Corte territoriale aveva omesso di motivare sul punto, essendosi limitata a trascrivere meccanicamente le conclusioni del primo giudice.
Osserva il Collegio che va esaminata in primo luogo l'eccezione sollevata dalla controricorrente relativa all'asserita inammissibilità del ricorso ai sensi dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per l'omessa specificazione degli atti processuali e dei documenti sui quali parte ricorrente intendeva fondare le sue doglianze.
L'eccezione non è fondata ove si osservi che il ricorrente ha in realtà specificato sia gli atti processuali, sia, in particolare, le testimonianze assunte nonché il contenuto della nota di contestazione degli addebiti, su cui la Corte territoriale aveva basato la propria decisione.
Posto ciò rileva il Collegio che il ricorso è infondato.
Ed invero, per quel che riguarda il primo motivo di ricorso, osserva il Collegio che trattasi di motivo che involge la valutazione di specifiche questioni di fatto, valutazione non consentita in sede di giudizio di legittimità. Infatti, se pur il ricorrente contesta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la sussunzione del fatto accertato dal decidente nell'ipotesi normativa di cui all'art. 2119 c.c. ed alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3, in realtà siffatta contestazione trova il proprio fondamento nella prospettazione da parte del ricorrente di una interpretazione delle risultanze processuali diversa da quella data dal giudice di appello e più favorevole alle proprie aspettative, risolvendosi in tal modo in un vizio di motivazione.
Devesi sul punto evidenziare che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e di dare adeguata contezza dell'iter logico - argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione. Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto a base della decisione (Cass. sez. 1', 26.1.2007 n. 1754; Cass. sez. 1', 21.8.2006 n. 18214;
Cass. sez. lav., 20.4.2006 n. 9234; Cass. sez. trib., 1.7.2003 n. 10330; Cass. sez. lav., 9.3.2002 n. 3161; Cass. sez. 3', 15.4.2000 n. 4916).
E sul punto deve altresì ribadirsi l'indirizzo consolidato in base al quale la valutazione delle varie risultanze probatorie involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nell'adottare la propria statuizione, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento (Cass. sez. lav., 20.3.2008 n. 7600; Cass. sez. lav., 8.3.2007 n. 5286; Cass. sez. lav., 15.4.2004 n. 7201; Cass. sez. lav., 7.8.2003 n. 11933;
Cass. sez. lav., 9.4.2001 n. 5231).
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità il quale deve limitarsi a verificare se siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano effettivamente - vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.
Orbene nel caso di specie la Corte territoriale, nel ritenere la sussistenza della giusta causa del licenziamento, ha posto in rilievo come dalle prove testimoniali assunte, e segnatamente dalle deposizioni dei testi D.M. e P., fosse emersa l'effettiva realizzazione da parte del ricorrente dei comportamenti allo stesso contestati, evidenziando altresì, con particolare riferimento alle dichiarazioni della D.M., che si trattava di testimonianza attendibile in quanto circostanziata e proveniente da persona che aveva partecipato alla condotta riferita, ed in buona parte avallata dalla deposizione del P.
E pertanto, dal momento che il giudice di merito ha illustrato le ragioni che rendevano pienamente contezza delle ragioni del proprio convincimento esplicitando l'iter motivazionale attraverso cui lo stesso era pervenuto alla scelta ed alla valutazione delle risultanze probatorie poste a fondamento della propria decisione, resta escluso il controllo sollecitato in questa sede di legittimità. Il vizio non può invero consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove rispetto a quello dato dal giudice di merito, cui spetta in via esclusiva individuare le fonti del suo convincimento e a tal fine valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza.
In conclusione, il motivo si risolve in parte qua in un'inammissibile istanza di riesame della valutazione del giudice d'appello, fondata su tesi contrapposta al convincimento da esso espresso, e pertanto non può trovare ingresso (Cass. sez. lav., 28.1.2008 n. 1759).
Il suddetto motivo di ricorso non può pertanto trovare accoglimento.
Del pari infondato è il secondo motivo di ricorso concernente la sproporzione fra addebiti e sanzione espulsiva, con conseguente violazione del principio di gradualità.
E' principio invero indiscusso che il giudice di merito - in considerazione del fatto che il licenziamento costituisce di certo per il lavoratore la più grave delle sanzioni in ragione dei suoi effetti - deve tenere conto della gravità della condotta addebitata al dipendente, da valutare non soltanto nella sua oggettività ma anche con riferimento all'elemento soggettivo che può assumere i connotati del dolo o della colpa, al fine di parametrare la singola sanzione al grado di illiceità della infrazione alla stregua del principio di proporzionalità, essendo possibile solo all'esito di tale iter conoscitivo decidere sulla configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento e quindi sulla legittimità o meno dello stesso.
Con la ulteriore precisazione, trattandosi di principio parimenti indiscusso, che la valutazione della gravità dell'infrazione, della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento e della proporzionalità della sanzione rispetto alla infrazione contestata, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Cass. sez. lav., 27.1.2004 n. 1475; Cass. sez. lav., 26.7.2002, n. 11118).
Ciò premesso, la sentenza impugnata si sottrae ad ogni censura in questa sede di legittimità perché essa, contrariamente all'assunto del ricorrente, ha fatto una corretta e puntuale applicazione della regola sopra ribadita circa la valutazione globale della condotta del lavoratore.
Ed infatti nel caso di specie i giudici di merito hanno correttamente proceduto alla verifica della gravità dei fatti contestati al dipendente, in relazione sia alla portata oggettiva che soggettiva, rilevando come la condotta del C. presentava di per sé una gravità tale da legittimare il licenziamento in tronco, atteso che riguardava un aspetto molto delicato dell'organizzazione produttiva, e segnatamente quello del controllo della qualità del prodotto, ed era stata posta in essere - a riprova dell'intensità dell'elemento psicologico - in maniera surrettizia ed ingannevole, essendo stata la detta condotta seguita dalla falsa attestazione dell'avvenuto controllo. E sono pertanto giunti alla conclusione che la condotta in questione determinava la completa perdita di affidabilità da parte della società datoriale e rendeva proporzionata la sanzione espulsiva adottata, pur in assenza di precedenti disciplinari.
Deve ritenersi pertanto che la Corte territoriale abbia dato corretta ed esaustiva contezza delle motivazioni per cui aveva ritenuto nel caso di specie rispettato il principio di proporzionalità tra la infrazione ed il provvedimento irrogato, di talché la statuizione sul punto si appalesa incensurabile in sede di giudizio di legittimità.
E' infine infondato il terzo motivo del ricorso, concernente la dedotta violazione del principio di immediatezza.
Ed invero, da un punto di vista generale è da premettere che nel licenziamento per motivi disciplinari, il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito e della tempestività del recesso datoriale, che si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso; in ogni caso, la valutazione relativa alla tempestività costituisce giudizio di merito, che, se adeguatamente motivato, in sede di legittimità è insindacabile (Cass. sez. lav., 25.6.2009 n. 14952; Cass. sez. lav., 17.12.2008 n. 29480).
Orbene, nel caso di specie la Corte territoriale ha evidenziato, sia pur in maniera sintetica, come dalle deposizioni dei testi G., F. e Go. fosse emerso che la società aveva ricollegato la non conformità delle forniture lamentate dai clienti alla condotta dell'attore e di altri dipendenti solo qualche giorno prima della contestazione degli addebiti; a confutazione di tale affermazione il ricorrente ha evidenziato come l'avvenuto trasferimento dello stesso ad altro reparto nel novembre del 2003 era indicativo della consapevolezza a tale data da parte della società della condotta solo successivamente contestata. Trattasi in realtà di affermazione assolutamente apodittica, non risultando in alcun modo il collegamento di tale trasferimento alla condotta contestata né il carattere asseritamente sanzionatorio dello stesso (non essendo tra l'altro il provvedimento suddetto prodotto o allegato), e pertanto neanche sotto questo profilo il proposto gravame può trovare accoglimento.
Il ricorso va pertanto rigettato ed a tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 12,00 oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

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