DIRITTO DEL LAVORO. Sottoscrizione verbale di conciliazione e pregresso rapporto di lavoro. Cass. 08 settembre 2011 n. 18405.



NOTA dell'Avv. Nunzia Liberatoscioli

Alcuni dipendenti, assunti come operai addetti alla manutenzione, dopo essere stati collocati in mobilità dalla società datrice di lavoro, in sede di conciliazione, avevano rinunciato alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché ad ogni pretesa retributiva nei suoi confronti. Nel frattempo, gli stessi erano stati assunti da una diversa società, appaltatrice dei servizi cessati dalla prima, e, in seguito alla cessione di tutte le attività di quest’ultima ad altra società, erano passati alle dipendenze del nuovo datore di lavoro. Successivamente, però, i lavoratori avevano convenuto in giudizio l’originaria datrice di lavoro e le altre due società, chiedendo al giudice di accertare e dichiarare la nullità dei contratti di appalto stipulati tra le suddette imprese, nonché di verificare che il rapporto tra le medesime integrava gli estremi dell’interposizione vietata dalla legge, di dichiarare la nullità del verbale di conciliazione e di condannare la prima società alla reintegrazione nel posto di lavoro.

In entrambi i gradi del giudizio di merito, le domande degli attori erano state respinte, sul presupposto che i lavoratori avevano sottoscritto il suddetto verbale di conciliazione, per cui gli stessi avevano proposto ricorso per cassazione, avanzando il seguente quesito di diritto: «se l’art. 2113, c.c., comma 4, consenta al prestatore di lavoro subordinato di manifestare validamente, a seguito di conciliazione conseguente al licenziamento, di disporre del diritto all’accertamento della interposizione nel rapporto di lavoro successivamente instaurato con un diverso assuntore e ciò sul presupposto che il rapporto con quest’ultimo sia stato prestato effettivamente alle dipendenze del precedente datore, nel quadro, di un contratto di appalto di servizi tra le due imprese».
La Sezione lavoro della Corte di Cassazione, pronunciandosi sul citato quesito, ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa per la decisione nel merito. In particolare, i giudici di legittimità hanno condiviso la decisione impugnata nella parte in cui ha statuito che «la conciliazione contiene una rinuncia ad altre possibili rivendicazioni economiche e normative relative al pregresso rapporto di lavoro» con l’originaria società datrice di lavoro, ma hanno precisato che non è assolutamente condivisibile che «con tale atto i lavoratori abbiano validamente rinunziato ai loro diritti futuri concernenti il rapporto» con le altre due imprese, in quanto «la conciliazione non può riguardare diritti non ancora entrati a far parte del patrimonio del prestatore di lavoro».  
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Cassazione civile, Sez. lav., Sentenza 08 settembre 2011, n. 18405
I ricorrenti convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la E.T. S.p.a., la Pr. S.r.l. e la As. S.r.l., deducendo di aver lavorato con mansioni di operai addetti alle manutenzioni alle dipendenze della E.T. e di essere stati collocati in mobilità; di essere stati assunti (inizialmente con contratto a termine in data 23 agosto 1993) alle dipendenze della soc. Pr.; di aver sottoscritto in data 21 ottobre 1993 un verbale di conciliazione sindacale contenente una rinuncia alla reintegrazione nel posto di lavoro e ad ogni pretesa retributiva nei confronti dell'originaria datrice di lavoro; di essere passati alle dipendenze della società As. a seguito della cessione alla stessa dell'attività della Pr. I lavoratori hanno sostenuto che la Pr. era stata costituita al solo scopo di consentire alla E.T. di avvalersi delle agevolazioni per la messa in mobilità dei lavoratori licenziati, e che l'attività lavorativa presso la Pr. si era svolta con mansioni identiche a quelle precedenti, con l'uso delle stesse attrezzature. Hanno chiesto quindi l'accertamento della nullità dei contratti di appalto stipulati tra la E.T., la Pr. e la As.; della sussistenza, in relazione al rapporto instaurato con la Pr. e la As., di una fattispecie di interposizione vietata delle prestazioni lavorative; dell'esistenza di rapporti di lavoro subordinati alle dipendenze della E.T.; della nullità del verbale di conciliazione, in quanto stipulato in frode alla L. n. 223 del 1991, nonché la condanna della E.T. alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso stante l'avvenuta sottoscrizione del verbale di conciliazione e la mancata impugnazione dello stesso.
La Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata ha rigettato l'appello, confermando la decisione.
D.M., P.A., S.A., G.G., R.S. propongono ricorso per cassazione articolato in due motivi.
Le società E.T. e As. si difendono con distinti controricorsi.
La Pr. non ha svolto attività difensiva.
I ricorrenti e le controricorrenti hanno anche depositato una memoria per l'udienza. Con il primo motivo i ricorrenti denunziano violazione dell'art. 2113, nonché dell'art. 1362 c.c., e difetto di motivazione su di un fatto decisivo e controverso.
Il quesito di diritto è: "se l'art. 2113 c.c., comma 4, consenta al prestatore di lavoro subordinato di manifestare validamente, a seguito di conciliazione conseguente al licenziamento, di disporre del diritto all'accertamento della interposizione nel rapporto di lavoro successivamente instaurato con un diverso assuntore e ciò sul presupposto che il rapporto con quest'ultimo sia stato prestato effettivamente alle dipendenze del precedente datore, nel quadro, di un contratto di appalto di servizi tra le due imprese".
Con il secondo motivo si denunzia violazione dell'art. 112 c.p.c., per omissione di pronuncia sulle domande di accertamento della nullità dei contratti di appalto, della interposizione vietata, della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i ricorrenti e la E.T. con decorrenza dalla assunzione in servizio presso la Pr.
Il motivo con il quale si denunzia di violazione dell'art. 112 c.p.c., può essere ritenuto non fondato applicando il principio di diritto fissato dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia (v. per tutte Cass. 6 luglio 1983 n. 4546, 6 aprile 2000 n. 4317, 29 aprile 2006 n. 10052). Merita invece accoglimento il primo motivo di ricorso.
I fatti non sono controversi.
I ricorrenti vennero licenziati dalla E.T. a seguito di procedura ex L. n. 223 del 1991, in data 31 luglio 1993.
Il personale licenziato venne riassunto dalla società Pr., appaltatrice dei servizi cessati dalla E.T. giusto verbale del 28 luglio 1993, prima con contratto a tempo determinato, quindi con contratto a tempo indeterminato.
Con verbale di conciliazione del 21 ottobre 1993 i ricorrenti, al pari di altri lavoratori, che avevano proposto impugnativa di licenziamento nei confronti della E.T., dichiararono di rinunciare alla richiesta di reintegra nel posto di lavoro ed ad ogni domanda di natura retributiva, accettando il licenziamento, concordando sulla data di risoluzione del rapporto e accettando una somma di denaro dalla E.T. a titolo transattivo.
Successivamente la Pr. cedette tutte le attività di servizi alla As., alla quale vennero trasferiti i rapporti di lavoro.
I ricorrenti proposero quindi il ricorso oggetto della presente controversia, chiedendo al giudice di accertare e dichiarare la nullità dei contratti di appalto stipulati tra la E.T, la Pr. srl e la As.; per l'effetto dichiarare che il rapporto tra la Er. e la Pr. srl (poi As.) integra gli estremi dell'interposizione vietata dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1; dichiarare l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i ricorrenti e la E.F. spa con decorrenza dalla assunzione in servizio presso la Pr.
Il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso a causa della conciliazione del 21 ottobre 1993. La Corte d'appello ha confermato la decisione.
La Corte ha affermato che "dal verbale di conciliazione si evince che, a fronte della rinuncia da parte del lavoratore ai diritti inerenti al pregresso rapporto di lavoro con la E.T. e la sottoscrizione da parte dei dipendenti di un verbale di conciliazione e con la corresponsione da parte di questa degli importi indicati, i lavoratori dichiaravano di non aver nulla a pretendere dalla E.T. a titolo di diritti e/o ragioni che traggono o possono trarre ragione d'essere dal rapporto ormai conclusosi o dall'avvenuta risoluzione".
E questa parte è pienamente condivisibile.
Tuttavia la sentenza poi continua affermando che con tale verbale i lavoratori avevano anche escluso il carattere fittizio del rapporto con le nuove società e che con tale verbale avevano operato "oltre alla rinuncia alla reintegra anche una inequivoca rinuncia a qualsiasi altra rivendicazione possibile, anche relativa al trattamento economico e normativo".
Da ciò ha tratto motivo di conferma della decisione di inammissibilità del ricorso per intervenuta conciliazione.
Se può convenirsi sul fatto che la conciliazione contiene una rinuncia ad altre possibili rivendicazioni economiche e normative relative al pregresso rapporto di lavoro con la E.T., non può invece ritenersi che con tale atto i lavoratori abbiano validamente rinunziato ai loro diritti futuri concernenti il rapporto con la Pr. e poi con la As., nonché in ordine al diritto di chiedere l'accertamento della effettiva natura di tale rapporto e della eventuale violazione della disciplina dettata dalla L. n. 1369 del 1960, perché la conciliazione non può riguardare diritti non ancora entrati a far parte del patrimonio del prestatore di lavoro.
La domanda oggetto del presente giudizio non poteva, di conseguenza, essere dichiarata inammissibile per intervenuta conciliazione.
La sentenza impugnata, pertanto, deve essere cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Roma in altra composizione per la decisione nel merito della controversia, anche in ordine alle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia per il merito alla Corte d'appello di Roma in altra composizione, anche per la decisione in ordine alle spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 gennaio 2011.
Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2011

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