DIRITTO PENALE. L'estorsione del datore di lavoro in danno dei lavoratori dipendenti.



 Il naturale squilibrio di potere contrattuale esistente tra la posizione dominante del datore di lavoro e quella più debole del lavoratore subordinato viene bilanciato mediante tutta la legislazione sul lavoro che si è sviluppata a partire dall’inizio dello scorso secolo e, in particolare, con la previsione di una serie di norme inderogabili, sottratte alla volontà delle parti e finalizzate a tutelare la libertà e dignità dei lavoratori. Nonostante l’esistenza di un sistema normativo garantista, non di rado, i lavoratori, ancora oggi, sono costretti a subire sopraffazioni e prevaricazioni da parte del proprio datore di lavoro che, in talune ipotesi, sfociano addirittura in condotte penalmente rilevanti. 

In passato, solo una parte della giurisprudenza aveva tentato di inquadrare i comportamenti datoriali nell’ambito dei reati, ma, negli ultimi anni, questa tendenza si è affermata in maniera decisiva, come dimostrato dalla sentenza in commento (oltre che dai suoi numerosi precedenti conformi), che qualifica estorsiva la condotta del datore di lavoro consistente nel prospettare ad alcuni suoi dipendenti «la mancata assunzione, il licenziamento o la mancata corresponsione della retribuzione, nel caso in cui non avessero accettato le condizioni di lavoro loro imposte, ed in particolare costringendoli ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e alla contrattazione collettiva, quali: lavoro in nero, trattamenti economici inferiori rispetto a quello pattuito, sottoscrizione di lettere di dimissioni in bianco, rinuncia a godere di congedi per malattia o per infortunio sul lavoro».
In sostanza, l’estorsione (art. 629, c.p.) – ossia il fatto di chi «mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con l’altrui danno» – pur essendo una tipica modalità operativa della criminalità organizzata (si pensi al racket e, quindi, alla richiesta del pizzo), può essere imputata anche a carico del datore di lavoro, sussistendone i presupposti: la violenza o minaccia e l’ingiustizia del profitto conseguito dall’agente con danno alla parte offesa.
Secondo la giurisprudenza costante, la minaccia idonea ad integrare il delitto di estorsione consiste nella prospettazione di un male futuro tale da determinare una pressione psicologica sulla vittima, ovvero uno stato di condizionamento morale (seppure relativo e non assoluto) che induce quest’ultima «a fare o ad omettere qualche cosa», nel convincimento che il pregiudizio che ne consegue sia minore rispetto a quello prospettato dall’agente. Sulla scia di tale orientamento, anche nella sentenza in commento, la Cassazione ribadisce che «la minaccia, quale elemento costitutivo del delitto di estorsione, non richiede necessariamente che la coartazione avvenga mediante la minaccia di un male irreparabile alle persone o alle cose, tale da non lasciare al soggetto passivo una libertà di scelta, essendo sufficiente la prospettazione di un male che in relazione alle circostanze che l’accompagnano sia tale da far sorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio».
Non sempre la prospettazione minacciosa ex art. 629, c.p. avviene in maniera esplicita ed immediata, talvolta può manifestarsi anche implicitamente ed indirettamente o addirittura mediante consigli, esortazioni o suggerimenti formalmente corretti, ma tali da infondere timore nel soggetto passivo e forzarne la volontà. Ed è proprio quest’ultima la condotta che caratterizza principalmente il comportamento estorsivo imputabile al datore di lavoro. Come si legge nella sentenza in esame, «è stato ripetutamente e condivisibilmente affermato da questa Corte che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, in presenza di una legittima aspettativa di assunzione, costringa l'aspirante lavoratore ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi; quella del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi; quella dell'imprenditore che prospetti ai dipendenti, in un contesto di grave crisi occupazionale, la perdita del posto di lavoro per il caso in cui non accettino un trattamento economico inferiore a quello risultante dalle buste paga».
Ma la condotta dell’agente può essere qualificata estorsiva quando, oltre che minacciosa, consente la realizzazione di un profitto o di un vantaggio, anche non patrimoniale, ingiusto o privo di alcuna tutela giuridica. L’estorsione, inoltre, non si realizza solo mediante strumenti illeciti, ma anche quando il mezzo di coazione è lecito (esempio: il licenziamento) e il profitto che si intende perseguire è pur sempre illecito (esempio: violazione delle norme a tutela dei lavoratori). In particolare, nel caso in oggetto, «l’ingiusto profitto è rappresentato dalla mancata erogazione delle somme legalmente dovute (dal datore di lavoro), anche per oneri contributivi e previdenziali e prestazioni di lavoro straordinario, con pari danno per i lavoratori».
La sentenza in esame si limita a valutare la rilevanza penale del comportamento datoriale, tuttavia, giova ricordare che la coazione della volontà del lavoratore da parte del proprio datore di lavoro, attraverso condotte minacciose, rileva anche civilmente: in entrambi i casi, «la minaccia deve essere diretta, credibile e idonea a condizionare il soggetto minacciato in relazione alle circostanze in essere»; la minaccia rilevante penalmente, però, si caratterizza, ulteriormente, per l’intento doloso del datore di lavoro che deve sussistere sia riguardo al suo comportamento minaccioso sia nella convinzione di conseguire un profitto ingiusto con pregiudizio altrui. Si discute, invece, circa le conseguenze dell’estorsione sulla validità del contratto di lavoro: secondo alcuni, la minaccia sarebbe una categoria della violenza morale, idonea a determinare l’annullabilità dell’accordo, ai sensi dell’art. 1435, c.c.; secondo altri, il contratto sarebbe affetto da nullità ex artt. 1343 e 1418, c.c.
In conclusione, si può dire che l’indirizzo seguito dalla giurisprudenza di legittimità garantisce una più intensa tutela dei lavoratori subordinati, soprattutto nel momento attuale di grave crisi occupazionale, ed è – per dirla con le parole dei Supremi Giudici – la conferma che «in nessun caso può essere legittimata e ricondotta alla normale dinamica di rapporti di lavoro un’attività minatoria, in danno di lavoratori dipendenti, che approfitti delle difficoltà economiche o della situazione precaria del mercato del lavoro per ottenere il loro consenso a subire condizioni di lavoro deteriori rispetto a quelle previste dall’ordinamento giuridico, in attuazione delle garanzie che la Costituzione della Repubblica pone a tutela della libertà, dignità e dei diritti di chi lavora».
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Cassazione Penale sez. VI, 31 agosto 2010 n. 32525.

FATTO 

1. Con ordinanza emessa ex art. 309 c.p.p. il 18 marzo 2010, il Tribunale di Caltanissetta ha confermato la misura cautelare carceraria disposta il 9 febbraio 2010 dal giudice per le indagini preliminari nei confronti di T.G. per i delitti di cui ai capi:

A) artt. 110 e 416-bis c.p., per partecipazione all'associazione mafiosa denominata "cosa nostra" insediata nel territorio di (OMISSIS), facendo parte della "decina" di tale "famiglia" operante nella provincia di Milano, tramite la gestione di attività imprenditoriali nel settore edile, anche in funzione degli interessi del gruppo operante in Sicilia, in favore del quale venivano destinati parte dei proventi dell'attività delittuosa svolta, e ricevendo dai componenti della stessa il supporto e la protezione nello svolgimento delle predette attività;
E) art. 110 c.p., art. 629 c.p., comma 2, in relazione all'art. 628 c.p., comma 3, n. 3 e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 in qualità di socio di fatto della ISI Service s.r.l., in concorso con M. G., T.A., F.C. e in danno di operai dipendenti A.G., Ma.Sa. e Tr.An.;
F) artt. 110 e 644 c.p. e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per erogazione di prestito usurario di 35.000 Euro a Av.Gi., con interesse del 10% al mese;
G) artt. 110 e 644 c.p. e D.L. n. 152 del 1991 per erogazione di prestito usurario di 244.000 Euro a B.N., con interesse del 10% al mese;
H) artt. 110 e 644 c.p. e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per erogazione di prestito usurario di 9.700 Euro a C.C., con interesse del 10% al mese;
I) artt. 110 e 644 c.p. e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per erogazione di prestito usurario d'importo non precisato a R.V., con interessi del 10% al mese, tramite pagamento di assegni postdatati emessi dal R. per Euro 10.000 mese, oltre al ricavato della vendita di beni della soc. ENMI di proprietà del R.;
L) art. 110 c.p., D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per avere fittiziamente attribuito a Ri.
C. e t.c. la qualità di soci ISI Service srl, società nella disponibilità del T. e del M., al fine di agevolare la commissione del delitto di riciclaggio (art. 648- bis c.p.) e, in particolare, per impiegare in tale società denaro proveniente dai delitti di cui ai capi precedenti;
N) art. 110 c.p., D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per avere fittiziamente attribuito a Ri.
C. la proprietà di un appartamento con annessa autorimessa, facendolo figurare quale acquirente nell'atto di compravendita e quale sottoscrittore del contratto di mutuo, al fine di agevolare la commissione del delitto del delitto di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e, in particolare, per impiegare in tale società denaro proveniente dai delitti di cui ai capi precedenti.
1.1. Il Tribunale ha, invece, annullato l'ordinanza cautelare in relazione al capo B (art. 110 cod. pen., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 e D.L. n. 152 del 1991, art. 7: dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni insistenti) e al capo M (art. 110 cod. pen., D.L. n. 306 del 1991, art. 12-quinquies e D.L. n. 152 del 1991, art. 7: fittizia intestazione a Ri.Cl. e T.G. della soc. IGEA srl, al fine di agevolare il delitto di riciclaggio e reimpiego di denaro proveniente da attività delittuose).
2. L'ordinanza cautelare è stata emessa nell'ambito di una vasta indagine, originata dal controllo di una movimentazione di risorse finanziarie (un milione di Euro) da parte dei coniugi P. R. e B.L., che si sospettava finalizzata alla pulitura di capitali di dubbia provenienza.
L'indagine faceva emergere l'esistenza di un sistema imprenditoriale, per mezzo del quale la famiglia mafiosa di P., attraverso soggetti di fiducia ad essa legati, con propaggini anche in Lombardia, era riuscita a penetrare nel circuito economico legale, veicolando tali capitali.
Tra i soggetti coinvolti, gli inquirenti individuavano M. G., F.R.M. e T.G. (socio anche dell'I. V. s.r.l. amministrata da P.R.), i quali avevano costituito diverse società, con il medesimo oggetto sociale (lavori generali costruzioni edifici), aventi sede in provincia di Milano, di cui figuravano alternativamente rappresentanti legali.
Tre di esse (GTM Costruzioni, M. costruzioni, Nettuno c. e restauri) avevano la stessa sede in (OMISSIS), risultando in attività la prima, mentre le altre due erano state poste in liquidazione a distanza di due/tre anni dalla loro costituzione.
Nella stessa zona operava, con interessi nella G. C. s.r.l (amministrata da T.A., fratello dell'indagato ricorrente), F.C., ritenuto l'anello di stretto collegamento con M.G., capo della famiglia mafiosa di P..
Le risultanze acquisite facevano ipotizzare come altamente probabile che tutti gli indagati, tra cui T.G., fossero saldamente legati a esponenti di vertice della cosca mafiosa di P. (specialmente al F., referente della famiglia per la decina da tempo operante nel milanese) per conto dei quali, attraverso la costituzione di una rete di società tra loro strettamente legate, immettevano nel circuito legale, i proventi delle attività illecite.
In particolare agli indagati è contestato di avere concorso alla creazione di società o ditte individuali, succedutesi rapidamente l'una all'altra, utilizzate come "paravento" per le attività di usura e d'intermediazione di mano d'opera, intestate a "teste di legno", realizzando illeciti profitti e inserendosi anche nel mercato con offerta di emissione di fatture per operazioni inesistenti ad imprese operanti nel settore edilizio, il tutto finalizzato al riciclaggio dei proventi della famiglia mafiosa di "cosa nostra" costituita e insediata da tempo in P..
3. Con riferimento ai capi B) ed M) dell'imputazione provvisoria, in ordine ai quali l'ordinanza applicativa della misura cautelare è stata annullata dal Tribunale del riesame, ricorre il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, deducendo, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), vizio di motivazione e travisamento della prova.
4. Avverso la stessa ordinanza, per la parte in cui ha confermato l'originario provvedimento del giudice per le indagini preliminari, ricorre anche l'indagato, a mezzo del suo difensore, e deduce:
a) violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), con riferimento all'art. 546 c.p.p., lett. e) e in relazione all'art. 629 c.p.;
b) violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), con riferimento all'art. 546 lett. e) e in relazione all'art. 644 c.p.;
c) violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), con riferimento all'art. 546 c.p.p., lett. e) e in relazione al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies;
d) violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), con riferimento all'art. 546 c.p.p., lett. e) e in relazione al D.L. n. 152 del 1991, art. 7;
e) violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), con riferimento all'art. 546 c.p.p., lett. e) e in relazione all'art. 416 c.p.
 DIRITTO
5. In accoglimento della richiesta formulata dal Procuratore generale, il ricorso del Pubblico Ministero merita accoglimento per quanto concerne il capo B) dell'imputazione provvisoria.
5.1. Per l'integrazione del reato in quel capo contestato (previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2) devono concorrere due elementi oggettivi, l'avvalersi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e l'indicazione nella dichiarazione annuale dei redditi presentata di elementi passivi fittizi. Per l'integrazione del reato è, infatti, necessario, da una parte, che le fatture ideologicamente false che dovrebbero supportare detta indicazione siano conservate nei registri contabili o nella documentazione fiscale dell'azienda, perchè in ciò consiste l'atteggiamento di "avvalersi" delle fatture come richiesto dalla norma; dall'altra, che la dichiarazione fiscale contenga effettivamente l'indicazione di elementi passivi fittizi (Cass. n. 14718/2008, De Franco).
Il delitto, di tipo commissivo e di mera condotta, seppure teleologicamente diretta al risultato dell'evasione d'imposta, ha natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale (Cass. sez. U, n. 27/2000, Di Mauro; n. 25483/2009, Daniotti; n. 626/2009, Zipponi).
Il Tribunale ha ritenuto non dimostrato che la ISI Service s.r.l., e per essa il T., socio di fatto della società, abbia presentato la dichiarazione dei redditi e, perciò, ha escluso la sussistenza del reato. Ha tuttavia omesso di confrontarsi con la contraria affermazione di cui alla pag. 138 dell'ordinanza applicativa di custodia cautelare e con la nota n. 021821/10 del 14.1.2010 del G.I.G.O. della Guardia di Finanza di Caltanissetta acquisita agli atti, e, pertanto, di fornire adeguata motivare sul punto.
L'omissione integra un'assoluta mancanza di motivazione, con conseguente annullamento dell'ordinanza e rinvio al tribunale di Caltanissetta per nuovo esame sul punto.
5.2. In ordine al capo M (art. 110 cod. pen., D.L. n. 306 del 1991, art. 12-quinquies e D.L. n. 152 del 1991, art. 7), il motivo dedotto dal Pubblico Ministero ricorrente, sotto la formale rubrica del "travisamento della prova (mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal contenuto dei documenti acquisiti agli atti, art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e))" è inammissibile, risolvendosi in una censura alla valutazione operata dal Tribunale del riesame e, sostanzialmente, nella richiesta di rivalutazione da parte di questa Corte di legittimità, a cui vengono sottoposte i contenuti di due conversazioni intercettate (integralmente trascritte in ricorso).
6. Il ricorso del T. non merita accoglimento.
6.1. Destituito di fondamento è il motivo con cui l'indagato censura l'ordinanza impugnata per avere confermato il provvedimento cautelare in ordine alla contestazione di concorso in estorsione aggravata ai danni di tre lavoratori dipendenti (capo E).
Si deduce in ricorso che nessun passaggio argomentativo della motivazione lascia trasparire le contestate minacce o le condizioni prospettate ai lavoratori, mentre le sole circostanze concernenti la sottoscrizione in bianco delle lettere di dimissioni richieste ai dipendenti o le obiezioni e le resistenze ai congedi per malattie o per infortuni sul lavoro "trovano una loro ragionevole spiegazione fuori dalla ben determinata area delle presunte estorsioni", appartenendo "alla normale dinamica di rapporti di lavoro e alle tante variabili circa la gestione dell'impresa".
Delle cinquantuno pagine di cui si compone l'ordinanza impugnata, ben nove sono dedicate all'argomentata valutazione della contestazione delle condotte estorsive commesse ai danni di alcuni lavoratori alle dipendenze della società ISI Service s.r.l., consistita nel prospettare loro la mancata assunzione, il licenziamento o la mancata corresponsione della retribuzione, nel caso in cui non avessero accettato le condizioni di lavoro loro imposte, ed in particolare costringendoli ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e alla contrattazione collettiva, quali: lavoro in nero, trattamenti economici inferiori rispetto a quello pattuito, sottoscrizione di lettere di dimissioni in bianco, rinuncia a godere di congedi per malattia o per infortunio sul lavoro, procurandosi in tal modo l'ingiusto profitto rappresentato dalla mancata erogazione delle somme legalmente dovute, anche per oneri contributivi e previdenziali e prestazioni di lavoro straordinario, con pari danno per i suddetti lavoratori.
Emerge dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità che in nessun caso può essere legittimata e ricondotta "alla normale dinamica di rapporti di lavoro" un'attività minatoria, in danno di lavoratori dipendenti, che approfitti delle difficoltà economiche o della situazione precaria del mercato del lavoro per ottenere il loro consenso a subire condizioni di lavoro deteriori rispetto quelle previste dall'ordinamento giuridico, in attuazione delle garanzie che la Costituzione della Repubblica pone a tutela della libertà, della dignità e dei diritti di chi lavora.
Se anche la realtà dei rapporti economici e sociali evidenzia asimmetrie di potere e disparità contrattuali ai danni dei lavoratori dipendenti in contrasto con i principi di libertà, uguaglianza e dignità riconosciuti dall'ordinamento giuridico, è stato ripetutamente e condivisibilmente affermato da questa Corte che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, in presenza di una legittima aspettativa di assunzione, costringa l'aspirante lavoratore ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi (Cass. Sez. 2, n. 16656/2010); quella del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi (v. Cass. n. 36642/2007); quella dell'imprenditore che prospetti ai dipendenti, in un contesto di grave crisi occupazionale, la perdita del posto di lavoro per il caso in cui non accettino un trattamento economico inferiore a quello risultante dalle buste paga (Cass. n. 656/2010).
Giova anche ricordare che la minaccia, quale elemento costitutivo del delitto di estorsione, non richiede necessariamente che la coartazione avvenga mediante la minaccia di un male irreparabile alle persone o alle cose, tale da non lasciare al soggetto passivo una libertà di scelta, essendo sufficiente la prospettazione di un male che in relazione alle circostanze che l'accompagnano sia tale da far sorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio (v. Cass. n. 15971/1990).
Nel caso in esame, il quadro che emerge dal provvedimento impugnato è notevolmente più grave di quello preso in esame degli indicati precedenti giurisprudenziali.
Non solo il Tribunale ha dato conto dell'attività di "caporalato", esercitata anche dall'indagato e dai coindagati, lucrando la differenza tra il compenso pattuito per ciascun lavoratore con le ditte committenti di mano d'opera e quanto poi effettivamente versato ai lavoratori dalle società riconducibili al T., ma ha evidenziato, sulla base di conversazioni intercettate, le pressioni sui lavoratori (in parte provenienti da Pietraperzia) per interrompere legittimi congedi per malattie o per infortuni sul lavoro, facendo sottoscrivere lettere di dimissioni per eludere il preavviso di legge per il licenziamento, nell'interesse degli imprenditori, volta a realizzare chiusure di attività o messa in liquidazione di imprese.
L'accertata prassi di far sottoscrivere lettere in bianco, poi utilizzate anche all'insaputa dei sottoscrittori, è stata correttamente assunta dal Tribunale a dimostrazione della situazione di permanente minaccia sulla libertà di autodeterminazione dei lavoratori al fine di assecondare richieste e decisioni dell'impresa.
Per risolvere questioni insorte con taluni dipendenti, tuttavia, tali prassi - secondo la ricostruzione motivatamente operata dai giudici del merito - non venivano utilizzate sino alle estreme conseguenze al fine di evitare "incidenti diplomatici". Per convincere il dipendente A.G. (genero di R.P., soggetto ritenuto di notevole spessore criminale e originario di Pietraperzia) a interrompere il suo stato di malattia al fine procedere all'immediata liquidazione dell'impresa, il T. richiese l'intervento di F.C., formalmente estraneo alla società ISI Service, sia per rendere più forte la pressione sia per evitare reazioni del R..
L'intervento del F., secondo la plausibile e, perciò, insindacabile motivazione del Tribunale, trova razionale giustificazione nel ruolo da lui rivestito in seno alla famiglia mafiosa di Pietraperzia, costituendo la diretta manifestazione della protezione assicurata agli imprenditori della consorteria mafiosa operanti nel milanese.
6.2. Inammissibile è il secondo motivo dedotto con riferimento alle contestazioni di concorso in usura (capo F, G, I, H) con cui, al di là della rubrica, si deduce vizio di motivazione, lamentando che il Tribunale non abbia approfondito il "rapporto sottostante" tra l'indagato e le vittime dell'usura ( Av., B., C. e R.).
A fronte dall'articolata e motivata esposizione dei fatti e della relativa valutazione espresse nell'ordinanza impugnata (pp. 18-39), il motivo di ricorso non si da il minimo carico delle argomentazioni del Tribunale e, pertanto, va considerato privo della specificità richiesta dall'art. 581 c.p.p., lett. e) e art. 591 c.p.p., lett. e).
6.3. Eguale conclusione va adottata per la denunciata violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) e dell'art. 546 c.p.p., lett. e), in relazione al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, con riferimento alle plurime fittizie intestazioni di beni operate dal T.. In proposito va aggiunto che lo scrupolo e l'attenzione del Tribunale sono palesate dalla differenza di valutazione tra le contestazioni di cui alle lett. L ed N, per i quali è stata confermata l'ordinanza cautelare, e quella di cui alla lett. M, per la quale il Tribunale è pervenuto all'annullamento della misura, non avendo rinvenuto elementi per poter desumere che anche tale attribuzione fosse fittizia e finalizzata all'agevolazione del riciclaggio di proventi delittuosi.
6.4. Infondata è anche la censura sull'applicabilità alla concreta fattispecie della L. n. 203 del 1991, art. 7.
I giudici di merito hanno motivatamente valutato che i metodi utilizzati dal T. e le finalità di agevolazione mafiosa perseguite, sorreggono l'aggravante contestata, facendo corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità. L'intervento decisivo - su sollecitazione del T. - del F., ritenuto il referente locale della "decina" lombarda facente capo alla mafiosa pietrina, costituisce di per sè una grave intimidazione che integra l'aggravante contestata in relazione all'estorsione dei lavoratori (cfr. Cass. n. 5783/2010, Marino). Per gli altri reati contestati, lo stretto collegamento tra proventi delle attività delittuose, parziale destinazione di essi alla cosca madre di Pietraperzia in cambio della protezione mafiosa sono stati legittimante ritenuti, allo stato, elementi idonei alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante.
6.5. Inammissibile è, infine, il motivo con cui si deduce, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l'inosservanza dell'art. 416 c.p., risolvendosi la censura in una lettura degli elementi indiziari diversa e alternativa rispetto a quella operata dal Tribunale ed espressa, nell'ordinanza impugnata, con motivazione giuridicamente corretta e indenne da vizi logici, sindacabili ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso del T., che condanna al pagamento delle spese processuali. Manda la Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.
In accoglimento del ricorso del Pubblico Ministero, annulla l'ordinanza impugnata limitatamente al capo B) della contestazione e rinvia per nuovo esame su tale capo al Tribunale di Caltanissetta.
Rigetta nel resto il ricorso del PM. Così deciso in Roma, il 1 luglio 2010.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2010.

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