Le misure alternative alla detenzione: dalla riforma dell'ordinamento penitenziario alle attuali applicazioni legislative.



Avv. Salvatore Braghini.

Le misure alternative alla detenzione costituiscono senz’altro il profilo più innovativo della legge 354 del 1975, che ha riformato l’ordinamento penitanziario. Prima di allora il soggetto veniva condannato dal giudice della cognizione ad una pena che doveva essere scontata necessariamente per intero; tale giudice per emettere la condanna prendeva a base il fatto nella sua “oggettività storica”, mentre il soggetto, la sua pericolosità e la reiterazione del reato erano considerati solo come situazione aggravante o scriminante del reato. Dal ’75 in poi, invece, la condanna non è più fissa e immutabile, stabilita dal giudice della cognizione, ma  può essere rimodulata dal Tribunale di sorveglianza in ragione dei progressi che il soggetto ha compiuto all’interno dell’istituto nel percorso riabilitativo e di altri requisiti stabiliti dalle norme. 
Le misure alternative, introdotte dalla l. 354/75 e dai successivi interventi legislativi (soprattutto la l. 663 del 1986, legge Gozzini e la l. 165 del 1998, conosciuta come legge Simeone-Saraceni) che hanno apportato novità e modifiche sono le seguenti: l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 o.p.), l’ affidamento in prova in casi particolari (art. 47-bis o.p.), la detenzione domiciliare (art. 47-ter o.p.), le misure alternative alla detenzione nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria (art. 47-quater o.p.); il regime di semilibertà e l’ammissione al regime di semilibertà.
La liberazione anticipata non può essere considerata una misura alternativa alla detenzione, benché sia collocata sistematicamente nel Capo VI (intitolato "Misure alternative alla detenzione") della legge sull'ordinamento penitenziario (art. 54 o. p. e art. 103 R. E.). Essa, infatti, consiste in una riduzione della pena,  laddove tutte le misure alternative si limitano ad agire sulla modalità di esecuzione della stessa. Per l’esattezza, la riduzione è pari a 45 giorni, per ogni 6 mesi di pena espiata, compreso il periodo di custodia cautelare e di detenzione domiciliare, e riguarda il detenuto che ha tenuto una regolare condotta ed ha anche partecipato alla attività di osservazione e trattamento. Lo stesso dicasi per la liberazione condizionale - disciplinata dagli art. 176 e 177 del Codice penale, con le modifiche apportate dalle leggi n. 1634 del 1962 e n. 663 del 1986 e sotto il profilo processuale dalla legge n. 6 del 1975 – la quale comporta la sospensione dell'esecuzione della pena per un certo tempo, trascorso il quale senza che il condannato liberato abbia commesso un altro reato la pena si estingue. L'istituto ha la finalità principale di prevenire la ricaduta nel reato, favorendo l'emenda dei colpevoli, tuttavia è anche strumento utilizzato per conseguire una migliore disciplina nei penitenziari.
Ma esaminiamo le misure alternative alla detenzione. 
L’affidamento in prova al servizio sociale, di cui all’art. 47 o.p., consiste nell’affidare il condannato ad una pena detentiva non superiore a 3 anni al servizio sociale fuori dell’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare. La norma stabilisce che il provvedimento deve essere adottato sulla base dei risultati dell’osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento stesso contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. La legge n. 165/98 (legge Simeone) ha introdotto la possibilità di concedere tale provvedimento anche senza procedere all’osservazione in istituto a patto che il condannato, dopo la commissione del reato, abbia osservato un comportamento tale da far ritenere di per sé che l’affidamento in prova contribuisca alla rieducazione del reo e alla prevenzione dei reati. Una volta affidato al servizio sociale sarà questo a controllare la condotta del soggetto, aiutandolo a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita, e riferendo periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto. L’affidamento è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione della prova.
L’ affidamento in prova in casi particolari, di cui all’art. 47-bis o.p., è stato abrogato dall’art. 3 della l. n. 165/98. Era stato, infatti, introdotto con la l. n. 144/85 per essere applicato a coloro che avessero già iniziato il trattamento di riabilitazione, e - dapprima sostituito dall’art. 12 della l. n. 663/86, che veniva applicato anche a coloro che avessero intenzione di iniziare il trattamento di riabilitazione - è stato assorbito dall’art. 94 del D.P.R. n. 309/90.                                                                                                                            La detenzione domiciliare, di cui all’art. 47-ter o.p., è stata introdotta dalla legge n. 663 del 1986 (legge Gozzini) e stabilisce che sulla base di certi presupposti  - inerenti o lo stato del reo, o la sua condizione psico-fisica o la sua età -  la pena della detenzione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza. I più importanti casi di applicazione sono quelli che si riferiscono alle seguenti categorie di soggetti: donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; padre, esercente la podestà, di prole inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole; persona in condizioni di salute particolarmente gravi; persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente; persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia. La detenzione domiciliare non va confusa con gli arresti domiciliari, quest’ultima essendo una misura cautelare alternativa alla detenzione applicata al “giudicabile”, cioè a colui  che è  sottoposto a regime di custodia cautelare, che può essere un soggetto in attesa del giudizio di primo grado, un appellante oppure un ricorrente. La detenzione domiciliare si propone di ampliare l'opportunità delle misure alternative, consentendo la prosecuzione, per quanto possibile, delle attività di cura, di assistenza familiare, di istruzione professionale, già in corso nella fase della custodia cautelare nella propria abitazione (arresti domiciliari) anche successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, evitando così la carcerazione e le relative conseguenze negative. La legge Simeone (l. 165/98) ha introdotto un’ulteriore criterio applicativo della detenzione domiciliare con riferimento a una pena detentiva non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle predette condizioni, allorché, non ricorrendo i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociali, tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati .        
Le misure alternative alla detenzione nei confronti dei soggetti (detenuti o anche internati) affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, di cui all’art. 47-quater o.p., sono state introdotte con la l. n. 231/99, in quanto la precedente legge del ’93 lo applicava esclusivamente ai soggetti affetti da AIDS conclamata. L’art. 47-quater prevede che l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare possono essere applicate anche oltre i limiti di pena predeterminati, su istanza dell’interessato o del suo difensore, nei confronti di coloro che sono affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’articolo 286/bis, comma 2, del codice di procedura penale e che hanno in corso o che intendono intraprendere un programma di cura e assistenza presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell’assistenza ai casi di AIDS. Le prescrizioni da impartire per l’esecuzione della misura alternativa devono contenere anche quelle relative alle modalità di esecuzione del programma. In caso di applicazione della misura della detenzione domiciliare, i centri di servizio sociale per adulti svolgono l’attività di sostegno e controllo circa l’attuazione del programma.
Il regime di semilibertà, di cui all’art. 48 o.p., consiste nella concessione al condannato e all’internato - a tal fine assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome di istituti ordinari - di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative (anche autonome), istruttive o comunque utili al reinserimento sociale (come ad esempio un’attività di volontariato). Il detenuto, che indossa abiti civili, diversamente dall’affidamento in prova, non esce dall’istituto per essere affidato ai centri di servizio sociale, configurando così una misura più blanda delle precedenti.
L’ammissione alla semilibertà, di cui all’art. 50 o.p.  prescrive che possono essere espiate in regime di semilibertà la pena dell’arresto e la pena della reclusione non superiore a sei mesi, se il condannato non è affidato in prova al servizio sociale. Il condannato può essere ammesso al regime di semilibertà soltanto dopo l’espiazione di almeno metà della pena ovvero, se si tratta di condannato per taluno dei delitti indicati dal comma 1 dell’art. 4-bis, di almeno due terzi di essa. L’internato può esservi ammesso in ogni tempo. Tuttavia nei casi previsti dall’art 47, se mancano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale (che è una misura più vantaggiosa rispetto alla semilibertà), il condannato per un reato diverso da quelli indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis può essere ammesso al regime di semilibertà anche prima dell’espiazione di metà della pena. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso al regime di semilibertà dopo aver espiato almeno venti anni di pena. La legge Simeone ha altresì introdotto la possibilità che tale misura venga disposta successivamente all’inizio dell’esecuzione della pena qualora il condannato abbia dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale.  
In generale, le misure alternative alla detenzione possono essere soggette a revoca qualora vengano in essere delle situazioni tali da non consentirne più la prosecuzione (ad esempio nel caso in cui il soggetto non si attenga alle disposizioni). Esse, verificandosi i presupposti, sono finalizzate a cercare di avvicinare il soggetto al contesto sociale. Per questo lo stesso legislatore del ’75 accanto ad esse introdusse altre misure, sperimentali, consistenti in “permessi”; quest’ultimi in un primo momento pensati in collegamento a situazioni di necessità e successivamente ampliati come permessi premio (a partire dall’86 con la legge Gozzini). Con queste misure si dà la possibilità al soggetto di uscire  (osservate certe modalità e certe condizioni) per un breve periodo di tempo dall’istituto penitenziario, osservando la sua reazione al fine di valutare la sua eventuale ammissione ad una misura alternativa alla detenzione. 
Seguendo con ordine il crinale evolutivo della normativa relativa alle misure alternative  va segnalata anzitutto la legge n. 689 del 24 novembre 1981 con cui si introducono le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Con la novella del 1981 si stabilisce che il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna, ha facoltà di disporre la sostituzione di una pena detentiva entro il limite di un anno con la semidetenzione, che rappresenta quella sanzione penale imposta a un condannato in stato di libertà, con l’obbligo di sottoporsi alla privazione connessa al regime detentivo per alcune ore al giorno. Altra tipologia di sanzione sostituisce una pena detentiva entro il limite di sei mesi con la “libertà controllata”, che configura una modalità di trattamento di un soggetto detenuto; o ancora una pena pecuniaria in luogo della pena detentiva entro il limite di tre mesi. 
La  l. n. 297/85, per consentire l’inizio o la prosecuzione di un programma terapeutico da tossicodipendenza o alcooldipendenza, introdusse il diritto di chiedere l’affidamento in prova al servizio sociale nello stato di libertà, con l’obbligo per l’organo dell’esecuzione, a fronte di istanza debitamente documentata, di non emettere l’ordine di carcerazione (o di ordinare la scarcerazione dell’interessato qualora l’ordine fosse già stato emesso ed eseguito) e di investire la magistratura di sorveglianza per la decisione sul merito. 
Più profonda risulta la riforma introdotta con l’approvazione della l. 663/1986 (legge-Gozzini) che, altro non è stato, se non il naturale completamento di un generale processo innescato dalla riforma del ’75 in ordine a modalità trattamentali differenziate secondo parametri predeterminati e flessibili che graduano la severità della pena. Viene così potenziata la gamma di operatività delle misure alternative e, più in generale, dei benefici penitenziari, secondo una logica che esprime inequivocabilmente una volontà politica di contenere le istanze di tipo strettamente custodiale. Dall'altro lato, però, con il legalizzare la forma della “sorveglianza particolare”, sottraendola all'arbitrio dell' amministrazione penitenziaria, si considerano anche le esigenze di sicurezza e quindi, sotto questo punto di vista, la legge muove da preoccupazioni di tipo garantista.
Con la Legge Gozzini del 1986 si é avuto conseguentemente l’ampliamento delle misure alternative mediante l’introduzione dei permessi premio, della detenzione domiciliare (che è la misura alternativa maggiormente usata) e del regime di sorveglianza particolare (ex art. 14/bis), che viene disciplinato dall’art. 41/bis, con cui si ha l’abrogazione dell’art. 90 – Esigenze di sicurezza dell’ordinamento penitenziario. Questo articolo, dall’iter molto travagliato, alla luce della modificazione avvenuta nel 2002, afferma che ai detenuti e agli internati per delitti commessi per finalità di terrorismo, per associazione camorristica e mafiosa (art. 416/bis c.p.), per riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), per traffico di schiavi (art. 601 c.p.), per alienazione di schiavi (art. 602 c.p.), per sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.), per i delitti disciplinati  dall’art. 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, per i delitti disciplinati dall’art. 74 della l. n. 309 del ’90 (testo unico sulle tossicodipendenze) non sono concessi i benefici (assegnazione al lavoro all’esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione), salvo la liberazione anticipata. Tali benefici possono però essere loro concessi qualora essi collaborino con la giustizia e sussistano i presupposti. La Corte Costituzionale con sentenza n. 68 del ’95 ha dichiarato l’illegittimità del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 152 del ’91, affermando che anche se la collaborazione del detenuto e dell’internato non risulta essere utile, comunque egli può (laddove naturalmente vi siano i presupposti) avere diritto ai benefici, in quanto con la sua collaborazione ha dimostrato che non ha attuali collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva (che va cioè contro l’ordine dello Stato; ad esempio gli anarchici e i brigatisti). 
Un’altra importante legge, la l. n. 165/98 (nota come Legge Simeone) - cercando di porre rimedi ad alcuni squilibri derivanti dall’applicazione della legge Gozzini - intese perseguire gli obiettivi di evitare la privazione della libertà di persone che, pur condannate, presentino i requisiti per fruire di misure alternative alla detenzione, nonché di accelerarne (sia pure in via interlocutoria) l’adozione a favore di detenuti a ciò legittimati, evitando il dannoso protrarsi della carcerazione determinato dall’accumulo degli affari presso i Tribunali di sorveglianza. La legge n. 165 mostra la volontà del legislatore di contenere il problema della costante progressione della popolazione detenuta dal momento della sentenza di condanna, affrontando il problema dello scarso accesso alle misure alternative da parte di quei soggetti economicamente deboli che, non potendo fruire di un'assistenza legale adeguata, non riescono ad evitare il carcere anche quando ne avrebbero diritto. Tutte le misure alternative, infatti, sono concesse solamente su richiesta del condannato e non d’ufficio. Per ovviare a tale inconveniente, il legislatore ha introdotto, per le pene inferiori a tre anni di reclusione (quattro per i tossicodipendenti), l'obbligo per l'autorità giudiziaria di avvertire il condannato che deve essere eseguita contro di lui una sentenza di condanna detentiva, specificando che egli può, entro 30 giorni, presentare istanza al Tribunale di Sorveglianza per accedere alle misure alternative. Nel corso di questo periodo, l'esecuzione della sentenza è sospesa. A tali fini, il legislatore ha usato lo strumento della rielaborazione del codice di procedura penale nella disposizione concernente l’esecuzione delle pene detentive e gli interventi del pubblico ministero, nonché della modificazione e dell’integrazione della normativa dell’ordinamento penitenziario. In particolare, è statuito (art. 656 c.p.p.) che il pubblico ministero sospenda l’esecuzione delle pene detentive, anche se residue, contenute entro i limiti di concedibilità degli strumenti alternativi e disponga la notifica dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione al condannato con avviso della facoltà a costui riservata di presentare, nel termine perentorio di trenta giorni, istanza adeguatamente documentata per la concessione dell’affidamento in prova, della detenzione domiciliare, della semilibertà, dell’affidamento terapeutico o della sospensione dell’esecuzione per i reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza. A seguito dell’istanza, il pubblico ministero è tenuto a trasmettere gli atti al Tribunale di sorveglianza per la decisione sul merito.
Sempre con la legge 165/98 sono dettate norme per consentire la concessione di misure alternative ai condannati già agli arresti domiciliari, mentre per i condannati in stato di detenzione in carcere, è attribuita, al magistrato di sorveglianza, sulla base di determinati presupposti, la possibilità di disporre la liberazione del condannato in vista della successiva possibile ammissione, da parte del Tribunale di sorveglianza, all’affidamento in prova al servizio sociale o al regime di semilibertà, nonché di disporre l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare sempre in vista della successiva decisione da parte dell’organo collegiale. 
Allo stato attuale della legislazione, dunque, l’esecuzione penitenziaria non costituisce più il centro dell’esecuzione penale. La l. n. 165/98, in particolare con la previsione dell’art. 656 c.p.p. e l’automatica sospensione di tutte le pene inferiori a tre anni, costituisce il punto di partenza verso una nuova concezione della fase dell’esecuzione, con l’obbligo di previa verifica della possibilità di applicare sanzioni non carcerarie al condannato. L’esecuzione penitenziaria si è pertanto avviata a costituire sanzione penale residuale. Essa viene applicata automaticamente alla presunzione di pericolosità sociale che il legislatore prevede per le pene superiori a tre anni, ovvero solo ove una misura alternativa non possa trovare applicazione.
Vi è da aggiungere che, contemporaneamente all’assimilazione culturale da parte della società di una nuova concezione della pena, soprattutto grazie alle leggi appena trattare, si va sempre più affermando un nuovo modello di giustizia, chiamato “giustizia riparativa”. Esso non costituisce ancora, a livello costituzionale, un vero e proprio modello alternativo di giustizia, ma fornisce modalità di intervento applicabili allo schema socio-riabilitativo, che a sua volta tende ad una rivalutazione della vittima del reato nell’interno dell’esecuzione penale. Sperimentata a livello internazionale, nella legislazione italiana le possibilità di applicazione della giustizia riparativa sono da tempo reperibili nell’ambito dell’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale, laddove prevede che l’affidato si adoperi a favore della vittima del reato o che presti la sua opera a titolo risarcitorio del danno. In tale ambito lo strumento della mediazione penale -  dall’esperienza del laboratorio di Modena del progetto sulla mediazione penale in applicazione del Protocollo d’Intesa firmato nel 1998 fra Regione Emilia  Romagna e Ministero della Giustizia - ha per la prima volta coinvolto nel percorso di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti anche le vittime. 
Da segnalare anche la l. 26 novembre 2010, n. 199 (c.d. “sfolla-carceri”), che introduce nuove disposizioni per l’esecuzione delle pene detentive non superiori a dodici mesi, affiancandosi alle diverse modalità di esecuzione delle pene detentive brevi che, come abbiamo visto, trovano una regolamentazione nella legge di ordinamento penitenziario e in alcune leggi speciali. In particolare, la legge 199/2010 – entrata a regime dal 16 dicembre dello steso anno fino alla “completa attuazione del piano straordinario penitenziario nonché in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2013” (art. 1.1) – prevede che qualora la pena detentiva da eseguire non sia superiore a dodici mesi, questa possa essere scontata in luoghi esterni al carcere. In questi casi, il pubblico ministero sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza affinché disponga che la pena venga eseguita presso il domicilio. Analogamente potrà essere disposta questa nuova “detenzione domiciliare” anche nel caso in cui il condannato sia già detenuto e la pena detentiva non superi i dodici mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena (art. 1.4).Una disposizione particolare è prevista nel caso di condannato tossicodipendente o alcoldipendente sottoposto ad un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi. In questo caso, la pena potrà essere eseguita presso una struttura sanitaria pubblica o una struttura privata accreditata.
Di recente, con il provvedimento adottato nella forma del decreto legge, si è intervenuti nuovamente sulle misure alternative alla detenzione sollevando non poche polemiche. Probabilmente l’opinione pubblica, o parte di essa, ha  avvertito che questa volta, agendo (anche) su tali misure, si è cercata una via impropria per contrastare il fenomeno del sovraffollamento carcerario. Si tratta del d.l. 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti in materia di sovraffollamento carcerario), approvato in via definitiva il 14 febbraio scorso dall’Aula della Camera, con 385 voti a favore, 105 contrari e 26 astenuti. I punti più importanti riguardano le nuove modalità di convalida dell’arresto e del giudizio direttissimo dinanzi al tribunale in composizione monocratica, l’innalzamento da 12 a 18 mesi del periodo residuo di pena detentiva che è possibile scontare nella propria abitazione, l’estensione della disciplina dell’ingiusta detenzione ai procedimenti anteriori all’emanazione del codice di procedura penale del 1988, la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. A suscitare maggiori perplessità tra le forze politiche, il sindacato di polizia penitenziaria e molti cittadini, diversi cambiamenti introdotti. Senz’altro quelli dovuti alla norma che modifica l’art 588 del c.p.p., con cui, da una parte, si stabilisce che la misura dell’arresto deve essere convalidata entro le 48 ore successive alla sua esecuzione (il termine originariamente previsto di 96 ore è stato dimezzato), e, dall’altra, si aggiungono due commi al testo dello stesso articolo, in virtù dei quali, come regola generale, il P.M. dovrà disporre la custodia dell’arrestato in attesa di convalida presso il domicilio (o in altro luogo di privata dimora o luogo pubblico di cura o assistenza), e, solo ove ciò non sia possibile, in idonee strutture nella disponibilità di ufficiali o agenti della polizia giudiziaria. Scopo dichiarato della novità introdotte all’art. 588 c.p.p. è quello di favorire l’accelerazione della procedura e, per quanto riguarda i due commi aggiunti, di scongiurare il fenomeno delle c.d. “porte girevoli”, ossia la carcerazione per pochi giorni; poiché, da ora in poi, l’ arrestato in flagranza per i reati di scippo e furto in abitazione, di rapina e di estorsione verrà custodito presso le camere di sicurezza del circondario. L’interrogatorio delle persone in stato di detenzione, o perché in attesa di giudizio di convalida, o per qualsivoglia altro motivo, avverrà, invece, nel luogo di custodia. Nell’occhio del ciclone anche la misura che allunga di sei mesi la possibilità di applicare la detenzione residuale presso il domicilio (quest’ultima introdotta dalla l. 199/2010 – “sfolla carceri”) ad un maggior numero di detenuti, anch’essa volta a ridurre il fenomeno delle “porte girevoli”. Altra modifica destinata ad avere un rilievo dirompente è quella prevista con riguardo alla misura di sicurezza del ricovero in O.P.G. (art. 3ter del d.l. 211/2011): il provvedimento ne stabilisce la definitiva chiusura entro il 1° febbraio 2013, e, a decorrere dal 31 marzo 2013, l’esecuzione della misura avverrà esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie regionali, e le persone che nel frattempo hanno cessato di essere socialmente pericolose dovranno essere dimesse e prese in carico dai Dipartimenti di salute mentale territoriali. Peraltro, allo scopo di contrastare il sovraffollamento degli istituti presenti sul territorio nazionale, per l'anno 2011, è autorizzata la spesa di circa 57 milioni e 200mila euro per le esigenze connesse all’adeguamento, potenziamento e alla messa a norma delle infrastrutture penitenziarie. 
Sarà utile correggere alcune prese di posizione nell’opinione pubblica frettolosamente scaturite da informazioni date (e assunte) in modo frammentario. La detenzione presso il domicilio non é applicabile ai soggetti condannati per delitti gravi (terrorismo, mafia, traffico di stupefacenti, omicidio, violenza sessuale di gruppo), ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, e nei casi di concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga ovvero sussistono specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti ovvero quando non sussista l’idoneità e l’effettività del domicilio anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato.
L’opportunità del provvedimento persegue senz’altro il fine di allentare la progressione della popolazione carceraria ed anzi contribuire alla sua decrescita. Non può trascurarsi che, secondo i dati del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), aggiornati al 31 gennaio 2012, sono 66.973 i detenuti nelle carceri italiane a fronte di una  “capienza regolamentare”  di 45.688 posti. Nel dettaglio i detenuti con sentenza definitiva sono 38.097, ben 27.383 in attesa di giudizio e quelli in attesa di primo giudizio raggiungono la cifra di 13.854 unità. Sono 1.264 invece le persone internate negli ospedali psichiatrici giudiziari italiani (Opg), di cui 1.178 sono uomini, 86 donne. A volte i dati parlano da soli! Dopodichè, se uno Stato debba risolvere il problema delle carceri in questo o in altro modo, è del tutto opinabile. Ci limitiamo ad osservare che da un’attenta lettura del provvedimento, che non può certo avvenire dal semplice ascolto dei titoli di un tg, ci si rende conto che nessuno dei provvedimenti in esso indicati implica soluzioni automatiche, poiché sarà sempre il magistrato a valutare se il soggetto sia meritevole dei vantaggi introdotti relativamente al suo stato di limitazione della libertà. In merito alla chiusura degli Ospedali psichiatrici, invece, è bene evidenziare che non potrà avvenire un rilascio indiscriminato degli internati, includendovi quelli socialmente pericolosi. Per farsi un opinione consapevole, conviene anche leggere la risoluzione approvata lo scorso 15 dicembre dal Parlamento europeo, in cui è chiaramente detto che sono necessarie misure urgenti per rimediare “all’allarmante situazione” delle carceri europee, chiedendo standard minimi comuni a tutta l’UE sulle condizioni di detenzione e nuove regole per garantire il rispetto dei diritti dei detenuti. 
In conclusione, tornando al tema della nostra ricerca, è utile riflettere sul giudizio espresso dall’autorevole giurista Antonio Lovati, da noi condiviso, per il quale l’esistenza di forme alternative alla detenzione offre vantaggi eccezionali. In particolare tali misure mettono in primo piano la persona, rendono più umana la pena e il modo di viverla, stimolano e facilitano l’elaborazione di un trattamento per la persona, preparandola più efficacemente al reinserimento, permettono di conservare i rapporti con la famiglia e con la comunità di appartenenza.

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