Art. 8 CEDU. Diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Art. 8 Diritto al rispetto della vita privata e familiare.
1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Giurisprudenza rilevante in tema di art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare).
I messaggi privati pubblicati dal proprio coniuge su un sito di incontri possono essere utilizzati nella causa di divorzio?
I messaggi privati pubblicati dal proprio coniuge su un sito di incontri possono essere usati nella causa di divorzio, sempreché la divulgazione della corrispondenza abbia un effetto limitato sulla sua privacy. Non sussiste, infatti, alcuna violazione dell'articolo 8 della Cedu, che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza, nel caso di presentazione in giudizio della corrispondenza online del coniuge, al fine di stabilire una responsabilità condivisa nella separazione. Ad affermarlo è la cedu, chiamata a esaminare un caso portoghese, i cui una donna si era lamentata del fatto che il marito non fosse stato condannato, per violazione della sua privacy, per aver inserito nel dossier della causa di divorzio i messaggi che lei aveva scritto a degli uomini, da sposata, su un sito di incontri.Corte europea diritti dell'uomo sez. IV, 7 settembre 2021, n.27516
Rientrano nell'art. 10 CEDU i commenti pubblicati su un social media che incitano alla violenza e all'odio?
La libertà di esprimere le proprie opinioni politiche e il dibattito pubblico devono essere garantiti soprattutto in periodi di elezioni politiche, ma non rientrano nell'ambito dell'articolo 10 della Convenzione europea che assicura la libertà di espressione i commenti pubblicati su un social media che incitano alla violenza e all'odio. In tali casi, le autorità giurisdizionali nazionali devono intervenire e, la sanzione applicata, se proporzionale, è conforme alla Convenzione. Il “proprietario” della pagina Facebook deve essere considerato responsabile dei commenti che incitano alla violenza pubblicati sulla sua pagina. In caso di mancata rimozione è in linea con la Convenzione la condanna inflitta dai giudici nazionali.Corte europea diritti dell'uomo sez. V, 2 settembre 2021, n.45581
L'anonimizzazione di un articolo nell'archivio digiale di un giornale è contrario al diritto alla libertà di stampa?
La misura decisa dai giudici nazionali, che impone l'anomizzazione di un articolo di stampa contenuto nell'archivio di un giornale reperibile online, non è contraria al diritto alla libertà di stampa se si tratta di una persona non pubblica o che non esercita funzioni pubbliche. Garantendo l'integrità dell'articolo negli archivi, senza però renderlo reperibile sul web, si raggiunge - rispetto a un fatto che non è di interesse generale - un giusto bilanciamento tra i diritti in gioco tenendo conto dell'assenza di notorietà della persona e della vicenda che non era di rilievo per i media e per collettività nel suo complesso.Corte europea diritti dell'uomo sez. III, 22 giugno 2021, n.57292
Il licenziamento di un dipendente pubblico per il fatto di aver messo "mi piace" su Facebook viola la CEDU?
Sì costituisce violazione dell'art. 10 CEDU.
Il licenziamento di un dipendente pubblico per il solo fatto di avere messo «mi piace» su un post su Facebook costituisce una violazione dell'articolo 10 della Cedu, che tutela la libertà di espressione. A dirlo è la cedu condannando la Turchia in relazione al licenziamento irrogato nei confronti di una dipendente del ministero dell'istruzione, addetta alle pulizie aveva messo un “like” su alcuni post di altri utenti nei quali si usavano toni accessi contro le politiche repressive delle autorità pubbliche e si incoraggiava a protestare contro tali pratiche. Per la Corte di Strasburgo, le autorità nazionali non possono disporre la cessazione dal rapporto di lavoro anche se il post contiene dure critiche nei confronti delle autorità e, nel valutare una sanzione al dipendente, devono considerare la differenza tra condivisione di un messaggio e semplice «mi piace» sul post, nonché la popolarità del profilo su Facebook.
Corte europea diritti dell'uomo sez. II, 15 giugno 2021, n.35786
Stupro di gruppo: risarcimento del danno per la presunta vittima di stupro a seguito di sentenza che contiene passaggi lesivi della sua vita privata.
In un procedimento penale relativo ad un presunto stupro subito da una donna, sono del tutto ingiustificati i riferimenti fatti dai giudici nella motivazione a particolari quali la biancheria intima indossata, nonché i commenti sulla sua presunta bisessualità. Ad affermarlo con una durissima sentenza è la cedu che si è pronunciata su un caso deciso dalla Corte d'appello di Firenze nel 2015, in cui furono assolti i 7 imputati accusati di uno stupro di gruppo avvenuto nella Fortezza da Basso nel 2008 ai danni di una donna. A ricorrere alla Corte di Strasburgo è stata la presunta vittima della violenza, la quale non ha chiesto ai giudici di esprimersi sull'assoluzione degli imputati, bensì sul contenuto della sentenza, che secondo lei ha violato la sua vita privata e l'ha discriminata. La Corte di Strasburgo le ha dato ragione accordandole un risarcimento per danni morali di 12mila euro condannando l'Italia per aver violato i diritti della «presunta vittima di stupro» con una sentenza che contiene «dei passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima», «dei commenti ingiustificati» e un «linguaggio e argomenti che veicolano i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana».Corte europea diritti dell'uomo sez. I, 27 maggio 2021, n.5671
Le misure di restrizione e il lockdown per il contrasto all'epidemia da Covid-19 possono equipararsi agli arresti domiciliari?
Il lockdown e le misure di restrizione adottate dalle autorità per contrastare l'emergenza epidemiologica da Covid-19 non possono essere equiparate agli arresti domiciliari. A dirlo è la cedu dichiarando inammissibile il ricorso presentato da un eurodeputato rumeno contro il proprio Paese, per il quale l'interdizione a uscire di casa, se non per una serie di motivi limitati, avrebbe violato il suo diritto a non essere privato della libertà, sancito dall'articolo 5 della Cedu. I giudici hanno sottolineato come per ragioni di salute pubblica sono ammesse restrizioni alla libertà di movimento. Inoltre, le restrizioni contestate si applicavano a tutti e le autorità non avevano adottato alcuna misura individuale nei confronti del ricorrente.Corte europea diritti dell'uomo, 20 maggio 2021, n.49993
Violenza in struttura pubblica e violazione del diritto alla vita.
Nei casi di violenza all'interno di una struttura pubblica, gli Stati sono tenuti a svolgere inchieste e procedimenti giudiziari, in particolare di natura penale, per accertare se è stato violato il diritto alla vita. Non sussiste però un obbligo di risultato. Pertanto, non si verifica una violazione della Cedu se gli imputati vengono assolti. Ciò che conta non è il risultato, ma l'aver messo in campo misure necessarie e adeguate per lo svolgimento dell'indagine e del procedimento giudiziario. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti assolvendo l'Italia dalla violazione dell'articolo 2 della Convenzione, che assicura il diritto alla vita sia sotto il profilo sostanziale che procedurale e impone agli Stati obblighi positivi. Il caso di specie riguardava il triste episodio di un bambino, che era stato ucciso durante un incontro protetto in una struttura pubblica dal padre, il quale a sua volta si era suicidato. In seguito veniva aperta un'inchiesta sui i dipendenti della struttura, i quali venivano però assolti. Di qui l'azione dinanzi alla Corte europea che, però, ha respinto il ricorso.Corte europea diritti dell'uomo sez. I, 11 maggio 2021, n.44166