DIRITTO PENALE. Concorsi in estorsione: quali gli elementi distintivi ai fini della determinazione delle aggravanti in tema di reati di mafia? Cass. Pen. sez. II n. 38686 del 17 settembre 2013.

In tema di concorso in estorsione, le aggravanti di cui all’art. 7 del D.L. 152 del 1991 devono essere valutate tenuto conto delle modalità dell’estorsione nonché del chiaro e dichiarato intento estorsivo. Le aggravanti di cui al citato art. non vengono meno con il mero decorso del tempo, che pur costituisce ex art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) uno degli aspetti della motivazione nella scelta della misura, ma che non esclude di per sè l'attualità e la concretezza delle condizioni di cui all'art. 274 c.p.p., lett. c).

Conformi: Cass. Pen. Sez. II, n. 21424 del 20.4.11; Cass. Pen. Sez. IV, n. 6717 del 26.6.2007.

Cass. penale sez. II n. 38686 del 17 settembre 2013.

Nota dell'Avv. Augusto Careni

Nella sentenza n. 38686 del 17 settembre 2013 la Suprema Corte torna ad occuparsi del reato di concorso in estorsione continuata, analizzando nel caso di specie le aggravanti previste e disciplinate dall’art. 7 del D.L. 152 del 1991, ovvero l’uso del metodo mafioso con la finalità di agevolare l’associazione di tipo mafiosa.
Il caso prende avvio con la richiesta di riesame avanzata dall’indagato dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP per il reato di concorso in estorsione.
Il ricorrente riteneva non sussistente l’aggravante di cui alla disposizione citata, in quanto l’ordinanza non aveva delineato quali fossero state le modalità utilizzate per arrecare vantaggio all'organizzazione mafiosa, nè aveva chiarito in cosa fosse consistito il metodo mafioso.
La II sez. penale non condivide tale assunto, ritenendo al contrario immune da vizi l’ordinanza impugnata, la quale ha correttamente ravvisato l'aggravante dell'art. 7 citato sotto il profilo metodologico e teleologico.
Sotto il primo, ha valorizzato le modalità dell'estorsione (chiaramente evocative della provenienza della pretesa da parte di un'associazione mafiosa), accompagnate dal consueto invito a rivolgersi ad un intermediario, noto anche alle persone offese per essere appartenente ad un particolare clan mafioso e per essere il "responsabile" del quartiere.
Sotto il secondo, ha considerato che la pretesa estorsiva era fatta con il dichiarato intento di "aiutare i ragazzi detenuti" e che proveniva da soggetti, alternatisi nel corso del tempo, quasi tutti appartenenti al medesimo clan.
Per i giudici di piazza Cavour a far venir meno le aggravanti in parola non è sufficiente il mero decorso del tempo dalla commissione del reato, poiché, come la Cassazione ha già avuto modo di ribadire in altre pronunce (Cass. Sez. 2, n. 21424 del 20.4.11, dep. 27.5.11; Cass. Sez. 4, n. 6717 del 26.6.2007, dep. 13.2.2008) in tema di misure coercitive il tempo trascorso dalla commissione del reato, che pur costituisce ex art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) uno degli aspetti della motivazione nella scelta della misura, non esclude di per sè l'attualità e la concretezza delle condizioni di cui all'art. 274 c.p.p., lett. c).

Cass. penale sez. II  n. 38686 del 17 settembre 2013.

FATTO

Con ordinanza del 26.2-8.3.13 il Tribunale di Catania, sezione riesame, confermava l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 2.2.13 dal GIP dello stesso Tribunale nei confronti di M.S.G. per concorso in estorsione continuata (dal 2004 al 28.1.13) e pluriaggravata (anche ex L. n. 203 del 1991, art. 7 per l'utilizzo del metodo mafioso e per la finalità di agevolare l'associazione di tipo mafioso denominata clan S.E.), ai danni dei titolari del (OMISSIS) sito nel quartiere (OMISSIS).
Ricorreva personalmente il M. contro detta ordinanza, di cui chiedeva l'annullamento per i motivi qui di seguito riassunti:
a) inosservanza dell'art. 192 c.p.p. per avere sia il GIP che il Tribunale del riesame omesso di valutare l'attendibilità intrinseca, oggettiva e soggettiva, dei collaboratori T.S. e L. C.S., limitandosi a sottolineare i riscontri esterni del loro narrato e senza accertare che le loro dichiarazioni fossero state rese in modo indipendente e che non fossero, invece, il frutto di una strumentalizzazione o di una mera concertazione; per altro, le dichiarazioni dei collaboratori erano approssimative e, in particolare per il T., non coincidenti nelle due occasioni in cui era stato sentito; quanto al L.C., egli aveva riferito di circostanze apprese de relato e le sue dichiarazioni erano prive di riscontri individualizzanti;
b) inutilizzabilità, per violazione dell'art. 63 c.p.p., comma 2, delle dichiarazioni dei soggetti passivi C. e P., che una prima volta sentiti dalla polizia giudiziaria avevano negato di essere stati sottoposti ad estorsione: pertanto, poichè le loro prime dichiarazioni integravano il delitto di favoreggiamento ex art. 378 c.p., nel momento in cui avevano poi reso le - successive - dichiarazioni accusatorie il C. e il P. dovevano essere sentiti in qualità di persone sottoposte ad indagini; poichè ciò non era avvenuto, la loro dichiarazioni erano processualmente inutilizzabili;
c) insussistenza dell'aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e inosservanza degli artt. 292 e 275 c.p.p. perchè l'impugnata ordinanza non aveva delineato quali fossero state le modalità utilizzate per arrecare vantaggio all'organizzazione mafiosa, nè aveva chiarito in cosa fosse consistito il metodo mafioso;
l'aggravante in discorso era esclusa dalla stessa genesi della presunta estorsione (le parti offese si erano rivolte a M.R., che conoscevano come appartenente alla famiglia S. e che era stato da poco scarcerato), nonchè dal fatto che quando i due gestori del bar decisero di non pagare più la tangente non subirono alcuna azione ritorsiva; ad escludere, infine, le massime esigenze cautelari concorreva anche il decorso del tempo dal presunto reato, atteso che la stessa impugnata ordinanza sottolineava che il contributo offerto dall'indagato risaliva ad epoca anteriore al 2009;
infine, in assenza di contestazioni in ordine al delitto di cui all'art. 416 bis c.p. successive al periodo coperto dal giudicato (2003), il Tribunale non avrebbe potuto parlare di presunzione di adeguatezza della custodia cautelare intramuraria, ma avrebbe dovuto indicare ulteriori elementi da cui desumere detta adeguatezza.
 

DIRITTO

1 - Il motivo che precede sub a) è infondato.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'impugnata ordinanza ha, con motivazione immune da vizi logico-giuridici, evidenziato che l'esistenza dell'estorsione continuata è stata confermata dalle credibili dichiarazioni dei collaboratori, dall'arresto in flagranza del correo F.D.E., dagli esiti delle indagini di p.g. (arricchite anche da riprese effettuate da apposite telecamere installate all'interno del (OMISSIS)) e dalle due condanne definitive riportate dal M. per partecipazione ad associazione mafiosa.
Si tratta di rilievi che riscontrano le dichiarazioni delle persone offese (ancorchè non ve ne sia bisogno, non applicandosi in tal caso i canoni dell'art. 192 c.p.p., commi 2 e 3), che individuano specificamente il M. come uno degli autori dell'estorsione, collocandone nel tempo l'attiva partecipazione a più riprese, insieme con altri indagati inseriti nel suddetto sodalizio mafioso, quanto meno fino al 2009 (epoca in cui, avendo saputo della collaborazione del T. con gli inquirenti, aveva intimato al C. e al P. di non riferire alcunchè dell'estorsione in corso).
In breve, bastano per individuare gravi indizi di colpevolezza a carico dell'odierno ricorrente le dichiarazioni delle persone offese, rispetto alle quali quelle provenienti dai collaboratori fungono da meri (per altro neppure necessari) riscontri.
Per il resto, le argomentazioni svolte in ricorso sollecitano, in sostanza, solo una terza lettura in punto di fatto delle risultanze processuali, così collocandosi all'esterno dell'area di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1.
2- Anche il motivo che precede sub b) è infondato.
Si consideri che, per configurarsi la sanzione dell'inutilizzabilità erga omnes ex art. 63 c.p.p., comma 2 in riferimento alle dichiarazioni rese da una persona offesa, deve sussistere un collegamento tra il reato a suo carico astrattamente ipotizzabile e quello precedentemente commesso da altri in danno del dichiarante medesimo.
Orbene, questa Corte Suprema ha già avuto modo di precisare che "l'inutilizzabilità nei confronti dei terzi prevista dall'art. 63 c.p.p. per le dichiarazioni rilasciate da persona che fin dall'inizio avrebbe dovuto essere sentita in qualità di indagato o imputato è subordinata, in ogni caso, alla condizione che il dichiarante sia colpito da indizi in ordine al medesimo reato ovvero al reato connesso o collegato attribuito al terzo", con la conseguenza che devono ritenersi utilizzabili le dichiarazioni rese dal soggetto passivo contro l'autore di una (anche solo tentata) estorsione (cfr.
Cass. Sez. 2, n. 2539 del 5.5.2000, dep. 25.5.2000, Papa, CED-216299;
cfr. nello stesso senso Cass. Sez. 3, n. 18765 del 26.2.03, dep. 18.4.03; Cass. Sez. 2, n. 45566 del 21.10.09, dep. 26.11.09).
Ciò emerge altresì dalla sentenza Carpanelli delle Sezioni Unite (Cass. S.U. 9.10.96 n. 1282, dep. 13.2.97, Carpanelli, CED-206846), secondo cui "Le dichiarazioni della persona che fin dall'inizio avrebbe dovuto essere sentita come indagata o imputata sono inutilizzabili anche nei confronti dei terzi, sempre che provengano da soggetto a carico del quale già sussistevano indizi in ordine al medesimo reato ovvero a reato connesso o collegato con quello attribuito al terzo, per cui dette dichiarazioni egli avrebbe avuto il diritto di non rendere se fosse stato sentito come indagato o imputato; restano invece al di fuori della sanzione di inutilizzabilità comminata dall'art. 63 c.p.p., comma 2 le dichiarazioni riguardanti persone coinvolte dal dichiarante in reati diversi, non connessi o collegati con quello o quelli in ordine ai quali esistevano fin dall'inizio indizi a suo carico, poichè rispetto a questi egli si trova in una posizione di estraneità ed assume la veste di testimone".
La motivazione di tale pronuncia (seguita da nutrita e conforme giurisprudenza di questa S.C., rispetto alla quale non si ravvisa motivo di discostarsi) precisa che le norme che disciplinano la posizione dell'imputato e del coimputato dello stesso reato e dell'imputato di reato connesso o collegato attuano il principio del diritto al silenzio.
L'art. 63 c.p.p., comma 2 rende operante tale diritto in un momento antecedente a quello dell'assunzione formale della qualità di indagato od imputato, costituendo in tal modo un fronte avanzato di tutela. L'incapacità a testimoniare di tali soggetti (nonchè la correlativa disciplina del loro esame con le garanzie difensive e la facoltà di non sottoporvisi) riguarda l'intero contenuto dei temi oggetto di esame, quindi sia ciò che attiene alla propria posizione, sia i fatti che riguardano il terzo che assuma la veste di coimputato dello stesso reato o di imputato di reato connesso o collegato.
Invero, taluno di questi soggetti, nel momento in cui rende dichiarazioni accusatorie nei confronti degli altri che si trovano in una posizione processuale in vario modo legata alla propria (concorso nel reato, attribuzione di reato connesso o collegato), può riferire circostanze che, per l'intima connessione e l'interdipendenza tra il fatto proprio e quello altrui, possono coinvolgere la sua responsabilità ed indurlo, anche per questo solo motivo, ad esercitare il diritto al silenzio, che gli viene riconosciuto in virtù del principio nemo tenetur se detegere.
Ciò non si verifica nell'ipotesi in cui il soggetto sia imputato, nello stesso o in altro processo, per un reato o per reati che non abbiano alcun legame processuale con quelli per cui si procede, rispetto ai quali la posizione del dichiarante è di totale estraneità ed indifferenza ed è, quindi, quella del testimone.
Da ciò discende che in tanto può intervenire il regime di inutilizzabilità assoluta di cui all'art. 63 c.p.p., comma 2, in quanto le dichiarazioni provengano da persona a carico della quale sussistevano indizi in ordine allo stesso reato o a reato connesso o collegato attribuito al terzo, dichiarazioni che avrebbe avuto il diritto di non rendere se fosse stato sentito come indagato od imputato.
Nel caso specifico del soggetto passivo di estorsione che dapprima neghi di esserne vittima e, poi, ritratti la precedente dichiarazione accusando gli autori del reato v., ex aliis, la già citata Cass. Sez. 2, n. 2539/2000, nonchè Cass. Sez. 6, n. 33836 del 13.5.08, dep. 25.8.08, che escludono l'inutilizzabilità assoluta di cui all'art. 63 c.p.p., comma 2 delle dichiarazioni rese dal soggetto passivo del reato p. e p. ex art. 629 c.p..
La stessa sentenza Carpanelli sopra ricordata conclude il discorso affermando che la sanzione dell'inutilizzabilità ex art. 63 c.p.p., comma 2 deve essere mantenuta entro limiti rigorosi, perchè solo in quei limiti si può dire che essa sia dettata in funzione deterrente rispetto alla prassi di sentire una persona senza le garanzie dell'imputato o dell'indagato (al fine di poter continuare a svolgere indagini informali, ignorando deliberatamente l'esistenza di indizi di reità a suo carico) e che persegua lo scopo di evitare il pericolo di dichiarazioni compiacenti o negoziate a carico di terzi.
E ciò per l'evidente ragione che colui che ha la veste di testimone in rapporto alle persone nei cui confronti rende dichiarazioni accusatorie non ha bisogno di alcuna tutela difensiva e non può perciò diventare oggetto di alcuna ipotetica strumentalizzazione da parte degli organi inquirenti.
Orbene, non è chi non veda come non possa rientrare sotto la previsione dell'art. 63 c.p.p., comma 2 la posizione del soggetto passivo del delitto di tentata estorsione che dapprima neghi di esserne vittima, poi - ritrattando la precedente dichiarazione - accusi l'autore del reato: in siffatta evenienza non si tratta di persona indagabile per lo stesso reato (da un lato vi è l'estorsione, dall'altro un eventuale favoreggiamento), nè per reato connesso ex art. 12 c.p.p. a quello attribuito ad altri; nè fra i due reati vi è collegamento probatorio (l'estorsione non è dimostrata dall'altrui favoreggiamento) nè l'un reato è presupposto giuridico dell'altro (possono coesistere l'uno indipendentemente dall'altro); si tratta solo di due prove distinte ed autonome che - pur derivando contemporaneamente dalla stessa fonte - non hanno alcuna influenza reciproca, posto che nessuna delle due rafforza od inficia la valenza dell'altra. Ed è appena il caso di sottolineare che il derivare la prova di più reati, anche solo in parte, dalla stessa fonte non costituisce collegamento tra reati, ma soltanto collegamento tra indagini, essendo previsto non già dall'art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b) (richiamato dagli artt. 192, 197 e 197 bis c.p.p.), bensì dall'art. 371 c.p.p., comma 2, lett. c) (non richiamato da tali norme).
In conclusione, le dichiarazioni rese dal C. e dal P. quali mere persone offese sono pienamente utilizzabili.
3 - Il motivo che precede sub c) è infondato nella parte in cui contesta l'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e l'esistenza di esigenze cautelari.
In realtà, l'impugnata ordinanza ha - con motivazione immune da censure - ravvisato l'aggravante dell'art. 7 cit. sotto il profilo metodologico e teleologico.
Sotto il primo, ha valorizzato le modalità dell'estorsione (chiaramente evocative della provenienza della pretesa da parte di un'associazione mafiosa), accompagnate dal consueto invito a rivolgersi ad un intermediario, Ma.Ra., noto anche alle persone offese per essere appartenente al clan mafioso dei S. e per essere il "responsabile" del quartiere.
Sotto il secondo, ha considerato che la pretesa estorsiva era fatta con il dichiarato intento di "aiutare i ragazzi detenuti" e che proveniva da soggetti, alternatisi nel corso del tempo, quasi tutti appartenenti al citato clan S., come accertato da precedenti condanne definitive.
Nè, ad escludere le esigenze cautelari valga il fatto che i gestori del bar non avrebbero patito azioni ritorsive dopo aver deciso di non pagare più la tangente, trattandosi di effetto ricollegabile all'azione di contrasto da parte delle forze dell'ordine, culminata con l'arresto il flagranza del correo F.D.E., avvenuto il (OMISSIS).
Nè in contrario basta invocare il mero decorso del tempo dalla commissione del reato: è appena il caso di rammentare che in tema di misure coercitive il tempo trascorso dalla commissione del reato, che pur costituisce ex art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) uno degli aspetti della motivazione nella scelta della misura, non esclude di per sè l'attualità e la concretezza delle condizioni di cui all'art. 274 c.p.p., lett. c) (cfr., ad es., Cass. Sez. 2, n. 21424 del 20.4.11, dep. 27.5.11; Cass. Sez. 4, n. 6717 del 26.6.2007, dep. 13.2.2008), che nel caso di specie i giudici del riesame hanno ravvisato nella particolare caratura criminale dell'odierno ricorrente, risultante (come emerge dalla lettura della gravata ordinanza) dai numerosi e specifici precedenti penali e, segnatamente, dalla perdurante sua affiliazione al clan mafioso di cui s'è detto.
Il motivo di ricorso è, invece, fondato nella parte in cui lamenta un vizio di motivazione in ordine all'adeguatezza della misura.
Con sentenza n. 57/2013 la Corte cost. ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 275 c.p.p., comma 3, secondo periodo, come modificato dal D.L. n. 11 del 2009, art. 2, comma 1, nella parte in cui - nel prevedere che, ove sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva anche l'ipotesi in cui siano stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
La Corte cost. ha ritenuto che l'art. 275 c.p.p., comma 3 violi l'art. 3 Cost., art. 13 Cost., comma 1 e art. 27 Cost. comma 2, estendendo le proprie argomentazioni anche ai delitti commessi avvalendosi del c.d. metodo mafioso e ai delitti commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall'art. 416 bis c.p..
In breve, la citata pronuncia ha fatto venir meno quella presunzione di adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere su cui, invece, si è basata la decisione del Tribunale del riesame.
4- In conclusione, l'ordinanza impugnata deve annullarsi limitatamente all'adeguatezza della misura, con rinvio al Tribunale di Catania per nuovo esame sul punto affinchè accerti se esistano, eventualmente, elementi specifici da cui risulti che le esigenze cautelari già ravvisate nei confronti del M. possano essere soddisfatte con altre misure.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, annulla l'ordinanza impugnata limitatamente all'adeguatezza della misura con rinvio al Tribunale di Catania per nuovo esame sul punto.
Si provveda a norma dell'art. 94 disp. att. c.p.p..
Così deciso in Roma, il 17 settembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2013

- VEDI ANCHE:

- Legge n. 3/2012: Usura, estorsione e composizione delle crisi da indebitamento. 

 

 

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