Incompatibilità della professione forense e P.A.

Una questione che si ripropone con una certa frequenza in tema di compatibilità tra impiego nella Pubblica Amministrazione ed esercizio della professione forense riguarda la possibilità degli avvocati che svolgono la professione docente, nelle università



INCOMPATIBILITÀ DELLA PROFESSIONE FORENSE E P.A.

Avv. Salvatore Braghini – foro di Avezzano

Una questione che si ripropone con una certa frequenza in tema di compatibilità tra impiego nella Pubblica Amministrazione ed esercizio della professione forense riguarda la possibilità degli avvocati che svolgono la professione docente, nelle università e nelle scuola superiore, di patrocinare cause in cui la controparte sia una Pubblica amministrazione.

Il problema viene sollevato soprattutto ai docenti di scuola superiore, ai quali, il dirigente scolastico, nel concedere l’autorizzazione allo svolgimento della libera professione di avvocato appone sovente la clausola di non assumere incarichi professionali nelle cause in cui è parte l’amministrazione. Punto di partenza per inquadrare la fattispecie dal punto di vista della professione forense all’art. 3 r.d.l. n. 1578/1933 in cui è stabilita una deroga al regime delle incompatibilità dei pubblici dipendenti - esteso a tutte le attività (industriali, commerciali professionali e realative ad altri impieghi) - in favore dei professori universitari e degli istituti secondari dello stato a svolgere tale professione.

Sul fronte dei docenti della scuole statali occorre riferirsi, invece, al Testo Unico della scuola, in cui è previsto che “Al personale docente è consentito, previa autorizzazione del direttore didattico o del preside, l'esercizio di libere professioni che non siano di pregiudizio all'assolvimento di tutte le attività inerenti alla funzione docente e siano compatibili con l'orario di insegnamento e di servizio” (art. 508 D. Lgs. n.297/1994).

Le norme, lette in chiave simmetrica, si armonizzano senza discrasie di sorta, in quanto convergono nell’accordare al personale docente la facoltà di esercitare le libere professioni, previa autorizzazione del capo d’istituto, in coerenza con la legge speciale che, derogando alla preclusione di ordine generale valevole per tutti i pubblici dipendenti, ammette una deroga in favore di professori delle scuole e delle università che intendano esercitare la professione di avvocato. Il quadro cambia decisamente con l’approvazione del decreto legge n. 79/1997, che, introducendo il comma 56-bis all’art. 6 della legge finanziaria n. 662/1996, da una parte consentiva ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale “l'iscrizione ad albi e l'esercizio di attività professionali” precedentemente vietati ma dall’altra sembra irrigidire lo spettro d’azione del professionista.

Se, infatti, attraverso tale misura permissiva si intendeva favorire il ricorso al part-time, ancora poco diffuso tra i ranghi della pubblica amministrazione, essa sembra bilanciata dalla successiva previsione normativa, in cui è stabilito che “ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche; gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione“.

Da una lettura superficiale della predetta norma sembra ricavarsene un freno alla liberalizzazione mediante una contrazione delle opportunità professionali che implicano una relazione con le pubbliche amministrazioni. Ciò non corrisponde però alla ratio legis, in quanto la predetta norma precisa che “restano ferme le altre disposizioni in materia di requisiti per l'iscrizione ad albi professionali e per l'esercizio delle relative attività”, appalesando l’intento di sottrarre all’ambito di applicazione di tali limitazioni coloro che erano già abilitati alle professioni in forza delle disposizioni precedenti.

La prevalente interpretazione limitativa del d. l. n. 79/1997, più immediata ma anche più superficiale, provocava un vivace dibattito finché, con legge n. 339 del 2003 recante “Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato”, si torna la vecchio regime delle incompatibilità, abolendo la deregulation estesa ai pubblici dipendenti che avessero optato per il part-time.

L’art. 1 comma 1 di tale legge prevede, infatti, che “1. Le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non si applicano all'iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni.”

Con l’art. 2 si disciplina il caso di chi aveva sino ad allora beneficiato dell’accesso alla professione :“I pubblici dipendenti che hanno ottenuto l'iscrizione all'albo degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e risultano ancora iscritti, possono optare per il mantenimento del rapporto d'impiego, dandone comunicazione al consiglio dell'ordine presso il quale risultano iscritti, entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.(…)”.

Un’attenta lettura di tale ultima norma svela che l’espressione “pubblico dipendente” si riferisce a coloro che in precedenza non potevano esercitare la professione forense e - solo in virtù del decreto legge n. 79/1997 - avevano potuto essere ammessi all’esercizio della professione stessa in caso di adesione al regime di part-time; resta esclusa, invece, l’interpretazione, del tutto irrazionale , che vorrebbe tutti i dipendenti pubblici, quindi compresi i professori delle scuole superiori e universitari, obbligati ad esercitare la prescritta opzione pro impiego, in quanto deprivati della facoltà di praticare contemporaneamente quest’ultimo e la professione forense. Diversamente opinando, l’estensione preclusiva ai docenti universitari e delle scuole si porrebbe in contrasto con le disposizioni derogative di cui al r.d.l. n. 1578/1933, art. 3, comma 4. lett., norme non solo mai abrogate ma altresì richiamate da tutte le successive disposizioni.

D’altronde, il richiamo alla predetta disciplina di epoca regia, è posto - come sopra evidenziato - sin dall’art. 1 della legge 339/03, in virtù della quale “Le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non si applicano all'iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578”.

In merito veniva chiamato a pronunciarsi con un procedimento d’urgenza il tribunale di Lanciano, che con ordinanza del 6 aprile 2010, così ricostruisce la vicenda a partire proprio dal regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578: “ Dalla lettura di tale norma (tuttora vigente), si desume dunque che per i professori di scuole secondarie, come pure per le altre categorie ivi previste, non si pongono limitazioni all’esercizio della professione forense, né limitazioni in ordine alla possibilità di assistere solo una determinata sfera di clientela e/o di affrontare solo determinate cause.

Detto in altri termini, l’art. 3 del citato Regio decreto non prevede alcuna limitazione in relazione alle materie o alla natura e/o qualità delle parti del procedimento per l’esercizio della professione forense dell’avvocato che sia nel contempo (come nel caso di specie) anche professore di scuola secondaria.

Si ritiene dunque che la normativa applicabile alla concreta fattispecie debba essere quella prevista dall’art. 3 R.d.L 27 novembre l 933 n. 1578, che consente ai professori-avvocati di poter difendere chiunque, pubblica amministrazione compresa e che appare essere una lex specialis rispetto alla norma di cui all’art. 1 comma 56 bis L. 662/96, allo stato peraltro norma priva di concreta applicazione, in quanto (dopo la modifica attuata dalla L 339/03) gli unici dipendenti autorizzati ad iscriversi all’albo degli avvocati sono i professori-avvocati, che hanno però la lex specialis che li abilita a difendere chiunque, ergo anche una P.A.” Alla luce di quanto riportato, i soli dipendenti pubblici che attualmente possono svolgere la professione forense sono i professori universitari e quelli delle scuole superiori “per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578”.

Tra tali limiti e divieti non sono certamente ricompresi quelli di cui all’art.1 comma 56-bis, che - come si è visto - non era applicabile né ai tempi della sua emanazione (riguardando i dipendenti part-time di altre amministrazioni) né tanto meno dopo che la stessa disposizione è stata abrogata.

Si può osservare, altresì, che una volta reintrodotto lo sbarramento alle iscrizioni negli albi professionali per i dipendenti part-time, la disapplicazione dei commi 56, 56-bis e 57 di cui all’art. 1 della legge 662/96 nei riguardi dell’iscrizione esclusiva all’albo degli avvocati dei pubblici impiegati operata dalla legge 339/03 risulta alquanto ridondante, in quanto gli unici dipendenti abilitati ad iscriversi all’albo agli avvocati sono i professori-avvocati, i quali, invero, hanno già una legge speciale (il predetto regio decreto) che li legittima in tal senso e li autorizza a difendere chiunque, quindi anche la Pubblica Amministrazione, oltre che ad avere incarichi da quest’ultima.

A questo punto ben si comprende come sia del tutto fuorviante il parere espresso dalla Direzione Generale per il personale scolastico del MIUR con nota prot. AOODGPER757 del 22.01.2009 che esclude la possibilità dei docenti che esercitano la libera professione di Avvocato di patrocinare controversie nelle quali sia parte in causa una pubblica amministrazione.

Parere pedissequamente richiamato da note degli Uffici Scolastici regionali, i quali si sono precipitati a dettare disposizioni ai dirigenti scolastici intese a comunicare la censura nei confronti di docenti che esercitano la libera professione di Avvocato accettando controversie verso la P.A., spingendosi, in alcuni casi, a ordinare di effettuare verifiche in merito a incompatibilità dei docenti in servizio, già autorizzati all’esercizio della libera professione di avvocato ai sensi dell’art. 508 del D.L. vo n. 297/94, i quali, hanno assunto il patrocinio in cause in cui è parte una pubblica amministrazione.

La nota del Miur fonda il loro assunto sul dettato di cui all’art. 1, comma 56bis, della legge 23-12-1996, n. 662 introdotto dal D.L. n. 79/97 convertito nella legge 28.05.97, n. 140, ignorando che – come testé evidenziato - la legge n. 662/96 (e segnatamente il divieto a suo tempo previsto dal predetto comma 56bis), è stata espressamente disapplicata dall’art. 1 della legge 25 novembre 2003, n. 339; per cui è del tutto illegittimo - da parte degli Uffici Scolastici Regionali e dai dirigenti che seguono la loro indicazione in subiecta materia - appellarsi ad una norma desueta per imporre il divieto di patrocinio, in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione, ai docenti della scuola iscritti agli albi degli avvocati che esercitano attività professionale previa autorizzazione ex art. 508 del D.L.vo n. 297/94.

La citata legge n. 399/2003, con l’art. 1, disapplicando per l’attività forense i commi 56, 56bis e 57 della legge n. 662/1996, in buona sostanza, per gli avvocati dipendenti della Pubblica Amministrazione, per un verso ripristina le incompatibilità previste dall’art. 3 della legge n. 36/1934 (v. co. 2), per altro verso (co. 4) consente lo svolgimento della libera professione ai docenti della scuola secondaria di I e II grado senza alcuna limitazione nel patrocinio, anche se in servizio a tempo pieno.

Non è superfluo rimarcare che la norma, che consente lo svolgimento della libera professione di avvocato (allora procuratore legale) testé citata (co. 4, art. 3 legge n. 36/1934), unitamente alla legge n. 339/03, muove la sua ratio (già in tempi lontani), con l’intento di elevare il livello dei docenti in termini di conoscenze tecniche specifiche, al fine di migliorarne la professionalità con positivi riflessi nell’attività di insegnamento.

Ma, in materia, vi è di più!

L’art. 1 della legge n. 339/03 è stato anche oggetto di pronuncia del massimo Organo deputato alla verifica della legittimità costituzionale delle norme della Repubblica Italiana: la Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 390 del 2006, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003 n. 339, confermando, quindi, la legittimità dell’art. 1 che, come già detto, ha disapplicato anche l’abusato comma 56bis.

Con la sentenza n. 390/2006 la Corte costituzionale ha, altresì, precisato che per i docenti si applica la disciplina speciale di cui alla lex specialis individuata dal decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, ma, ciò che più rileva, ha affermato che l'eccezione relativa ai docenti deve essere valutata alla luce del principio costituzionale della libertà dell'insegnamento (art. 33 Cost.), dal quale discende che il rapporto di impiego (ed il vincolo di subordinazione da esso derivante), come non può incidere sull'insegnamento (che costituisce la prestazione lavorativa), così, ed a fortiori, non può incidere sulla libertà richiesta dall'esercizio della professione forense. Pertanto, secondo la Suprema Corte, il vincolo di subordinazione dei docenti - visto alla luce del precetto di cui all’art.33 Cost.- non può comportare alcuna limitazione nell’esercizio dell’attività professionale: “non può incidere sulla libertà richiesta dall'esercizio della professione forense”.

Ciò trova puntuale conferma nei precetti di rango costituzionale in materia di pubblico impiego, quali l’art. 98 Cost., il quale prevede che “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”, e non già dell’amministrazione, e l’art. 97 Cost. a mente del quale “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.

Alla luce di detti principi non appaiono certamente contrari agli “interessi” della P.A. la verifica e il controllo anche in sede giurisdizionale della propria attività, in relazione alla legalità e all’imparzialità di atti e provvedimenti adottati. D’altronde non è pensabile ritenere, dal punto di vista giuridico, che possa sussistere un “interesse” della P.A. all’emanazione di un atto illegittimo; essendo, non a caso, possibile esperire - oltre al ricorso giurisdizionale - il ricorso amministrativo ed essendo facoltà della stessa P.A. rimuovere il provvedimento illegittimo “in autotutela”.

Sul punto, soccorre ancora una volta l’autorevole insegnamento della Suprema Corte: “La previsione d'un potere-dovere di annullamento (…), lungi dal rappresentare "un elemento di distorsione della funzionalità degli uffici", si configura invece quale elemento fondante dell'azione amministrativa (in quanto corollario del principio di legalità), tra i cui fini deve intendersi compreso quello di evitare il consolidarsi di situazioni costituitesi contra legem: Corte Cost., 22/03/2000, n. 75).

In conclusione va ricordato che tale interpretazione è stata ribadita anche dal Consiglio Nazionale Forense in virtù della propria competenza a decidere in caso di eventuali incompatibilità nell’esercizio della professione.

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