PENSIONI. Dipendenti Pubblici: calcolo del requisito pensionistico di "quota 96".



Nota alla sentenza della Corte dei Conti regionale dell’Abruzzo n. 46 del 20 maggio 2014

Avv. Salvatore Braghini, foro di Avezzano

La Corte dei Conti dell’Aquila con sentenza n. 46 del 20 maggio 2014 ha stabilito che il calcolo del requisito pensionistico di “quota 96” per i dipendenti pubblici va eseguito adottando l’ordinario criterio dell'arrotondamento “a mese”, in quanto, per quest’ultimi, l'anzianità di servizio è sempre stata computata in “anni” e “mesi” anziché in “settimane contributive” (nozione, quest’ultima, estranea al sistema pensionistico dei dipendenti dello Stato); l’arrotondamento peraltro non deve avvenire al terzo decimale (ex circolare Inps n. 60/08) ma al secondo, in quanto il criterio d cui alla circolare Inps 60/08 risulta arbitrario ed irragionevolmente sproporzionato rispetto all'esigenza in concreto perseguita, cioè quella di una valutazione inevitabilmente “arrotondata” della somma di età anagrafica e anzianità di servizio (ragguagliata ad anno intero), finendo per attribuire rilievo decisivo, con ingiusta penalizzazione, a frazioni di tempo del tutto marginali, sembrando invece più logico ed equo arrotondare ad un valore prossimo quanto meno alla intera “settimana contributiva”.

Una dipendente del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR) appartenente al personale A.T.A. (Assistenti Tecnici Amministrativi) presentava nel marzo 2012 le proprie dimissioni volontarie, con decorrenza 01.09.2012, ritenendo di aver maturato il diritto a pensione con la c.d. “quota 96” – traguardo che si ottiene sommando gli anni di servizio (35 ovvero 36) all’età anagrafica (61 ovvero 60 anni) ai sensi dell'art. 1, comma 6, lettera a) della legge 23 agosto 2004, n. 243.

Requisito che la ricorrente sosteneva di aver maturato entro la data del 31.12.2011, come richiesto dall'art. 24, comma 3, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (“decreto Fornero”).

Nella domanda, accettata dall'amministrazione scolastica nei termini di legge, l'interessata aveva dichiarato la propria volontà di non interrompere il rapporto di impiego nel caso in cui venisse accertata la mancata maturazione del diritto al trattamento di pensione e aveva poi inoltrato all'Inps gestione ex-Inpdap domanda di pensione.

L'Ufficio scolastico Regionale per l'Abruzzo dava atto del diritto a pensione dell'istante, sulla base dei servizi dichiarati, computando in particolare un totale di servizi utili a pensione di anni 36 e mesi 6 alla data del 31 agosto 2012 (come comunicato all'Inps) e, per l'effetto, il raggiungimento già alla data del 31 dicembre 2011 del requisito di “quota 96”. Al fine di accertare il diritto a pensione, di competenza del datore di lavoro, il MIUR procede sommando all’età anagrafica di 60 anni 2 mesi e 24 giorni di età, l’“anzianità contributiva” di 35 anni e 9 mesi di servizio, per un totale di 95 anni, 11 mesi e 24 giorni, adottando nel sistema di calcolo per l’accertamento del diritto a pensione - e qui si situa il punto controverso all’origine del ricorso - un arrotondamento a 96.

Tale arrotondamento non è considerato legittimo dall’Inps, che, senza comunicare alcunché all’Ufficio Pensioni dell’amministrazione scolastica e all’interessata, con determinazione del 4 ottobre 2012, conferiva alla dipendente la pensione diretta ordinaria di anzianità (con decorrenza 1 settembre 2012) secondo le regole del calcolo contributivo di cui al decreto legislativo n. 180 del 1997.

L'Istituto previdenziale, infatti, ha ritenuto che la dipendente non avesse maturato il requisito della “quota 96” alla data del 31.12.2011 e, di conseguenza, ha provveduto a conferire all'interessata l'unica pensione a suo avviso maturata e quindi spettante, vale a dire quella “contributiva” (anziché quella calcolata con il sistema retributivo).

Non condividendo l'operato dell'Inps e, in subordine, quello dell'amministrazione scolastica, dopo aver esperito inutilmente i rimedi amministrativi, l'interessata si è vista costretta ad adire la competente Corte dei Conti regionale d’Abruzzo per vedere riconosciuto il proprio diritto al ricalcolo della pensione su base retributiva e al rimborso della differenza tra la pensione percepita e quella spettante per il periodo dal 1° settembre 2012 all'esecuzione, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, con tutti i consequenziali effetti.

L’Ente della previdenza ha invocato a giustificazione del proprio operato la necessità di applicare al caso de quo la circolare Inps n. 60 del 15.05.2008, in base al quale l'età anagrafica della ricorrente sarebbe pari a 60,23 (ossia 60 + 84/365), mentre l'anzianità contributiva risulterebbe di 35,76 (ossia 1860 settimane / 52), non raggiungendo alla data del 31.12.2011 quota 96 ma quota 95,99, seppur di poco inferiore a quella prevista per legge ai fini del trattamento pensionistico.

Il ragionamento della Corte, nel riconoscere il diritto della ricorrente a beneficiare del sistema di calcolo retributivo, si è concentrato nel ricostruire la corretta interpretazione delle normative, diversamente stratificate nel tempo, ai fini del computo del “requisito” del diritto a pensione.

Anzitutto viene chiamata in causa la decorrenza del 1 gennaio 1998, stabilita dall'art. 59, comma 1, lettera b) della legge 27 dicembre 1997, n. 449, ai sensi del quale “per la determinazione dell'anzianità contributiva ai fini sia del diritto che della misura della prestazione, le frazioni di anno non danno luogo ad arrotondamenti per eccesso o per difetto”, con ciò abrogando l'art. 40, secondo comma, del “Testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato”, approvato con D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, che fissava la regola in base a cui “se nel totale del servizio effettivo risulta una frazione d'anno, la frazione superiore a sei mesi si computa come anno intero; la frazione uguale o inferiore a sei mesi si trascura”. Giova osservare che quando nel 2010 entrava in vigore il criterio delle quote per determinare i requisiti per la pensione di anzianità ai sensi della l. 247/07 (nota come riforma del governo Prodi), a modifica della l. 243/04 (nota come riforma Maroni), nessuna delle suddette leggi ha dato indicazioni sulla procedura per il calcolo della quota.

E’ questo il motivo per cui gli Enti Previdenziali - con le circolari applicative, la n. 7 del 13/5/08 dell’INPDAP e la n. 60 del 15/5/2008 dell’INPS - hanno definito il criterio per il calcolo delle quote, ovvero l’anzianità pensionistica necessaria per ottenere la pensione di anzianità: fermi restando i minimi di anni 35 e di anni 60, la quota si ottiene sommando i due parametri in anni, mesi e giorni.

Ed è solo l’INPDAP con la sua circolare a precisare che si deve eseguire la somma senza arrotondamenti, adottando un’interpretazione restrittiva in quanto nessuna legge è esplicita su questo punto.

L’INPS, dal canto suo, non accenna ad alcun arrotondamento; questo modo di ragionare non gli è congeniale a motivo del fatto che misura l’anzianità in settimane, non in anni/mesi/gg; ciononostante nella sua circolare, quando si sofferma sulle conversioni delle settimane, considera l’arrotondamento al terzo decimale.

Ciò supposto, la sentenza rileva come nella prassi si sia ritenuto che l'art. 59, comma 1, lettera b) della legge 27 dicembre 1997, n. 449 facesse venir meno soltanto l'arrotondamento “ad anno”, ma non anche l'arrotondamento “a mese” (ai fini dell'accesso e della misura della pensione) sulla falsariga di quanto previsto per gli iscritti alle Casse pensioni degli Istituti di previdenza dall'art. 3 della legge 8 agosto 1991, n. 274 (“il complessivo servizio utile viene arrotondato a mese intero, trascurando la frazione del mese non superiore a quindici giorni e computando per un mese quella superiore”); adducendo a supporto anche quanto espresso dalla circolare INPDAP n. 14 del 16/03/98 pubblicata in G.U. n. 73 del 28 marzo 1998. Alla luce di tali premesse la Corte osserva che, in mancanza di un'espressa disposizione di legge di senso contrario, non si comprende il motivo per cui l’ordinario criterio dell'arrotondamento “a mese” non possa e non debba essere utilizzato anche per il computo della “quota 96” nei confronti dei dipendenti pubblici, per i quali, com'è noto, l'anzianità di servizio è sempre stata computata in “anni” e “mesi” (composti convenzionalmente da 30 giorni), anziché in “settimane contributive” (nozione, quest’ultima, estranea al sistema pensionistico dei dipendenti dello Stato).

Sicché appare corretto, sotto questo profilo, l'operato dell'Ufficio Scolastico Regionale per l’Abruzzo, il quale ha arrotondato a 96 “anni” una somma di età anagrafica e anzianità di servizio pari a 95 anni, 11 mesi e 23 giorni.

La Corte si è inoltre preoccupata di dimostrare il fondamento e l’effetto razionale dalla soluzione ammessa dall’Ufficio Pensioni dell’amministrazione scolastica, il quale, con l’arrotondamento al mese, garantisce una maggiore tutela alla posizione sostanziale del lavoratore, altresì muovendosi nel rispetto del principio gerarchico delle fonti del dritto.

A tal uopo la Corte sviluppa più d’una argomentazione, partendo dal dato che nella circolare Inps n. 60 del 15 maggio 2008, al paragrafo 3, si chiarisce che l'età anagrafica costituita da anni e giorni va trasformata in anni dividendo il numero di giorni per 365, con arrotondamento al terzo decimale, mentre l'anzianità contributiva del pensionando deve essere trasformata da settimane in anni dividendo il numero delle settimane per 52, con arrotondamento al terzo decimale.

Pur glissando sulla macchinosità della conversione del servizio utile del dipendente pubblico in settimane contributive, per essere poi riconvertito nuovamente, sotto la specie dell’anzianità contributiva, in anni e in frazioni millesimali di anno, la Corte risalta come anche l'Inps, nel silenzio della legge, utilizzi a livello operativo il criterio dell'arrotondamento (e non del troncamento), scegliendo tuttavia di operare l'arrotondamento stesso alla terza cifra decimale.

Nel caso della ricorrente l'età anagrafica è calcolata dall’Inps in anni 60,230 (ciò, ovviamente, convertendo in millesimi d'anno solo i giorni dell'ultimo anno preso in considerazione, nella specie il sessantunesimo, altrimenti, a voler essere tuzioristi e a ragionare in giorni totali di vita, si porrebbe paradossalmente il problema degli anni bisestili, con i quali la ricorrente aggiungerebbe ulteriori 15 giorni alla propria età anagrafica, raggiungendo e superando per tal via la “quota 96”).

L’arrotondamento al terzo decimale impone che il risultato dell’operazione di calcolo regolata dalla menzionata circolare Inps (60 anni + 84 giorni : 365 = 60 + 0,23014 =) 60,23014, sia arrotondato alla quarta cifra dopo la virgola, che, essendo un valore inferiore a 5 (trattandosi del numero 1), determina il risultato di 60,230.

Analogo ragionamento per l'anzianità contributiva della ricorrente, che, secondo l’Inps, discende dalla divisione di 1860 settimane (= 35 anni e 10 mesi x 52) per il numero di settimane in un anno, cioè 52, da cui si ottiene il risultato di 35,76923, da arrotondare al terzo decimale, e quindi, individuata nel numero 2 (inferiore a 5) la quarta cifra dopo la virgola, fissando il computo in 35,769. In totale, dunque, seguendo pedissequamente il sistema di calcolo dell’Inps, la ricorrente vanterebbe al 31.12.2011 il raggiungimento di “quota” 95,999.

La Corte si chiede a questo punto se la scelta dell'Ente previdenziale di arrotondare il valore al terzo decimale (millesimo d’anno) anziché, in ipotesi, al secondo (centesimo d’anno) sia condivisibile, riconducendo a tale opzione un effetto dirimente per l’intera vicenda, in quanto, arrotondando la “quota” al secondo decimale (invece che al terzo) la ricorrente raggiungerebbe la “quota 96” prescritta dalla legge.

Al riguardo, il Giudice si limita a rilevare come la scelta dell'arrotondamento al terzo decimale (millesimo d’anno) comporti, di fatto, l'attribuzione di un rilievo discriminante - a fini pensionistici - a frazioni temporali pari appunto al mezzo millesimo d'anno (0,0005), essendo il numero 5 (recte il millesimo di 5) il limite che attribuisce l’incremento di un decimale su base annua, che, come appena detto, determinerebbe nel caso de quo, quell’aumento di una unità del terzo decimale, decisivo per il raggiungimento della quota.

Ma la Corte si spinge ancora oltre, offrendo un ulteriore elemento al fine di soppesare i valori in gioco.

Si dedica infatti a esprimere il predetto limite numerico di 5 (espresso in millesimi) nel coefficiente di arrotondamento su base giornaliera. Tale valore si ottiene moltiplicando 0,0005 per 365, da cui si ricava che l’arrotondamento è di 182 millesimi e mezzo a giorno; vale a dire che l’arrotondamento è operato a poco più di un'ora di lavoro per l'anzianità contributiva (= 1,095), effetto della moltiplicazione di 0,1825 per 6 ore lavorative a giorno, e a circa quattro ore e mezza (precisamente 4,38) di vita per l'età anagrafica, frutto della moltiplicazione del coefficiente di arrotondamento annuo per 24 (ore).

Nel caso in cui, invece, si optasse per l'arrotondamento al secondo decimale (centesimo d’anno), la frazione di tempo presa in considerazione ai fini dell'arrotondamento sarebbero i cinque millesimi di anno (0,005), pari a 1 giorno e 825 millesimi di giorno (1,825), talché l’arrotondamento sarebbe operato a circa un terzo di settimana contributiva per l'anzianità di servizio [essendo 10,95 (quasi 11) le ore che si ottengono moltiplicando il coefficiente di arrotondamento per il parametro fisso di 6 ore lavorative a giorno, e cioè quasi 2 giorni di lavoro (un giorno da 6 ore lavorative + un giorno da 5)] e a circa 44 ore (43, 8 per l’esattezza) di vita (per quella anagrafica).

Ciò significa, ad esempio, che in caso di frazione di settimana quattro giorni “varrebbero” una settimana contributiva.

Così delineata la questione, il Giudice ha maturato il convincimento per cui <<il criterio prescelto dall'Inps ai fini del computo della quota (arrotondamento al terzo decimale, anziché al secondo) sia comunque arbitrario ed irragionevolmente sproporzionato rispetto all'esigenza in concreto perseguita, cioè quella di una valutazione inevitabilmente “arrotondata” della somma di età anagrafica e anzianità di servizio (ragguagliata ad anno intero), finendo per attribuire rilievo decisivo, con ingiusta penalizzazione, a frazioni di tempo del tutto marginali, come tali francamente irrilevanti e trascurabili, sembrando invece più logico ed equo arrotondare ad un valore prossimo quanto meno alla intera “settimana contributiva>>.

La conclusione per lo specifico caso trattato in giudizio è tale per cui, anche a voler seguire l'impostazione dell'Inps invece di quella dell'Ufficio Scolastico, l'anzianità complessiva (anagrafica e di servizio) di 95,999 raggiunta dalla ricorrente alla data del 31.12.2011 possa essere serenamente arrotondata in 96,00, da ciò discendendone che la ricorrente rientra tra i dipendenti salvaguardati dalla riforma c.d. “ Fornero” (art. 24, cit.) e come tale ha diritto all'accesso e alla liquidazione del trattamento pensionistico sulla base del sistema antecedente alla riforma stessa.

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