I diritti del lavoratore detenuto alla luce della riforma penitenziaria e della recente giurisprudenza.



Avv. Salvatore Braghini

Con la riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 (legge 354) si è indubbiamente abbandonata una visione del lavoro in carcere funzionale alla dimensione afflittiva della pena, di cui restava una semplice forma dell’esecuzione, come ben scolpito nell’art. 1 del regolamento penitenziario del 1931, per il quale “le pene si scontano con l’obbligo del lavoro”. Un approccio, quest’ultimo, da cui derivava come logica conseguenza l’inapplicabilità della legislazione giuslavoristica, poiché l’assenza di natura contrattuale giustificava un trattamento diverso (e peggiorativo) del detenuto lavoratore. Un tale quadro di riferimento normativo ed ancor prima valoriale, non era conciliabile con i principi assunti dalla neonata Repubblica italiana con al Costituzione del 1948, giungendo quasi vent’anni dopo (per l’appunto con la l. 354/1975) a stabilire che il lavoro è una componente fondamentale del trattamento dei condannati e degli internati; non ha carattere affittivo, è remunerato e riflette, nelle modalità e nelle forme di esecuzione, il lavoro libero. 

La disciplina introdotta dalla nuova legge ordinamentale penitenziaria prevede che le attività lavorative possono svolgersi sia all’interno sia all’esterno dell’istituto, presso imprese agricole o industriali, pubbliche o private. E’ inoltre prevista l’ipotesi del lavoro nel regime di semilibertà il quale, tuttavia, a motivo delle caratteristiche di tale regime non sembra possa assimilarsi al lavoro penitenziario. La Corte costituzionale, a proposito, con la sentenza 30 novembre 1988 n. 1087 ha specificato le diverse situazioni soggettive dei detenuti lavoratori corrispondenti a quattro diverse tipologie di rapporto di lavoro carcerario: 1) il lavoro svolto all’interno dell’istituto, alle dipendenze della stessa Amministrazione Penitenziaria come addetti ai c.d. lavori domestici interni; 2) il lavoro svolto all’interno dell’istituto, come addetti alle c.d. lavorazioni; 3) il lavoro extramurario svolto in regime di semilibertà; 4) il lavoro all’esterno di cui all’art. 21 l. 354/1975 alle dipendenze di un soggetto privato, ma sotto il diretto controllo della direzione carceraria. Nel caso del lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione per identificare, con assoluta certezza, tutta quella serie di compiti, vari e non solo domestici, che servono a far funzionare la macchina carceraria, come lo spesino, lo scrivano, lo scopino, l’addetto alla manutenzione, il cuoco, e cosi via. Le lavorazioni implicano il carattere produttivo di tali attività, contrapposto al carattere domestico e, per definizione, improduttivo del primo. Nel secondo caso, è più agevole, soprattutto a seguito delle riforme legislative del 1993, cercare di applicare il nuovo e diverso criterio interpretativo nell’individuazione dei diritti del lavoratore detenuto, già delineato, e giungere alla conclusione che tali diritti sono gli stessi che ineriscono al rapporto di lavoro di ogni soggetto, salvo le necessarie limitazioni derivanti dalle esigenze di un regime detentivo e, quindi, gli indispensabili adattamenti legati alla condizione soggettiva di una delle parti del rapporto stesso. Al contrario, nel caso dei lavori domestici alle dipendenze dirette dell’Amministrazione penitenziaria, tale conclusione non è affatto scontata, alla luce del carattere di specialità e della genesi non contrattuale che li contraddistingue. La legge 193/2000, c.d. “Smuraglia” e i successivi decreti attuativi, disciplinano invece le attività svolte da soggetti esterni nell’ambito del carcere, stabilendo che le imprese pubbliche o private e le cooperative che intendono avviare un’attività all’interno di un istituto di pena devono stipulare una convenzione con l’Amministrazione penitenziaria, accordando loro vantaggi economici.
L’ordinamento penitenziario prevede che il lavoro costituisca un obbligo per il detenuto. All’art 15 è scritto che Il trattamento del condannato e dell'internato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro,...Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi d'impossibilità, al condannato e all'internato è assicurato il lavoro. In realtà la norma (art. 20 O.P.)  stabilisce che solo per i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della casa di lavoro e della colonia agricola il lavoro è considerato “obbligatorio”. In proposto non sembrano sussistere dubbi circa la possibilità di configurare, in capo ai detenuti condannati, un vero e proprio «diritto al trattamento» inteso quale aspetto di un più generale «diritto alla rieducazione. Riguardo agli imputati, invece, anche a voler parlare della sussistenza di un “diritto al trattamento”, questo deve tuttavia assumere connotati assolutamente diversi da quelli riferibili ai condannati, in conseguenza del particolare status che caratterizza i detenuti in attesa di giudizio e in riferimento alla differente posizione assunta dagli organi penitenziari nei loro confronti. La situazione degli imputati di fronte al trattamento penitenziario si delinea allora come diritto di fruire delle offerte rivolte a sostegno dei loro “interessi umani, culturali e professionali” (art. 1, c. 1, Reg. esec. O.P.), nonché, qualora tali soggetti lo richiedano, nel diritto ad essere ammessi a partecipare alle attività educative, culturali e lavorative svolte ed organi. 
 I condannati e gli internati sono invece titolari di un’aspettativa ed un lavoro adeguato alle loro attitudini ed ai loro desideri, che tenga altresì conto delle attività svolte in precedenza e da svolgere dopo la dimissione, ma sono comunque tenuti a svolgere un’altra attività lavorativa tra quelle organizzate nell’istituto. L’obbligatorietà del lavoro reca con se la minaccia di una sanzione disciplinare, atteso che il deliberato inadempimento di obblighi lavorativi è punito con l’applicazione di sanzioni disciplinari. Viceversa il “costante impegno nel lavoro” concretizza la regolare condotta che conduce alla remissione del debito, mentre ai detenuti ed agli internati che si sono distinti per “particolare impegno nello svolgimento del lavoro” sono concesse ricompense e l’attività lavorativa costituisce uno degli elementi determinanti per ammettere il condannato e internato al regime di semilibertà. Il lavoro per il detenuto condannato – ma, come visto, non per l’imputato - è si obbligatorio, ma “salvo casi di impossibilità”, il che esclude un diritto al lavoro del detenuto lasciando ampio margine e valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione penitenziaria e conferendo all’attività lavorativa un carattere premiale. Ciò vale anche per il lavoro autonomo al quale i detenuti e gli internati, che abbiano attitudini artigianali, culturali e artistiche, possono essere autorizzati dal direttore dell’istituto. 
Un altro principio fondamentale in tema di lavoro penitenziario è stato introdotto con la riforma all’art. 20 O.P. per sancire che il lavoro degli internati e dei condannati deve riflettere nelle modalità e nelle forme di esecuzione di lavoro libero, ponendo rilevanti equiparazioni. Fondamentale è in proposito la sentenza della Consulta del 30 novembre 1988 n. 1087 che, pur non essendo la prima in argomento, costituisce un passaggio ineludibile per alcuni principi e  classificazioni in essa contenute. La Corte, infatti, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 l. 354/75, ha sancito la distinzione tra lavoro dei detenuti e dei non detenuti, riconoscendo espressamente la peculiare funzione del lavoro dei primi, quale elemento fondamentale del trattamento rieducativo e del reinserimento sociale, senza che tale particolarità possa, tuttavia, concretarsi in minori garanzie per i lavoratori detenuti, certamente in contrasto con i principi costituzionali. Se però la legge 354/75 estende al lavoratore detenuto la legislazione vigente in materia di durata massima dell’orario giornaliero e garantisce il riposo festivo, la tutela assicurativa e previdenziale, gli assegni familiari, essa tace, invece, sull’indennità di anzianità e sulle ferie retribuite. 
Riguardo a queste ultime la stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto che spettano di diritto al detenuto. Il penultimo comma dell’art. 20 stabilisce che “la durata della prestazione lavorativa non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in tema di lavoro” e che, “alla stregua di tali leggi, ai detenuti lavoratori è garantito il diritto al riposo festivo e alla tutela assicurativa e previdenziale”; la Corte Costituzionale, dopo una serie di interventi precursori, con la sentenza 22 maggio 2001, n. 158 con cui ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 20, penultimo comma O.P, nella parte in cui non riconosce il diritto al riposo annuale retribuito al detenuto che presti la propria attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione carceraria. La Corte ha infatti sancito che la specificità propria del rapporto di lavoro penitenziario, la cui regolamentazione può conoscere delle varianti e deroghe rispetto a quella del rapporto di lavoro ordinario in ragione di esigenze organizzative, disciplinari e di sicurezza proprie dell’ambiente carcerario, “non vale ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato”. Il diritto al riposo annuale, in particolare, integra una di quelle posizioni soggettive che non possono in nessun modo essere negate a chi presti attività lavorativa in stato di detenzione. D’altronde è la stessa Costituzione a stabilire che la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 c. 1) e che a qualunque lavoratore debba essere riconosciuto il diritto irrinunciabile alle ferie annuali retribuite (art. 36 c. 3), garanzie queste che valgono ad assicurare il soddisfacimento delle primarie esigenze del lavoratore tra cui, in primis, la reintegrazione delle energie psicofisiche a cui sottende il diritto al riposo.
Esaminando ora l’aspetto iniziale della costituzione del rapporto di lavoro, il punto più rilevante, risulta essere quello delle modalità di assegnazione al condannato di una posizione lavorativa all’interno dell’istituto; questione tanto più importante in una situazione, come quella attuale, di cronica carenza di attività lavorativa inframuraria. L’art. 20 VI comma l. 354/1975 indica da una parte i criteri di priorità per l’assegnazione al lavoro e dall’altra fissa una serie di procedure, così da tipizzare un vero e proprio sistema di collocamento dei detenuti, per lo svolgimento del solo lavoro inframurario. Per quanto riguarda il lavoro svolto all’esterno, infatti, è lo stesso art. 20 ai commi XI e XII a richiamare la disciplina generale del collocamento, ordinario e agricolo, e l’art. 19 l. 56/1987, così che, in campo extramurario, si debbono ritenere applicabili le norme ordinarie, non senza qualche problema di coordinamento. I criteri da tenere prioritariamente in considerazione per quanto riguarda l’assegnazione all’interno del carcere sono quelli dell’anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione, dei carichi familiari, della professionalità, delle precedenti e documentate attività svolte e di quelle a cui potrà il detenuto dedicarsi dopo la scarcerazione. L’art. 49 del nuovo Regolamento integra il testo del corrispondente art. 47 D.P.R. 431/1976 prevedendo che il direttore dell’istituto dovrà assicurare imparzialità e trasparenza nelle assegnazioni al lavoro, avvalendosi anche del gruppo di osservazione e trattamento, in sintonia con l’applicazione dei principi di legalità, buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione.
Il collocamento avviene sulla base di graduatorie fissate in due apposite liste, una generica e l’altra per qualifica o mestiere. Una tabella preparata dalla Direzione dell’istituto indica i posti disponibili, suddivisi ai sensi dell’art. 47 X comma del nuovo Regolamento (identico al previgente art. 45 VIII comma D.P.R. 431/1976) in servizi d’istituto, lavorazioni interne e lavorazioni esterne. La tabella è modificata secondo il variare della situazione e contiene anche l’indicazione dei posti di lavoro disponibili all’interno per il lavoro a domicilio, nonché quelli disponibili all’esterno. La trasparenza della procedura è garantita da una Commissione istituita ad hoc per la formazione delle graduatorie all’interno delle liste e per il nulla osta relativo alle richieste di avviamento; ai sensi dell’art. 20 VIII comma l. 354/75 vi partecipano: il direttore dell’istituto; un rappresentante del Corpo di polizia penitenziaria (appartenente al ruolo degli ispettori o dei sovrintendenti); un rappresentante del personale educativo, eletti, questi ultimi due, all’interno della rispettiva categoria di appartenenza; un rappresentante designato unitariamente dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale;  un rappresentante designato dalla commissione circoscrizionale per l’impiego territorialmente competente; un rappresentante delle organizzazioni sindacali territoriali; infine, un rappresentante dei detenuti, privo di potere deliberativo, che viene sorteggiato secondo le modalità stabilite dal regolamento interno di ciascun istituto. 
In capo alle direzioni degli istituti sussiste altresì l’obbligo di organizzare e gestire direttamente il lavoro all’interno o all’esterno degli istituti stessi sulla base delle direttive impartite dall’amministrazione penitenziaria. Questo compito può essere svolto anche in collaborazione con imprese pubbliche che possono fornire personale tecnico, attrezzature e materie prime. Con ciò non si ricade nell’ipotesi di intermediazione poiché di queste prestazioni l’amministrazione “tiene conto al fine di determinare le incidenze sui costi e il conseguente prezzo dei prodotti”, a conferma che l’organizzazione e il rischio del lavoro fanno capo all’amministrazione medesima. A questa è anche assegnato un ruolo di intermediatrice nel collocamento della manodopera, con gli uffici pubblici locali del lavoro, per la diretta assunzione di lavoratori detenuti da parte di datori di lavoro pubblici o privati. Anche in questo caso l’amministrazione non opera in veste di datrice di lavoro simulata, poiché il rapporto sorge direttamente ed esclusivamente tra gli imprenditori e il detenuto.  
Analizzando i singoli diritti connessi all’attività lavorativa, viene in considerazione anzitutto la problematica della retribuzione nell’ordinamento penitenziario, laddove si afferma. stabilisce che il lavoro penitenziario è remunerato. Non si afferma dunque che il lavoratore ha “diritto” ad una retribuzione in proporzione alla quantità e qualità del suo lavoro, ma si riproduce l’art. 145 c.p., secondo il quale “ai condannati è corrisposta una remunerazione per il lavoro prestato. Che non si tratti di retribuzione vera e propria, ma piuttosto di un “compenso”, cioè di un’attribuzione patrimoniale non coordinata alla prestazione di lavoro, è confermato dall’ammontare per essa previsto. L’equiparazione tra lavoro carcerario e lavoro libero avrebbe comportato per le prestazioni lavorative nelle carceri una retribuzione che rispettasse i minimi salariali previsti dai contratti collettivi applicati alle corrispondenti categorie di lavoratori liberi. Al contrario, l’art. 22, 1° comma, O. P., dispone che “le mercedi per ciascuna categoria di lavoratori in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, all’organizzazione e al tipo di lavoro del detenuto sono equamente stabilite in misura non inferiore ai due terzi delle tariffe sindacali...”. Anche se a seguito di questa disposizione è possibile che si venga ad un’equiparazione retributiva, resta il fatto che la retribuzione del lavoratore libero che presti la medesima attività è, quasi sempre, superiore. E tale differenza è sottoposta ad ulteriori deterioramenti: la retribuzione è soggetta a un complesso di trattenute e prelievi: spese di mantenimento, risarcimento del danno alle vittime del reato, rimborso delle spese del procedimento ed eventuale risarcimento per danno “arrecato alle cose mobili dell’amministrazione”. Si calcola che, dopo l’emanazione della circolare ministeriale 9 marzo 1976, n. 2294/4748, che ha stabilito parametri per la determinazione delle mercedi, la somma percepita dal lavoratore sia pari al 40 % delle retribuzioni esterne. In giurisprudenza è stata più volte sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 36 Costit., una questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge 354/1975, nella parte in cui consente che le retribuzioni dei detenuti lavoratori siano stabilite in misura inferiore fino ad un terzo rispetto a quelle dei lavoratori liberi. La Corte Costituzionale, con sentenza 13 dicembre 1998, n. 1087, ha ritenuto la questione non fondata. Su un altro fronte però la giurisprudenza sta cominciando a riconoscere gli aumenti contrattuali. Una sentenza del giudice del lavoro di Cagliari dell’ottobre del 2010 sancisce che il detenuto impegnato nel lavoro in prigione ha diritto agli aumenti stabiliti ai rinnovi contrattuali. Le motivazioni della sentenza evidenziano da una parte che l’articolo 36 della Costituzione si pone in netto contrasto con l’illegittima prassi dell’amministrazione penitenziaria, stabilendo che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” e dall’altra che si tratta di un diritto applicabile tutti i lavoratori, senza operare discriminazioni nei confronti di quelli detenuti. Anche l’articolo 22 dell’ordinamento penitenziario riconosce al detenuto lavoratore “una retribuzione che gli consenta un tenore di vita decoroso, non inferiore ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri lavoratori della stessa categoria dal contratto nazionale in vigore al tempo dell’avvenuta prestazione lavorativa”, concludendo - il Tribunale invocato - che ad ogni modifica del contratto di categoria deve essere adeguato il trattamento retributivo dei detenuti lavoratori alle dipendenze del Ministero.
In materia previdenziale e assicurativa, l’art. 20 XVII comma l. 354/1975 sancisce l’estensione ai lavoratori detenuti della tutela assicurativa e previdenziale, prevista per ogni altro lavoratore. Ciò significa la vigenza delle norme in materia di assicurazione contro infortuni, invalidità, vecchiaia, disoccupazione e di corresponsione degli assegni familiari. Per quanto riguarda in particolare infortuni e malattie professionali, l’art. 4 n. 9 D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 considera in questo tipo di assicurazione obbligatoria anche i detenuti che, per il servizio interno degli istituti o per attività occupazionale, siano addetti a uno dei lavori indicati nell’art. 1 dello stesso D.P.R., mentre l’art. 127 n. 3 ne esclude i detenuti addetti a lavori condotti direttamente dallo Stato. La materia è, peraltro, regolamentata da una serie di convenzioni, stipulate tra il Ministero di giustizia e l’I.N.A.I.L., che hanno esteso ai casi d’attività lavorativa svolta dal detenuto per l’Amministrazione penitenziaria la tutela assicurativa relativa alle prestazioni previste dalle leggi vigenti. Al contrario, hanno escluso dal loro ambito d’applicazione i detenuti ammessi allo svolgimento di attività lavorative esterne agli istituti penitenziari, per i quali, quindi, trovano applicazione le norme del citato D.P.R. 1124.
La fase relativa alla cessazione del rapporto di lavoro, alla stregua di quello della sua costituzione,  implica l’intersezione tra la disciplina privatistica e quella  penale. Seguendo una trattazione suddivisa per forme di lavoro penitenziario, scorgiamo che nel lavoro intramurario alle dipendenze dell’amministrazione (c.d. lavori domestici), le nozioni giuridiche di giusta causa e giustificato motivo di recesso non risultano applicabili; ciò in virtù del semplice fatto che l’ordinamento penitenziario ha stabilito una disciplina specifica per regolare la fattispecie dell’allontanamento dal posto di lavoro del recluso (c.d. esclusione dalle attività lavorative). Con provvedimento adottato dalla direzione dell’istituto, sentito il parere dei gruppi di osservazione, il detenuto o l’internato è escluso dall’attività lavorativa in presenza di fatti o comportamenti commessi durante il lavoro dai quali emerga un “sostanziale” rifiuto di adempiere i compiti e i doveri lavorativi assegnati (art. 53 Reg. esec.). Semplificando in una sola ipotesi la casistica dell’abbandono (che prevedeva anche l’ipotesi di «mancanza di rendimento»), l’attuale disciplina - che prevede l’unica ipotesi del «sostanziale rifiuto dell’adempimento dei suoi compiti» - ha  aggiunto l’espressione “e dei suoi doveri”, talché, da una parte si ribadisce che per legittimare un provvedimento così grave quale la rimozione dal lavoro del detenuto lavoratore, diviene necessario che il rifiuto del detenuto di prestare attività lavorativa si riferisca al nucleo “essenziale” dei compiti assegnati e non a semplici elementi di dettaglio, dall’altra si opera la trasformazione della previsione normativa verso un meno stringente raccordo tra l’adempimento degli obblighi lavorativi e l’applicazione delle sanzioni disciplinari da parte dell’Amministrazione penitenziaria. D’altro canto, l’art. 77 del Regolamento, nell’elencare i comportamenti passibili di sanzione disciplinare, prevede, al n. 3, il «volontario inadempimento degli obblighi lavorativi» che risulta esere un’espressione connotata da un elemento soggettivo molto accentuato. 
Se ci riferiamo invece al lavoro inframurario alle dipendenze di terzi, la sussistenza di un comune rapporto di lavoro tra l’imprenditore che gestisce le lavorazioni e il prestatore d’opera detenuto consente l’applicazione della giusta causa e del giustificato motivo, quali circostanze sottese a un legittimo recesso. In questo caso il datore di lavoro risulterà potrà intimare il licenziamento solo entro i confini giuridici delle due fattispecie del recesso (giusta causa o giustificato motivo), per iscritto e con comunicazione dei motivi, ove richiesto dal prestatore d’opera, secondo le previsioni dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966. Naturalmente, in concreto le nozioni di giusta causa e giustificato motivo potranno assumere caratteristiche particolari in relazione alla qualità del lavoratore e al luogo ove si svolge la prestazione, ma la valutazione della legittimità del recesso intimato al lavoratore detenuto andrà operata secondo i parametri elaborati dalla dottrina e giurisprudenza. Al verificarsi dei presupposti, la direzione dell’istituto dovrà semplicemente limitarsi a prendere atto del venir meno della posizione lavorativa. 
Nella situazione del lavoro all’esterno della struttura carceraria, la dottrina è concorde nel ritenere applicabili le norme relative al divieto di licenziamento del detenuto lavoratore se non per giusta causa o giustificato motivo di recesso, ma alcune peculiarità possono tuttavia emergere in ragione delle possibili conseguenze che la perdita dell’attività lavorativa determina sull’ammissione al regime di semilibertà o al lavoro all’esterno. 
In riferimento al regime di semilibertà l’ordinamento penitenziario prevede espressamente, all’art. 51, che la semilibertà possa essere revocata solo nella circostanza in cui “il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento”. Non sussiste pertanto un nesso eziologico formalmente espresso a livello legislativo tra la perdita dell’attività lavorativa, in sé considerata, e la revoca della misura alternativa. 
Riguardo al lavoro esterno di cui all’ 21 O.P., invece, non esiste alcuna norma che disciplini le condizioni di revoca, che sono soltanto rimesse alla valutazione discrezionale della direzione dell’istituto, atteso che l’assegnazione avviene “in condizioni idonee a garantire l'attuazione positiva degli scopi previsti dall’articolo 15”. La revoca, inoltre, ai sensi delle disposizioni di cui all’art. art. 48 comma XV del Regolamento, diviene esecutiva soltanto dopo l’approvazione del Magistrato di sorveglianza.
Per quanto concerne, invece, il diritto all’indennità di disoccupazione ci si deve riferire alle novità introdotte con l’art. 19 l. 56/1987. Tale norma asserisce che lo stato di interdizione non costituisce causa di decadenza dal diritto all’indennità di disoccupazione, ordinaria e speciale, così non lasciando più spazio all’interpretazione restrittiva dell’art. 20 l. 354/1975 di sancire l’estensione ai lavoratori detenuti solo dell’assicurazione contro la malattia e del diritto agli assegni familiari. Veniva, perciò, esclusa tale estensione all’assicurazione contro la disoccupazione, in ragione alla diversità delle cause sottostanti lo stato di disoccupazione dei detenuti rispetto a quelle protette dalla legge, vale adire l’involontarietà dello stato di disoccupazione, la necessità di provvedere ai propri bisogni nel frangente di non impiego (che in carcere sono comunque assicurati) e l’onere dell’iscrizione alle liste di collocamento. A ben guardare l’art. 20 XVII comma l. 354/75. ha una formulazione troppo ampia ma non tale da avallare distinzioni tra le varie tutele previdenziali In effetti il diritto all’indennità di disoccupazione deriva semplicemente dalla circostanza, per il detenuto, di non essere utilizzato nelle lavorazioni, salva la segnalazione del suo stato all’I.N.P.S., indipendentemente dalla iscrizione al collocamento esterno. Ciò, in base alla considerazione che  - attesa l’esistenza di un duplice sistema di collocamento, interno ed esterno, e di poteri, in materia di assegnazione al lavoro, della direzione penitenziaria e dell’autorità giudiziaria – risulterebbe fuorviante far coincidere la disponibilità al lavoro e l’involontarietà dello stato di disoccupazione di chi è detenuto con una formale attestazione assunta esclusivamente per il tramite dell’atto dell’iscrizione al collocamento, che è una facoltà e non un obbligo.
 Il IV comma dell’art. 19 della l. 56/87. stabilisce, altresì, la non cumulabilità dell’indennità di disoccupazione con la retribuzione ma soltanto fino alla concorrenza dell’ammontare della retribuzione medesima. Si tratta di una previsione che apparentemente stride con un principio cardine del sistema della sicurezza sociale, e cioè quello dell’incompatibilità assoluta tra corresponsione dell’indennità in esame ed esplicazione di una attività lavorativa. Ma l’eccezione trova una sua giustificazione guardando alla particolarità del lavoro carcerario, laddove, a differenza del lavoratore libero, il lavoratore detenuto non può scegliere tra differenti offerte di lavoro, sia per gli specifici profili riabilitativi connessi all’attività di lavoro in termini di ammissione alle misure alternative, sia per la scarsa possibilità pratica di scegliere tra più occasioni professionali. Pertanto, al fine di ovviare a situazioni in cui il detenuto è impiegato in lavori che non gli assicurano un reddito superiore a quello rappresentato dalla sola indennità di disoccupazione, gli è consentito il cumulo tra i due importi, in modo tale da far raggiungere al lavorante un reddito non inferiore a quello del disoccupato.
Per concludere con i diritti lavorativi, va osservato che in tema di diritti sindacali non troviamo un’adeguata trattazione nella legge di riforma  L’unico riferimento si rinviene nell’art. 22 O.P. secondo cui le “mercedi” dei detenuti lavoratori sono determinate da una commissione composta, tra gli altri, da un delegato per ognuna delle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale.  Si potrebbe affermare che oltre all’art. 39, primo comma della Costituzione sia applicabile nelle carceri l’art. 14 della legge 20 maggio 1970, n. 300 che garantisce a tutti i lavoratori, nei luoghi di lavoro, il diritto di costituire associazioni professionali, di aderirvi e di svolgere attività sindacali.  Tuttavia, resta il fatto che la legge tace sul punto e non riconosce neppure il diritto di sciopero, ciò in considerazione del fatto che l’esercizio di un tale diritto può apparire in contrasto sia con la natura obbligatoria del lavoro in carcere sia con le esigenze di sicurezza della struttura carceraria.  
In merito alla tutela giurisdizionale dei diritti lavorativi dei detenuti è stato individuato il criterio di ripartizione della competenza: la tutela avanti la Magistratura di Sorveglianza, attraverso il procedimento speciale di cui all’art. 69 VI comma O.P. è limitata alle sole pretese dei detenuti addetti ai lavori c.d. domestici. Solo con riferimento a questi ultimi, l’Amministrazione penitenziaria è anche il diretto datore di lavoro. Per cui la scelta di attribuire la decisione delle controversie al Magistrato di Sorveglianza, cioè al giudice penale che sovrintende all’esecuzione della pena e ne garantisce la legittimità in rapporto alle leggi vigenti, risulta giuridicamente ragionevole, attese le peculiarità del rapporto inserito in un contesto di attività del detenuto strettamente connesse e consequenziali alla pena e, pertanto, istituzionalmente sottoposte alla sorveglianza del giudice penale. Con riferimento ad ogni altro tipo di lavoro carcerario, la competenza a conoscere delle controversie tra il detenuto prestatore di lavoro e il suo datore di lavoro spetta, al contrario, al Giudice Unico di primo grado in funzione di giudice del lavoro. 
Ma sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10046 del 2007, stabilendo che per le controversie inerenti l’attività lavorativa dei detenuti – che rappresenta uno dei mezzi di recupero della persona – sia che svolta in favore dell’amministrazione penitenziaria o alle dipendenze di terzi, è competente il giudice ordinario, nella funzione di giudice del lavoro, e la prescrizione dei diritti, come nel lavoro libero, non decorre durante lo svolgimento del rapporto. La Corte richiama esplicitamente la sentenza della Corte Costituzionale, n. 241, del 27 ottobre 2006, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, sesto comma, lettera a), della legge  374/75 che attribuiva al Magistrato di Sorveglianza la competenza a decidere sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti “l’attribuzione della qualifica lavorativa, le questioni concernenti la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali dei detenuti”. In tale circostanza, il Giudice delle leggi aveva considerato illegittima la norma censurata in quanto comportava una differenziazione dei diritti tra lavoratore libero e in libertà del tutto irragionevole per l’assenza di esigenze specifiche di limitazione legate alla corretta esecuzione della pena. Pertanto, la Corte di Cassazione conclude con l’attribuzione al giudice del lavoro della competenza a trattare le controversie del lavoro carcerario, ai sensi degli artt. 409 e seguenti c.p.c..
La Suprema Corte con la medesima sentenza, in linea con la sentenza n. 63/1966 della Corte Costituzionale, a tutela della speciale garanzia derivante dall’art. 36 Cost., ammette altresì la sospensione della decorrenza della prescrizione dei diritti del detenuto lavoratore durante il rapporto di lavoro. Tale conclusione trova fondamento nelle caratteristiche del lavoro carcerario oggettivamente assimilabile ad altri rapporti di lavoro che la ammettono. A proposito la stessa Corte di Cassazione aveva più volte ribadito che la decorrenza del termine prescrizionale nel corso del rapporto lavorativo si ha soltanto in presenza della “stabilità reale”, rinvenibile allorquando venga riconosciuto al lavoratore il diritto alla eliminazione degli effetti del licenziamento ingiustificato con accertamento della persistenza del rapporto (Cass. 20 giugno 1997 n. 5494; Cass. 13 marzo 1996 n. 2058; Cass. 23 febbraio 1983 n. 1362; Cass., Sez. Un. 12 aprile 1976 n. 1268); la  sospensione – come stabilito da altra sentenza, e segnatamente Cass. 8 novembre 1995 n. 11615 - risulta altresì ammissibile allorché, pur ricorrendo situazioni di certezza della c.d. “stabilità reale”, le dimensioni dell'impresa non sono esattamente rilevabili dal lavoratore e presentino oggettiva incertezza.

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