DIRITTO CIVILE. Efficacia erga omnes della sentenza di disconoscimento. Cass. civ. 16 gennaio 2012 n. 430.



Nota dell'Avv. Rosalia Terrei.

La decisione della Corte di Cassazione, sez. I, n. 430/2012, affronta tre importanti questioni.
In primo luogo, si pronuncia sull’opponibilità della sentenza di disconoscimento nei confronti degli eredi di del padre naturale. 
In secondo luogo, è chiamata ad esprimersi sugli elementi probatori idonei a fondare il convincimento del giudice nella dichiarazione giudiziale di paternità e sui poteri dello stesso.
Infine, termina con l’analisi della richiesta di risarcimento danno ex art. 96 c.p.c. avanzata nel ricorso incidentale dal figlio nei confronti del padre.
Ciò che merita attenzione e che sarà oggetto di analisi sono le prime due questioni.
Il caso di specie è il seguente.
In primo grado un figlio ottiene dopo l’esperimento dell’azione di discnoscimento ex art. 235 c.c. una sentenza dal Tribunale di Napoli dichiarativa della paternità naturale.
Tale sentenza viene appellata dagli eredi del padre naturale senza successo.
Sostiene, infatti, la Corte d’Appello che la sentenza di disconoscimento di paternità era opponibile agli eredi del padre naturale, anche se questi non avevano preso parte al giudizio, in quanto “trattasi di sentenza costitutiva, inerente allo status di una persona, opponibile con forza di giudicato erga omnes”. Inoltre, afferma la corte territoriale che la paternità naturale era supportata oltre che dall’indagine eme-genitica, anche dalle dichiarazioni della madre e dalle prove testimoniali. 
Gli eredi del padre naturale propongono ricorso per Cassazione, e il figlio resiste con ricorso incidentale.
Con il primo motivo di ricorso lamentano l’opponibilità della sentenza di disconoscimento nei loro confronti.
La Corte dichiara la censura priva di fondamento e in particolare evidenzia come, già in precedenza la giurisprudenza di legittimità aveva affermato che la pronuncia di disconoscimento ex art. 235 c.c. assume autorità di cosa giudicata erga omnes essendo inerente ad uno status personale. Infatti, la paternità legittima non può essere né contestata né difesa dal presunto padre naturale, che non è legittimato passivo, alla stregua dei suoi eredi, nel giudizio.
Pertanto, tale decisione è opponibile verso tali soggetti, anche se non hanno preso parte al giudizio ex art. 235 c.c.
Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti si lamentavano degli elementi probatori fondanti la dichiarazione giudiziale di paternità.
Anche tale doglienza è stata dalla Corte dichiarata priva di fondamento.
Evidenziano i giudici di legittimità che nel giudizio ex art. 269 c.c. , come sostenuto già da precedenti orientamenti, la dichiarazione della madre e l’esistenza di rapporti tra questa e il presunto padre pur non costitunedo di per sé prova della paternità, sono elementi che in concorso con altri, anche presuntivi, possono costituire valido fondamento al convincimento del giudice.
Il giudice, infatti, è dotato di un ampio potere discrezionale e può fondare la propria decisione in merito all’esistenza del rapporto di filiazione anche su elementi probatori indiretti o su elementi indiziari. Nel caso di specie la Corte d’Appello ha indicato gli elementi alla base della sua decisione ed ha esaurientemente motivato il proprio decisum anche analizzando le argomentazioni contrarie.
Anche il motivo di ricorso incidentale è stato rigettato dalla Corte, in quanto, la condanna per lite temeraria, nel contesto normativo antecedente alla riforma dell’art. 96 c.p.c. , avvenuta con la L. n. 69/2009, richiede nell’agere della controparte la colpa grave o il dolo o il mancato uso di un minimo di diligenza.
La sentenza offre lo spunto per analizzare l’azione di stato ex art. 235 c.c.  
L’azione di disconoscimento, nata come azione di accertamento negativo dello status di figlio legittimo, è oggi riconosciuta come azione avente natura costitutiva, diretta a rendere inoperante la presunzione di paternità ex art. 231 c.c. nei confronti di un figlio nato vivo, in base ad un rapporto della moglie con un terzo.  
Presupposti del disconoscimento sono: la nascita di un figlio e l’esistenza del titolo di stato di figlio legittimo o il possesso di stato. 
I casi, disciplinati tassativamente, ex art. 235 c.c. , sono tre: l’impotenza, la non coabitazione, l’adulterio o l’occultamento di gravidanza.
La fattispecie ex art. 235 n. 3 c.c. , che disciplina l’adulterio della moglie o il celamento di gravidanza-nascita del figlio, è stata portata al vaglio della Corte Costituzionale, nella parte in cui ai fini del disconoscimento, ammetteva le prove ematiche solo dopo che fosse stata raggiunta la prova del tradimento nel periodo del concepimento.  
In particolare, l’orientamento di diritto vivente consolidatosi, attribuiva all’indagine sull’adulterio carattere preliminare e autonomo rispetto a quella riguardante la sussistenza del rapporto procreativo. Dunque, la prova genetica o ematica, anche se espletata contemporaneamente alla prova dell’adulterio, poteva essere esaminata solo subordinatamente al raggiungimento di tale dimostrazione.
In difetto della prova sull’adulterio, anche in presenza di prove ematiche incompatibili con quelle del presunto padre, l’azione di disconoscimento doveva essere respinta.
La Corte Costituzionale, con la decisione n. 266 del 2006, analizzando la conformità di tale interpretazione ai principi della Legge Fondamentale, afferma che la subordinazione delle prove tecniche alla prova dell’adulterio è irragionevole e lesiva del diritto di difesa.
Nella decisione i Giudici Costituzionali, in primo luogo, ammettono i progressi della scienza biomedica, che attraverso le prove genetiche od ematologiche consentono, con la massima certezza, di accertare l’esistenza o meno del rapporto di filiazione. 
In seconda istanza, evidenziano come i mutati costumi sociali hanno determinato una notevole difficoltà pratica di fornire, per chi agisce in disconoscimento, una piena prova dell’adulterio, sottolineando come tale prova sia ontologicamente insufficiente ad escludere la paternità.
La sentenza n. 266/06 si inserisce nel lungo percorso che la giurisprudenza costituzionale e il Legislatore hanno compiuto, dalla preminenza assoluta del favor legitimitatis ad un suo temperamento in favore della verità. 
Legittimati attivi all’azione di disconoscimento sono il padre, la madre e il figlio. 
L’individuazione del potere di agire in capo a tutti i membri della famiglia legittima è frutto di una evoluzione della coscienza collettiva, fatta propria dal Legislatore. Infatti, nella formulazione originaria della norma, sovrano indiscusso dell’azione di disconoscimento era il padre-marito. 
Il primo ampliamento si è avuto con la riforma del 1975, che ha esteso la legittimazione alla madre e al figlio maggiorenne. 
Successivamente, la L. del 1983 n. 184, modificando l’ultimo comma dell’art. 244 c.c. , ha  riconosciuto la legittimazione anche al curatore speciale, nominato dal Tribunale Ordinario su istanza del figlio, che abbia compiuto 16 anni, o del PM, nel diverso caso di minore infrasedicenne.
L’azione di disconoscimento può essere promossa ex art. 244 c.c., primo comma, dalla madre entro sei mesi dalla nascita del figlio.  
Il marito, invece, -ex art. 244 c.c. , secondo comma- può agire entro un anno dalla nascita, se si trova nel luogo in cui è nato il figlio. In caso contrario, il termine decorre dalla data del suo ritorno nella residenza familiare, o dalla conoscenza del fatto, se lo stesso né era all’oscuro.
Il figlio, - ex art. 244 c.c. terzo comma- può promuovere l’azione entro un anno, che decorre dal compimento della maggiore età, o dal diverso momento in cui lo stesso viene a conoscenza di fatti che rendono ammissibile il disconoscimento. 
L’art. 244 c.c. è stato oggetto di ripetuti interventi da parte della Corte Costituzionale.
I primi due, (C. Cost. n. 249 del 1974 e C. Cost. n. 64 del 1982) hanno dato luogo a due pronunce di rigetto. 
Successivamente, la Corte dichiara l’incostituzionalità della norma. 
Con la sentenza n. 134 del 1985, pronuncia l’illegittimità dell’art. 244, comma I, c.c. , nella parte in cui non disponeva che il termine di un anno per il marito, decorresse dalla data in cui lo stesso avesse avuto la conoscenza dell’adulterio della moglie.
Ancora, con la sentenza n. 170 del 1999, dichiara l’incostituzionalità dell’art. 244, comma II, c.c. , nella parte in cui non prevedeva che il termine per la proposizione dell’azione, nell’ipotesi di impotenza generandi, decorresse per il marito dal giorno in cui lo stesso fosse venuto a conoscenza del proprio stato fisico.     
Nel procedimento istaurato ex art. 235 c.c. , che si svolge dinanzi al Tribunale Ordinario, sono litisconsorzi necessari ex art. 247 c.c. , primo comma, “il presunto padre, la madre e il figlio”.
La sentenza di disconoscimento ha effetto “ex tunc”. 
Il Giudice, pronunciata una sentenza di accoglimento, dispone la correzione dell’atto di nascita e il figlio, se non si oppone, e non richiede di conservare il cognome originario quale segno distintivo della propria identità personale, perde il cognome del padre per assumere quello della madre. 
Il padre non ha più il dovere di provvedere al mantenimento, all’istruzione e all’educazione del figlio, ma non ha titolo per ripetere quanto versato fino alla pronuncia di disconoscimento.
Il padre biologico non ha, ex art. 235 c.c. , legittimazione a proporre l’azione di disconoscimento di paternità.
La posizione del padre naturale, in relazione all’azione di disconoscimento, è stata analizzata anche dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4035 del 1995.
I Giudici di Legittimità analizzano, in primo luogo, il rapporto tra l’azione di contestazione di legittimità, ex art. 248 c.c. , e l’azione di disconoscimento, ex art. 235 c.c.
La ricostruzione proposta è quella prevalente, che riconosce carattere di residualità all’azione ex art. 248 c.c. ed esclude una sua applicazione all’ipotesi in cui si metta in discussione l’elemento biologico della paternità, fattispecie dettagliatamente regolamentata dagli artt. 235 e 244 c.c.
In seconda istanza, la Corte prende in esame la posizione del padre naturale. 
In particolare evidenzia che in materia di accertamento di paternità l’impianto normativo, sia costituzionale che ordinario, è stato scritto dal Legislatore cercando di equilibrare i diversi valori della verità biologica e della verità legale, sulla base delle esigenze espresse dalla coscienza collettiva.
In un sistema così delineato è ineccepibile costituzionalmente la disposizione ex art. 244 c.c. che riserva ai membri della famiglia legittima e al PM ogni iniziativa per il promuovimento dell’azione di disconoscimento.
Al padre biologico, interessato a contestare la paternità legittima di un minore degli anni 16, non resta altro che rivolgersi al PM affinché lo stesso, ex art. 244 c.c. ,  chieda al Giudice di nominare un curatore speciale, previa assunzione di sommarie informazioni.
Tale soluzione appare idonea a contemperare “il diritto di tutti i membri della famiglia legittima a non vederne turbata da estranei l’integrità”, e inoltre, affida la difesa del minore “alla sensibilità di un organo, quale il PM, che è un magistrato nei cui compiti istituzionali può ben rientrare la protezione dei soggetti deboli nonché la tutela di taluni valori sociali ritenuti di particolare importanza anche nell’ambito del diritto di famiglia”.
Al padre naturale, dunque, non è consentita alcuna iniziativa formale né nel procedimento preliminare all’azione di disconoscimento, né nel giudizio di merito. Inoltre, non avendo il potere di intervento non ha nemmeno titolo ad impugnare i provvedimenti finali.
Dunque, dalla lettura delle norme che disciplinano l’azione di disconoscimento della paternità, si evince che il padre biologico non ha né il potere di iniziativa dell’azione di stato, né il diritto di prendervi parte. 
Nemmeno nel caso in cui, il giudizio sia istaurato per mano del figlio. 
Tale interpretazione è ampiamente condivisa dalla giurisprudenza. 
Infatti, il padre naturale è portatore di un interesse di mero fatto, in quanto la sua situazione non si trova esposta, in virtù dell’azione di disconoscimento, al rischio di una conseguenza negativa.
Concorde anche la dottrina, per la quale il padre biologico non è titolare di alcun diritto relativo all’oggetto dedotto in processo, in quanto egli, ex art. 253 c.c. , non potrà riconoscere il figlio fino all’accoglimento dell’azione di disconoscimento.
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Corte di Cassazione, sez. I, civ. , 16.01.2012, n. 430.
V. P., N. P., E. P., S. P., V. P. e C. P., tutti quali eredi di A. P. ricorrono per cassazione, con due motivi e memoria, nei confronti di V. C., avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli n. 2388/2009 deI 14 luglio 2009, che ha rigettato l’appello da loro proposto avverso la sentenza in data 8 gennaio 2008, con la quale il Tribunale di Napoli aveva dichiarato che V. C. era figlia naturale di A. P.
La Corte di appello di Napoli, a sostegno della decisione, ha così motivato:
- la sentenza che aveva dichiarato che la C. non era figlia di G. C. era opponibile agli eredi del P., anche se questi non avevano partecipato a quel giudizio, trattandosi di sentenza costitutiva inerente allo status di una persona, opponibile con forza di giudicato erga omnes
- la paternità naturale del defunto P. aveva trovato riscontro nell’indagine eme-genetica effettuata sul corpo dello stesso P. che si era conclusa nel senso che la sua paternità biologica nei confronti di V. C. risultava altamente probabile, tenuto anche conto che la consulenza tecnica espletata nel giudizio di disconoscimento della paternità aveva escluso la paternità di G.C. sulla base dell’indagine sul DNA; la dichiarazione resa da A.M. madre della C. sulla paternità naturale del P. era stata corroborata dalle deposizioni testimoniati di R. C. sorella dell’appellata.
- che insieme agli accertamenti tecnici espletati e ad elementi presuntivi, quali le lunghe frequentazioni delle famiglie C. e P. e una sorta di convivenza che si formava durante le vacanze tra i rispettivi nuclei familiari, ben potevano costituire elementi sufficienti e idonei a fondare il giudizio di paternità naturale.
AI ricorso dei P. ha resistito con controricorso V. C. che ha anche proposto ricorso incidentale sulla base di di ue motivi. illustrati con memoria.
Motivi della decisione
I. Preliminarmente deve disporsi, a norma dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi, in quanto attinenti all’impugnazione della medesima sentenza.
Con il primo motivo i ricorrenti principali deducono che l’esito del giudizio di disconoscimento di paternità proposto dalla C. non era loro opponibile, non avendo gli stessi partecipato pur essendo controinteressati e legittimati passivi, ben potendo la loro sfera giuridica essere modificata
dalla pronuncia emessa a conclusione di detto giudizio.
La censura è priva di fondamento.
Osserva il collegio che questa Corte, con orientamento a cui si intende in questa sede dare continuità, ha già affermato che la sentenza che accolga la domanda di disconoscimento della paternità, in quanto pronunciata nei confronti del pubblico ministero e di tutti gli altri contraddittori necessari, assume autorità di cosa giudicata erga omnes, essendo inerente allo status della persona (Cass. 1985/194).
In particolare, la paternità legittima non può essere messa in discussione e neppure difesa da colui che è indicato come padre naturale, il quale, allorché deduca che l’esito positivo dell’azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull’azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, si limita in realtà a far valere un pregiudizio di mero fatto, tanto da non poter agire contro la sentenza di disconoscimento neppure con l’opposizione di terzo, atteso che il rimedio contemplato dall’ art. 404 c.p.c, presuppone in capo all’opponente un diritto autonomo la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata (Cass.2005/12167).
Di conseguenza, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, deve ritenersi che né colui che sia indicato come padre naturale, né i suoi eredi, sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità, che la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio.
La Corte di appello di Napoli - affermando con la sentenza che aveva dichiarato che la C. non era figlia di G. C. era opponibile agli eredi del P. anche se questi non avevano partecipato a quel giudizio, trattandosi di sentenza costitutiva inerente allo status di una persona opponibile con forza di giudicato erga omnes - si è uniformata all’orientamento giurisprudenziale sopra enunciato e la decisione impugnata resiste alle infondate critiche sollevate dai ricorrenti, il cui riferimento alla sentenza di questa Corte n. 9033 del 12 settembre 1997 (la quale ha configurato come contraddittori necessari nel giudizio riguardante la dichiarazione di paternità naturale tutti i soggetti la cui sfera giuridica sia suscettibile di effetti in seguito alla formazione di uno status diverso da
quello originario ) non è attinente alla fattispecie dedotta nel presente giudizio, riguardante non la dichiarazione di paternità naturale, ma il disconoscimento della paternità, fermo restando che la decisione richiamata è stata comunque superata dalla successiva sentenza delle Sezioni Unite n.
21287 del 3 novembre 2005 (la quale ha escluso che siano contraddittori necessari, passivamente legittimati nel giudizio per la dichiarazione di paternità naturale, soggetti portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, ai quali può essere “riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a tutela dei rispettivi interessi”).
2. Con il secondo motivo i ricorrenti principali - denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 269 c segg. c.c. 2697 c.c, e 246 c.p.c., nonché omesso esame di un punto decisivo della controversia e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione - contestano gli elementi
probatori valutati e considerati dalla Corte di appello per pervenire alla dichiarazione di paternità naturale.
La doglianza è priva di fondamento.
La Corte di appello - nell’affermare che “le dichiarazioni rese dai testi già appaiono idonee e sufficienti al convincimento che l’attuale convenuta è il frutto della relazione tra la M. e P. convincimento che rimane ulteriormente confermalo dalle risultanze della relazione tecnica
d’ufficio dalla quale si evince la paternità del P. con una certezza pressoché vicina a quella assoluta - ha correttamente applicato il principio, enunciato più volte da questa Corte, secondo cui, in tema di dichiarazione giudiziale di paternità, l’art. 269, quarto comma. cod. civ. - in base al quale
la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra questa ed il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale - non esclude che tali circostanze, nel concorso di altri elementi, anche presuntivi, possano e sere utilizzate a sostegno del proprio convincimento dal giudice del merito. Questi infatti è dotato di ampio potere
discrezionale e può legittimamente basare il proprio apprezzamento in ordine all’esistenza del rapporto di filiazione anche su risultanze probatorie indirette ed indiziarie, sempre indicando gli elementi su cui intende fondare la pronuncia ed in tal modo ritualmente disattendendo le argomentazioni logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 2003/2640;
2005112166).
La sentenza impugnata si sottrae pertanto alle censure per violazione o falsa applicazione di norme di diritto sollevate dai ricorrenti principali le ulteriori doglianze, lungi dal configurare la violazione e falsa applicazione di altre norme e dal prospettare specifici vizi di motivazione, si risolvono nella rivisitazione delle circostanze di fatto poste dalla stessa Corte a fondamento della propria decisione sulla scorta di una motivazione esauriente e priva di vizi logici e nel fornire una diversa valutazione di dette circostanze, nell’evidente tentativo di indurre la Corte di cassazione ad un riesame nel merito della controversia, non consentito nel giudizio di legittimità.
Con il primo motivo del ricorso incidentale la C. denunciando la violazione e mancata applicazione dell’art. 96 c.p.c., si duole del rigetto della domanda di risarcimento del danno da responsabilità aggravata per lite temeraria da lei formulata nei confronti dei P.
La censura è priva di fondamento.
Premesso che la fattispecie, relativa a controversia instaurata prima dell’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009, è regolata dall’art. 96 c.p.c. nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge citata, rileva il collegio che la condanna per responsabilità processuale aggravata per lite temeraria, quale sanzione dell’inosservanza dei dovere di lealtà e probità cui ciascuna parte è tenuta, non può derivare dal solo fatto della prospettazione di tesi giuridiche riconosciute errate dal giudice, occorrendo che l’ altra parte deduca e dimostri nell’indicato comportamento dell’avversario la ricorrenza del dolo o della colpa grave, nel senso della
consapevolezza, o dell’ignoranza derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell’infondatezza delle suddette tesi (Cass. 2010/15629). Infatti la domanda di cui all’art. 96 cod. proc. civ. richiede pur sempre la prova incombente alla parte istante sia dell’ “an” che del “quanturn debeatur” o che, pur essendo la liquidazione effettuabile d’ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa (Cass. 2007/3388: 2007/13395; 2010/17902).
La Corte di appello di Napoli ha escluso che la C. gravata del relativo onere, abbia fornito prova alcuna dell’ esistenza dei presuppositi della responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. e in particolare della consapevolezza in capo agli attori e appellanti della infondatezza della loro
domanda. Sul punto, pertanto, la sentenza impugnata si è uniformata alla giurisprudenza di questa Corte e si sottrae alla infondata censura della ricorrente incidentale, tenuto anche conto che l’accertamento, ai fini della condanna al risarcimento dei danni da responsabilità aggravata ex art. 96 cod. proc. civ., dei requisiti dell’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (comma primo) ovvero del difetto della normale prudenza (comma secondo) implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità se la motivazione in ordine alla sussistenza o meno dell’elemento soggettivo c.d. all’ “an” ed al “quantum” dei danni di cui è chiesto il risarcimento risponde ad esatti criteri logico-giuridici. Nel caso di specie, la C. pur dolendosi (erroneamente) che la decisione della Corte di appello non era sorretta da alcuna motivazione, non ha dedotto di aver fornito nel giudizio di merito specifici elementi di prova,
non esaminati dal giudice di appello, in ordine alla sussistenza dei presupposti della responsabilità aggravata degli attori, ma si è limitata genericamente ad affermare che i P., con il comportamento
processuale da loro tenuto sin dall’Inizio della proposizione della domanda di ammissibilità, si sono sempre opposti, rimanendo soccombenti e procrastinando di oltre un decennio la decisione di primo grado sul riconoscimento di paternità, nell’evidente tentativo di indurre la corte di
legittimità ad un inammissibile riesame del merito della controversia sul punto in contestazione.
E’ invece fondato il secondo motivo del ricorso incidentale della C., in quanto la Corte di appello di Napoli, dopo aver condannato gli appellanti al pagamento delle spese processuali relative al giudizio di appello, ha omesso di liquidare le somme dovute.
La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata in ordine alla censura accolta e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384. comma 2 c.p.c. con la liquidazione, nella misura indicata in dispositivo, delle spese del giudizio di appello, con distrazione in favore del procuratore dell’appellata, avv. D.,dichiaratosi antistatario.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, con distrazione in favore del difensore antistatario della ricorrente incidentale. avv. D.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale e il primo motivo del ricorso incidentale. Accoglie il secondo motivo dei ricorso incidentale.
Cassa la sentenza impugnata in ordine alla censura accolta e, decidendo nel merito, condanna in solido gli appellanti alle spese del giudizio di appello, che i liquidano in euro 5.000.00, di cui euro 1.100.00 per diritti, euro 3.700,00 per onorari ed euro 200.00 per esborsi, oltre a spese generali e
accessori di legge, con distrazione delle spese in favore del procuratore dell’appellata, avv. D. dichiaratosi antistatario. Condanna in solido i ricorrenti alle spese del giudizio di cassazione, che si
liquidano in euro 2.700,00, di cui euro 2.500.00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge, con distrazione in favore del difensore antistatario della controricorrente e ricorrente incidentale, avv. D.
In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’ art. 52 del d. Igs. 156/2003, in quanto imposto dalla legge.
Depositata in Cancelleria il 16.01.2012

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