DIRITTO PENALE. Omissione di atti d'ufficio e formalità della diffida scritta. Cass. pen. 15 gennaio 2014 n. 2331.



Omissione di atti d’ufficio: per la sussistenza del reato occorre la formale diffida scritta ad adempiere. Cass. Pen. 15 gennaio 2014 n. 2331. 

In tema di omissione o rifiuto di atti d'ufficio, la richiesta scritta di cui all'art. 328 c.p., comma 2, assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono. Ne consegue che il reato si consuma quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l'atto richiesto sia stato compiuto, o senza che il mancato compimento sia stato giustificato. Pertanto il reato non sussiste in presenza di mere ripetute richieste di revoca della sospensione cautelare dall'esercizio della professione forense" prive di formali diffide ad adempiere rivolte al pubblico ufficiale. Cass. pen. 15 gennaio 2014 n. 2331 (Conforme: Cass. pen. n. 40008/2010)

Cassazione penale sez. VI 15/01/2014 ( ud. 15/01/2014 , dep.20/01/2014 ) n. 2331

 FATTO

1. S.G., ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso l'ordinanza di archiviazione emessa in data 12/3/2012 dal G.I.P. presso il Tribunale di Udine, nel procedimento contro ignoti, componenti il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Udine in relazione al delitto ex art. 328 c.p., comma 2.

2. Il G.I.P. nell'ordinanza di archiviazione ha testualmente rilevato che non si sono evidenziati elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio, considerato:

a) che il reato di omissione di atti ufficio non sussiste allorchè difetti la prova che i pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, nella specie i componenti del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Udine, abbiano posto in essere un'omissione intenzionale e non invece riconducibile a fattori non direttamente ascrivibili alla volontà dei soggetti quali disservizi, errori sovraccarico di lavoro e simili (nel caso in esame errato inserimento dell'istanza in altro fascicolo);

b) che neppure risulta che l'opponente abbia provveduto ad apposita diffida ad adempiere nei confronti dell'organo, consistente in un atto specifico ed ulteriore rispetto alla mera richiesta di adozione di un determinato provvedimento, nel caso in esame rappresentato dalla revoca della sospensione cautelare dall'esercizio della professione forense, ripetutamente richiesta dall'opponente con esito sfavorevole;

c) che natura ed effetti della suddetta diffida non possono attribuirsi ad atto del tutto autonomo quale l'istanza di ricusazione di taluni componenti del Consiglio dell'Ordine, successivamente presentata dal S.;

d) che tale manchevole quadro probatorio non potrebbe realisticamente modificarsi con ulteriori indagini in sede di giudizio, data la natura eminentemente documentale della vicenda.

DIRITTO

1. Con il ricorso si prospetta violazione di legge in relazione all'art. 406 c.p.p., comma 6, art. 127 c.p.p., comma 5 e art. 111 Cost., per mancato rispetto del contraddittorio, in ragione dell'omessa considerazione dei contenuti dell'atto di opposizione e della conseguente mancata risposta in ordine ad essi.

2. Il Procuratore generale con la sua requisitoria ha sostenuto l'inammissibilità dell'impugnazione con la premessa che, in conformità al dato testuale di cui all'art. 409 c.p.p., comma 6, ed alla costante interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, il ricorso per Cassazione avverso il provvedimento di archiviazione, emesso all'esito dell'udienza camerale conseguente ad opposizione, è consentito solo per motivi concernenti la violazione del contraddittorio ex art. 127 c.p.p., comma 5: non per vizi di motivazione ovvero per "errores in iudicando fondati su una diversa interpretazione della legge sostanziale, o, ancora, per violazioni di legge che non comportino comunque violazione del contraddittorio (cfr. Cass. Pen. Sez. 2. 27 settembre 2012, in proc. Nicastro; Cass. Pen. Sez. 4^, 8 giugno 2008. in proc. Pregadio; Cass. Pen. Sez. 1^, 7 febbraio 2006. in proc. Laurino;: Cass. Pen. Sez. 6^ 5 dicembre 2002 in proc. Mione).

3. Rileva ancora il Procuratore generale: a) che, nella specie, a seguito dell'opposizione della persona offesa il G.I.P. ha fissato la camera di consiglio dandone rituale avviso alle parti; b) che l'udienza si è svolta con la partecipazione del S. e del suo difensore, i quali hanno in detta sede potuto sottoporre al giudice ed argomentare le proprie ragioni difensive; c) che l'ordinanza di archiviazione è stata emessa all'esito di tale rituale contraddittorio; d) che, in tale quadro, il ricorrente prospetta violazione del contraddittorio sostanziale, per mancata pronuncia da parte del G.I.P. in ordine alle questioni di cui all'atto di opposizione, richiamando non pertinenti pronunce della Suprema Corte, in quanto emesse con riferimento al procedimento innanzi al giudice di pace, in cui il contraddittorio camerale tra le parti non è previsto ed il rispetto del principio del contraddittorio può e deve apprezzarsi solo con riferimento al dato cartolare; e) che, in ogni caso, ove vi sia stata invece celebrazione della camera di consiglio, come nella vicenda, la sede elettiva del contraddittorio va individuata nell'udienza, di cui il provvedimento finale compendia il risultato.

4. Il Procuratore generale infine, ipotizza pure che, pur nella ritenuta estensibilità dei principi elaborati con riferimento al procedimento innanzi al giudice di pace ed al contraddittorio sostanziale, all'ordinanza di archiviazione emessa invece all'esito della camera di consiglio, resterebbe comunque la manifesta infondatezza delle censure del ricorso considerato che in concreto il G.I.P. ha preso cognizione e motivato in ordine ai punti essenziali delle questioni sottopostegli.

5. Ritiene la Corte che le osservazioni critiche del Procuratore generale, puntuali e corrette, siano pienamente condivisibili, con conseguente conforme pronuncia di inammissibilità del ricorso. Infatti in tema di omissione o rifiuto di atti d'ufficio, la richiesta scritta di cui all'art. 328 c.p., comma 2, assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono. Ne consegue che il reato si consuma quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l'atto richiesto sia stato compiuto, o senza che il mancato compimento sia stato giustificato. Pertanto il reato non sussiste in presenza di "mere ripetute richieste di revoca della sospensione cautelare dall'esercizio della professione forense" prive di formali diffide ad adempiere rivolte al pubblico ufficiale (cfr. in termini: Cass. pen. sez. 6^, 40008/2010 Rv. 248531).

6. Invero, nel provvedimento impugnato, non solo risulta l'insussistenza di elementi indicativi di una omessa pronuncia intenzionale (e non piuttosto dovuta a disservizi, errori, sovraccarico, ecc.) ma viene posto proprio l'accento sulla palese infondatezza della notizia di reato, tenuto conto che, con riferimento alla ipotizzata fattispecie di cui all'art. 328 c.p., comma 2, l'ordinanza ha correttamente individuato la mancata presentazione della diffida ad adempiere, quale elemento essenziale del reato prospettato, costituito appunto da un atto specifico ed ulteriore rispetto alla mera richiesta, anche reiterata, di adozione del provvedimento stesso.

7. Bene pertanto il G.I.P. - come osservato dal Procuratore generale - ha considerato tale elemento essenziale della fattispecie, valevole di per sè a palesare l'inutilità delle ulteriori sollecitate indagini, vertenti su profili diversi e, a tal punto, ininfluenti, rispetto al configurarsi del reato (profili inerenti l'elemento soggettivo del delitto di cui si chiedeva l'approfondimento, in particolare mediante l'identificazione del consigliere relatore e la sua audizione). Tanto premesso non resta che concludere in adesione alle articolate argomentazioni del Procuratore generale sulla superfluità dello sviluppo di specifiche argomentazioni in ordine alle "indagini sollecitate", senza che possa per tal ragione ritenersi realizzata una violazione del contraddittorio sostanziale, attesa l'insindacabilità dei contenuti di merito e delle ragioni in diritto della motivazione, anche sul punto decisivo della carenza dei requisiti idonei a qualificare gli atti di sollecito come "diffida ad adempiere". Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile. Alla decisa inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma, in favore della Cassa delle ammende, che si stima equo determinare in Euro 1000,00 (mille).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2014.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2014

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