PENITENZIARIO. Malati di AIDS e detenzione. Evoluzione normativa.



DIRITTO PENITENZIARIO. Malati di AIDS e detenzione. Evoluzione normativa

Avv. Salvatore Braghini – Presidente Antigone Abruzzo

L’acronimo AIDS è da tutti associato a una malattia grave, diffusa e subdola. Dal punto di vista scientifico, la Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS) è una malattia infettiva causata dal virus HIV (Human Immunodeficiency Virus) di cui sono noti due tipi: il tipo 1, diffuso in tutto il mondo ed il tipo 2, la cui diffusione è limitata quasi esclusivamente all’Africa occidentale. L’AIDS è stata riconosciuta come una nuova e distinta entità clinica nel 1981 negli Stati Uniti d'America in seguito al riscontro, nelle aree di New York, Los Angeles e San Francisco, di numerosissimi casi di un particolare tipo di tumore, il sarcoma di Kaposi e di una particolare forma di polmonite, la polmonite da pneumocystis jirovecii in giovani maschi omosessuali.

Nel sangue di tali pazienti veniva costantemente isolato un nuovo virus capace di infettare i linfociti umani (cellule del sistema immunitario), che venne successivamente denominato virus HIV e riconosciuto quale agente responsabile della malattia.

Nelle carceri - per le particolari condizioni di convivenza forzata tra persone dello stesso sesso e spesso tossicodipendenti - questa infezione si è rapidamente diffusa tanto che il dilagare del fenomeno ha fatto emergere due esigenze fondamentali di tutela: il diritto alla salute del detenuto da una parte e il rispetto delle esigenze cautelari, di difesa e prevenzione sociale dall’altra.

L’O.M.S. e il Consiglio d’Europa hanno emanato Raccomandazioni e Direttive per la tutela dei diritti individuali stabilendo principi generali per l’esecuzione della pena con l’intento di armonizzare le politiche d’intervento dei singoli Stati, ma, di fatto, è lasciata alla discrezionalità dei legislatori nazionali la possibilità di recepirle e applicarle al rapporto punitivo di tipo carcerario. In particolare, con la Raccomandazione n. 1080 del 1988, relativa ad una politica sanitaria coordinata per prevenire la diffusione dell’AIDS nelle prigioni, i Governi erano invitati anche a adottare politiche di riduzione del danno, autorizzando la distribuzione di preservativi e, in casi estremi, di siringhe ai detenuti tossicodipendenti.

Nella stessa direzione andava anche la Raccomandazione R (89) 14 del 24 ottobre 1989. Il Consiglio d’Europa nella Raccomandazione R (93) 6 del 18 ottobre 1993 per il trattamento dell’infezione da HIV in ambiente penitenziario formula principi generali e disposizioni particolari.

In Italia esistono delle “Linee guida sulla riduzione del danno” promulgate dal Ministero della Sanità come risposta all’emanazione delle Direttive dell’OMS, note come “Principio d’equivalenza delle cure”.

Riguardo alla specifica tutela della salute nei casi di AIDS le normative internazionali hanno sottolineato la necessità di garantire alcuni diritti che, potenzialmente, le strutture penitenziarie possono ledere: il diritto a godere di un’assistenza sanitaria di livello paritario a quello di tutti i cittadini; il diritto a non correre pericoli maggiori di contrarre malattie contagiose per il fatto di vivere in un “ambiente ad alto rischio”; il diritto a ricevere informazioni e strumenti di prevenzione contro la diffusione del contagio; il diritto alla riservatezza; il diritto ad un rapporto fiduciario col personale sanitario; il diritto a non essere discriminati nell’ambito delle attività organizzate all’interno del carcere; il diritto ad avere una sessualità non coatta nei limiti consentiti dalle esigenze di sicurezza carceraria; il diritto ad un sostegno psicologico nei casi di sieropositività.

Uno studio promosso dall’OMS sulla condizione dei sieropositivi, condotto in istituti penitenziari di vari Paesi, ha identificato dei caratteri costanti: lo stato di salute dei detenuti è inferiore rispetto a quello della popolazione esterna, la qualità dell’alimentazione è inferiore alla media esterna, il livello economico e sociale del detenuto è inferiore alla media generale, i livelli di stress sono molto elevati e favoriscono l’immuno-depressione.

Da sottolineare che per l’AIDS sono stati utilizzati istituti previsti dagli ordinamenti penali e penitenziari dei vari Paesi e solo l’Italia, con la legge n. 222/93 e con la legge 231/99, stabilisce l’incompatibilità tra detenzione e malattia Aids.

Il drammatico trend della diffusione dell’infezione da HIV, il peculiare substrato dei soggetti malati, rappresentato in Europa soprattutto dai tossicodipendenti, talora con gravi pendenze giudiziarie, ha progressivamente imposto l’attenzione di queste problematiche in ambiente carcerario.

Diritto alla vita ed alla salute fisica, pari dignità fra cittadini (liberi o detenuti), rispetto della privacy individuale e del diritto all’informazione, umanizzazione degli spazi vitali ed abitativi (con particolare riferimento a quelli interni ad istituzioni “totali”), dovere di curarsi e farsi curare, sono i punti principali sui quali si è incentrata l’attenzione.

L’orientamento internazionale - che ha assunto un punto di vista comune nell’affermare che l’azione preventiva debba necessariamente passare attraverso l’informazione, l’educazione ed una responsabile modificazione comportamentale - ha senza dubbio condizionato anche le legislazioni nazionali, e tra questa anche la nostra.

Ciò non toglie che le implicazioni etiche e sociali di questa malattia ha risentito delle culture e delle posizioni morali dominanti nei rispettivi Paesi creando un’accesa dialettica sui punti più sensibili.

Valga ad esempio il fatto che la condizione coatta e monosessuale tipica della vita carceraria può favorire condotte “a rischio” per l’infezione da HIV, amplificando nello specifico ambito le problematiche sollevate dall’AIDS e dividendo talora in orientamenti opposti giuristi ed operatori del settore. Un primo intervento legislativo volto ad affrontare il problema agli inizi degli anni novanta.

Si tratta del D.l. 13 giugno 1992, n. 335, il quale introduceva l’art. 286 bis c.p.p., secondo cui non poteva essere mantenuta custodia cautelare in carcere nei confronti di persona affetta da HIV allorché si trovasse in condizioni di incompatibilità con lo stato di detenzione (art.3). Il giudice inoltre poteva disporre il ricovero in un’idonea struttura sanitaria, nel caso in cui ricorressero esigenze diagnostiche e terapeutiche, cessate le quali disponeva gli arresti domiciliari.

Disponeva, inoltre, l’introduzione di una nuova causa di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena ex art. 146 c.p. quando avesse luogo nei confronti di un soggetto affetto da HIV in “caso di incompatibilità con lo stato di detenzione” (art. 4).

In ordine cronologico segue il Decreto 27 settembre 1992, con il quale il Ministro della Sanità di concerto con il Ministro di Grazia e Giustizia, definiva le condizioni di incompatibilità con lo stato di detenzione per le persone affette da HIV (1).

Una prima modifica al precedente Decreto legge fu apportata invece dal D.l. 12 novembre 1992, n. 431, il quale rivedeva l’art. 286 bis c.p.p., stabilendo che l’incompatibilità sussisteva, e veniva dichiarata dal giudice, nei casi di AIDS conclamata e di grave deficienza immunitaria; negli altri casi l’incompatibilità era valutata dal giudice tenendo conto della carcerazione ancora da scontare e della pericolosità del detenuto in riferimento alle sue attuali condizioni fisiche (art.3).

Riguardo, poi, al rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena ex art. 146, comma I c.p. stabiliva dovesse avvenire nei casi di incompatibilità previsti dall’art. 286 bis c.p.p. Ma il passaggio significativo si è avuto con la Legge 14 luglio 1993, n. 222 (2), che ha introdotto in via definitiva - seppure con diversa formulazione rispetto ai precedenti - l’art. 286 bis c.p.p.. In tema di custodia cautelare, l’art. 286 bis c.p.p., prevedeva due ipotesi di incompatibilità dello stato di detenzione con l’accertata infezione da HIV: la prima ipotesi concerneva l’AIDS conclamata o la grave deficienza immunitaria, cui conseguiva la dichiarazione obbligatoria di incompatibilità con la custodia carceraria; la seconda riguardava i casi di deficienza immunitaria non grave, per i quali la valutazione di incompatibilità era rimessa alla valutazione discrezionale del giudice.

A stabilire la linea di confine tra AIDS conclamata e grave deficienza immunitaria e deficienza immunitaria non grave provvedeva il Decreto Interministeriale 25 maggio 1993 (3).

Nei casi invece di AIDS non conclamata, ex art. 286 bis c.p.p. comma II, il giudice doveva valutare e motivare l’incompatibilità carceraria legittimante l’esclusione della misura, tenendo conto, oltre che dell’incompatibilità strettamente tecnica tra malattia e vita carceraria, anche del residuo periodo di custodia cautelare e degli effetti che le condizioni fisiche del detenuto avevano sulla sua pericolosità.

Con l’art. 2 del D.l. 14 maggio 1993, n. 139, veniva introdotto all’interno dell’art.146 c.p. una nuova causa di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. Detta causa è ravvisabile nei confronti di persona affetta da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell’art.286 bis, comma I (4).

L’art.3, ancora, prevedeva che sia i detenuti che gli internati, qualora la competente autorità avesse disposto nei loro confronti il piantonamento, fossero avviati negli ospedali individuati con Decreto Interministeriale (Giustizia e Sanità) 22 aprile 1996 (5).

Inoltre veniva anche stabilita l’istituzione di residenze collettive e case alloggio per i detenuti e per gli internati per i quali fosse dichiarata l’incompatibilità con lo stato di detenzione e per assolvere a detti oneri dovevano essere utilizzati i finanziamenti di cui all’art.20 della Legge 11 marzo 1988, n. 67. Altra novità rimasta praticamente inattuata, introdotta dall’art. 4, prevedeva la definizione, ad opera di un Decreto del Presidente del Consiglio, di un programma di screening per l’HIV - argomento che tratteremo più avanti - da sperimentare negli Istituti penitenziari garantendo l’anonimato dei detenuti; il progetto urtava con la non obbligatorietà del test di sieropositività. Per quanto riguarda la situazione del detenuto affetto da AIDS vanno poi distinte le due posizioni di imputato (in attesa che venga emessa una sentenza definitiva) e condannato definitivo.

La richiesta di accertamento dello stato di incompatibilità può essere fatta dall’interessato, dal suo difensore o dal Servizio Sanitario Penitenziario.

La distinzione tra imputato e condannato definitivo rileva per quanto concerne i diversi regimi applicabili. Per entrambi è prevista la scarcerazione nel caso di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria ma, mentre per il condannato definitivo è prevista la sola remissione in libertà, per l’imputato possono essere alternativamente disposte la remissione in libertà e gli arresti domiciliari a seconda della ritenuta pericolosità nel caso concreto (6).

Questa differenziazione di trattamento mal si concilia peraltro con il principio sancito dal comma II dell’art.27 Cost. secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla sentenza definitiva”, in quanto vede una maggiore benevolenza nei confronti del condannato piuttosto che dell’imputato.

A distanza di qualche anno dalle modifiche degli art. 146 c.p. e 286 bis c.p.p., così come introdotti dalla Legge 222/1993, sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale su diversi delicati aspetti. Per questa via, l’automatismo stabilito dalla predetta legge, che stabiliva l’incompatibilità tra lo stato di detenzione e lo stato di affezione da AIDS è stato, ridimensionato da due diverse sentenze della Corte Costituzionale e precisamente, la sentenza n. 438 del 1995, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 146, comma I, numero 3°, e la sentenza n. 439 del 1995 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 286 bis, comma I (7).

Concludendo la disanima di carattere giuridico, occorre soffermarsi brevemente anche sulla questione delle implicazioni giuridiche (ed etiche) del test di screening nei reclusi. A proposito va subito chiarito che l’attuale situazione vigente nelle carceri italiane ed estere, alla luce della specifica normativa in tema di accertamenti diagnostici per infezione da HIV, non differisce da quelle presente in qualsiasi altro ambiente, sanitario e non. E’ attuato (ed è attuabile) lo screening solo previo consenso informato del detenuto.

La Costituzione italiana garantisce il diritto alla salute (che è ovviamente più esteso del diritto alla semplice integrità fisica) ed indubbiamente particolari circostanze possono imporre la preminenza del dovere di solidarietà sociale e della tutela della salute pubblica sui diritti individuali di libertà. Ma una compressione di questi, come nei trattamenti sanitari obbligatori, può aver luogo solo in casi ben specificati e non può mai oltrepassare i limiti del rispetto della dignità della persona umana.

L’art. 5 della L.135/90 a riguardo prevede quanto segue:“...3. Nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi tendenti ad accertare l’infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse. Sono consentite analisi di accertamento di infezione da Hiv nell’ambito di programmi epidemiologici, soltanto quando i campioni da analizzare siano stati resi anonimi con assoluta impossibilità di pervenire alla identificazione delle persone interessate...5. L’accertata infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione in particolare per l’iscrizione alla scuola, per lo svolgimento di attività sportive, per l’accesso o il mantenimento di posti di lavoro…”.

Del resto l’art 32 della Costituzione II comma non sarebbe compatibile con la generalizzata prescrizione di un trattamento sanitario che, pur prevista per legge, violi “i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, e questo sia per le così dette categorie a rischio, sia per altri particolari gruppi, quale appunto quello della popolazione carceraria (8).

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(1)Dette condizioni di incompatibilità sussistevano (art. 1 Decreto Interministeriale 27 settembre 1992) nel caso in cui il soggetto presentasse un deficit immunitario esplicitato da un numero di linfociti T/CD4+ pari o inferiore a 100/mme come valore ottenuto da almeno due esami consecutivi effettuati a distanza di quindici giorni l’uno dall’altro.

(2)Si tratta della legge di conversione del D.l. 14 maggio 1993, n. 139.

(3)Secondo tale Decreto se il paziente aveva un numero di linfociti pari o inferiori a 100/MMC, si aveva un caso di grave deficienza immunitaria, rilevante ai fini della dichiarazione obbligatoria di incompatibilità con la detenzione, se invece il numero di linfociti risultava essere superiore a 100/MMC ma inferiore a 200/MMC, si aveva un caso di insufficienza immunitaria rilevante ai fini della dichiarazione discrezionale di incompatibilità con lo stato di detenzione. La situazione di AIDS conclamata doveva essere espressa da strutture ospedaliere pubbliche o comunque convalidata da dette strutture.

(4)Fino ad ora abbiamo parlato del trattamento riservato ai condannati ed agli imputati. La normativa, invece, nulla diceva circa il trattamento da applicare agli internati che fossero affetti da AIDS o da grave deficienza immunitaria. Questo problema è stato oggetto di una decisione della Corte costituzionale, e precisamente della sentenza n. 308 del 1994, in seguito ad un'eccezione proposta dal Tribunale di Roma, il quale ravvisava una ingiustificata disparità di trattamento tra internati e condannati che presentassero la medesima patologia in contrasto con gli art. 32 e 27 Cost. Secondo la Corte il nucleo delle disposizioni che il giudice a quo evocava a modello, e sulla cui base fondava le dedotte censure di incostituzionalità per “omissione”, veniva a coagularsi intorno ad un binomio costituito in via esclusiva da due termini “carcere e malati di AIDS”. Era dunque evidente che una disciplina che assumesse i connotati sostanziali di “'ius singulare'” non potesse essere utilizzata da adeguato termine di raffronto per omologare ad essa situazioni che non presentino gli stessi presupposti di fatto. D’altra parte la necessità di assegnare il dovuto risalto alle esigenze di sicurezza collettiva assumeva un rilievo del tutto peculiare in sede di applicazione delle misure di sicurezza, postulando le stesse un perdurante giudizio di pericolosità. Per questi motivi la Corte con la sentenza n. 308 del 1994 ha dichiarato l’inammissibilità della questione.

(5)Detto Decreto aveva individuato dette strutture ospedaliere in sole dieci regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Marche, Veneto e Toscana) a causa della mancata tempestiva fornitura dei dati richiesti da parte delle altre amministrazioni regionali

(6)Quando per il condannato definitivo è prevista l’incondizionata remissione in libertà attraverso sospensioni dell’esecuzione della pena rinnovabili di anno in anno ex art.146 c.p. e art. 684 c.p.p., per l’imputato è, invece, alternativamente prevista la remissione in libertà o gli arresti domiciliari presso la propria abitazione o presso una residenza collettiva o casa alloggio ex art. 286 bis c.p.p. Bisogna sottolineare che, nella pratica, difficilmente l’imputato veniva rimesso in libertà prima che la sentenza diventasse definitiva, a meno che le sue condizioni non fossero o non diventassero così gravi (ad es. paralisi corporea) da far ritenere priva di pericoli per la società la sua liberazione. Poteva inoltre verificarsi che le due condizioni di imputato e condannato definitivo venissero a sovrapporsi a causa della contemporanea presenza di procedimenti già definitivi e in corso di esecuzione e procedimenti per cui ancora non fosse stata emessa una sentenza definitiva. In detti casi prevalevano le condizioni impartite dal giudice del procedimento in corso, per cui si poteva verificare che un soggetto malato di AIDS risultava scarcerato per un procedimento penale divenuto definitivo e contemporaneamente agli arresti domiciliari, in quanto sottoposto a procedimenti penali non ancora conclusi, per cui si ritenesse non opportuno, ad es. per la ritenuta pericolosità sociale del soggetto, concedere la più ampia remissione in libertà.

(7)Secondo la Corte risultava privo di ragionevolezza il divieto assoluto di custodia cautelare in carcere stabilito per i soli ammalati di AIDS, dovendo per essi operare, pur con i temperamenti resi necessari dalla peculiarità della malattia, la regola generale che consente, anche nel caso di malattie altrettanto gravi, l’adozione della misura carceraria, nel caso in cui esigenze cautelari di eccezionale rilevanza facciano ritenere inadeguata qualsiasi altra misura ex art. 275, comma IV, c.p.p. Per queste ragioni la Corte ha dichiarato, con la sentenza n. 439 del 1995, l’illegittimità costituzionale dell’art. 286 bis, comma I, c.p.p., nella parte in cui stabilisce il divieto di custodia cautelare in carcere nei confronti di persone affette da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, anche quando sussistano esigenze cautelari di particolare rilevanza di cui all’art. 275, comma IV, c.p.p., e l’applicazione della misura possa avvenire senza pregiudizio per la salute del soggetto e di quella degli altri detenuti. Relativamente, invece, all’art. 286 bis, comma I, c.p.p. è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, il quale era stato chiamato a decidere relativamente alla richiesta del P.M. di sostituire con la misura di custodia cautelare in carcere quella degli arresti domiciliari nei confronti di un soggetto affetto da AIDS conclamata, più volte sottrattosi agli obblighi inerenti alla misura custodiale.

(8)Detta convinzione si fonda su numerose e varie considerazioni dettagliatamente esposte da diversi autori e sulle quali non ci si sofferma. Vale per tutti, a prescindere da difficoltà organizzative, la semplice convinzione dell’importanza della collaborazione e della fiducia nel rapporto con il sieropositivo e con il malato di AIDS, tanto più se detenuto. L’imposizione di norme coercitive non farebbe altro che spingere queste persone a comportamenti autodistruttivi aggressivi nei confronti della società. In tal senso quindi risulta importante l’adozione di una strategia fondata sull’offerta consapevole ed informata del test. Contrariamente, le posizioni di adozione del test in maniera sistematica, assolutamente non condivisibili anche alla luce del dettato normativo, trovano origine sostanzialmente in motivazioni epidemiologiche, al fine di ottenere dati certi senza approssimazioni sull’incidenza del fenomeno nelle carceri, e di sorveglianza sanitaria, al fine di raggruppare all’interno di un sistema “chiuso” una popolazione particolarmente difficile da gestire sul piano medico, ottenendo in maniera semplice, il duplice scopo di proteggere tutto il personale, detenuti e non, e di limitare la diffusione dell’infezione.

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