"La speranza oltre le sbarre". Un libro che apre le porte ad un cammino esistenziale.

Recensione del libro “LA SPERANZA OLTRE LE SBARRE – Viaggio in un carcere di massima sicurezza” (M. GRONCHI - A. TRENTINI) a cura di Liliana RULLO (Avvocato, Direttore Responsabile Mondodiritto.it)



in DIRITTO E DINTORNI - Rubrica a cura di Liliana Rullo

Recensione del libro “LA SPERANZA OLTRE LE SBARRE – Viaggio in un carcere di massima sicurezza”

di Maurizio Gronchi e Angela Trentini 

  • SCHEDA LIBRO

Autori: Marizio Gronchi – Angela Trentini

Maurizio Gronchi, presbitero della diocesi di Pisa e professore ordinario di cristologia alla Pontificia Università Urbaniana in Roma, consultore della Congregazione per la dottrina della fede e della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi; si prende cura pastorale di persone con disabilità fisica e psichica e socialmente svantaggiate; con Edizioni San Paolo ha pubblicato: Amoris laetitia. Una lettura dell’Esortazione apostolica postsinodale sull’amore nella famiglia (2016) e, insieme a Laura Capantini, La vulnerabilità (2018).

Angela Trentini, giornalista professionista dal 1994, caposervizio e conduttrice nella redazione della RAI dell’Abruzzo, curatrice di servizi e reportage dedicati al sociale e alla cronaca sia per TGR che per testate nazionali, tra le quali TG2 Dossier Storie. All’estero, attraverso Rete Italia, propone alla comunità emigrata servizi dedicati alla cultura popolare e alle espressioni della “Cristianità”. E’ presidente regionale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana. Esperta nei temi della maginalità, in collaborazione con il Ministero della Giustizia, cura video didattici sul mondo carcerario.

Titolo: La speranza oltre le sbarre – Viaggio in un carcere di massima sicurezza

Anno di pubblicazione: 2018

Editore: Edizioni San Paolo

Un libro che apre le porte ad un cammino esistenziale.

Mi è stato regalato un libro.

E’ sulla mia scrivania.

E’ lì da poco più di 24 ore. Ormai già ricolmo delle sudate carte.

E’ sera. E sotto la luna mi accingo a leggerlo.

E non è una lettura sospirata e interrotta.

No.

E’ una di quelle letture tutte d’un fiato, coerente con il fluire delle pagine.

E’ una di quelle letture che mi entra dentro.

Una pagina tira l’altra.

E’ una lettura di sospiro e di speranza; mi fa riecheggiare alla memoria i miei studi in scienze criminologiche e il mio vivace interesse per la mediazione penale…per il dialogo e per la giustizia “riparativa”.

E’ un libro che apre le porte ad un cammino esistenziale.

La speranza oltre le sbarre” è un libro-inchiesta che attraverso l’incontro con sette uomini condannati per grandi crimini coglie l’aspetto umano della pena scandagliando l’animo umano ed il suo sentire solitario, dando voce a detenuti che sono stati condannati per le stragi “che hanno cambiato la storia dell’Italia”.

Il viaggio nel cuore dei detenuti si svolge nel super carcere di Sulmona (AQ), noto come il “carcere dei suicidi”, ed è qui che Angela Trentini incontra la voce di sette uomini accomunati dal richiamo della loro coscienza e si trova di fronte ad un cammino esistenziale che “rendono quell’angolo di carcere non un luogo di pena ma un luogo di speranza”.

Ed è la stessa Angela Trentini che dona all’inchiesta la veste di un dialogo interiore trasformando “quella stanzetta dei colloqui” in un “laboratorio di umanità” ed evidenziando nelle prime pagine del libro che “le voci di questi detenuti diventano grido”.

A coronare il viaggio umano all’interno della pena sovvengono alcuni interventi di Papa Francesco, commentati da Maurizio Gronchi in relazione soprattutto ad una prospettiva di fede protesa verso un circolo vizioso tra detenzione e reinserimento come “la sfida più impegnativa che la società civile deve sostenere, ed è qui che la Chiesa si fa compagna di viaggio, offrendo la propria prospettiva di fede”.

Le storie dei detenuti che emergono durante la lettura del libro fanno riecheggiare alla memoria le tante feroci immagini che hanno segnato gli ultimi decenni del secolo scorso e si portano dietro rabbia, incomprensione e violenza.

La tecnica narrativa utilizzata, quella dell’inchiesta, emerge funzionale ed utile per far entrare il lettore nello spazio fisico ed emotivo del detenuto; paradossalmente il libro assume consistenza in un tempo-non tempo e in uno spazio-non spazio in quanto le storie appaiono sospese nel vuoto in un limbo di rarefatta speranza che prende sempre più corpo fino a trovare sfogo ed epilogo nelle parole di Papa Francesco, citate nel capitolo finale:

Seminare speranza. Sempre, sempre. Il vostro lavoro è questo: aiutare a seminare la speranza di reinserimento, e questo ci farà bene a tutti. Sempre. Ogni pena dev’essere aperta all’orizzonte della speranza” (29 marzo 2018 – Papa Francesco al termine della Visita alla casa circondariale di Regina Coeli per la Messa in Coena Domini – Pag. 175).

Leggendo voracemente il libro sono così riecheggiati alla mia memoria gli studi in scienze criminologiche in relazione alla mediazione penale e alla giustizia riparativa come una nuova sfida per la risoluzione dei conflitti.

Ho intravisto nella lettera di Domenico Pace, il killer di Rosario Livatino, indirizzata a Papa Francesco con la quale chiede di poter testimoniare nel processo di beatificazione del “giudice ragazzino”, la luce della speranza e del dialogo perché credo fermamente che sia il silenzio il deserto dell’incomprensione.

Il filo diretto che lega queste sette storie di uomini è l’incontro con il dialogo e con la parola; tutti sentono l’esigenza di dare voce al sentimento intimo che li ha spinti: il libro rende questa intima voce un grido al mondo.

E’ la parola che rompe il silenzio.

E’ lo sguardo tra le vittime e il reo a rompere quel terribile silenzio dell’anima.

La parola non detta lascia in aria il vuoto, è difetto di vita, non fa nessun nodo […] La parola dà un viso anche a chi non l’ha, fa nascere il fiordaliso, appena fa estate. Il silenzio che tace è solo un deserto, senz’albero, né case, solo di morte esperto” (Biagio Marin, 1968). 

La giustizia riparativa può essere definita come un paradigma di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione delle parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo.

La sfida che la giustizia riparativa lancia, alle soglie del XXI secolo, è quella di cercare di superare la logica del “castigo” muovendo da una lettura relazionale del fenomeno criminoso, inteso primariamente come un conflitto che provoca la rottura di aspettative sociali simbolicamente condivise.

Alla luce di tale nuovo modello di giustizia il reato non dovrebbe più essere considerato soltanto un illecito commesso contro la società, o come un comportamento che incrina l’ordine costituito, e che richiede una pena da espiare, bensì come una condotta intrinsicamente dannosa ed offensiva, che può provocare alle vittime privazioni, sofferenze, dolore e persino la morte, e che richiede da parte del reo, principalmente l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato, laddove possibile.

La mediazione penale rappresenta lo strumento privilegiato con cui attuare principi e politiche di questo nuovo modello di giustizia.

Dalla mediazione solitamente ci si attendono tre effetti: la responsabilizzazione dell’autore di reato, la soddisfazione della vittima e la deflazione giudiziaria. (Cfr. CERETTI A., Giustizia riparativa e mediazione penale; PAVONE A., La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, in Rivista di Teorie e Scienze criminali).

Gli interventi di mediazione nella letteratura criminologica vengono inquadrati nel modello restaurativo-riparativo che contempla come oggetto il danno, il reato come espressione del conflitto e l’azione intesa come finalità riparativa attraverso le figure di mediatori nel quadro di un contesto responsabilizzante.

Con l’entrata in vigore della Costituzione l’idea di rieducazione diventa principio costituzionale: l’esecuzione della pena detentiva deve essere organizzata in modo tale da non rappresentare nelle sue modalità un più grande castigo di quello che già si realizza per effetto della privazione della libertà e da consentire tutti quei trattamenti che appaiono più idonei al recupero sociale del condannato.

L’art. 27 comma 3 Cost. fissa il principio di umanizzazione della pena:

le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, la pena è proporzionata al reato e le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Verso la fine degli anni Cinquanta le strategie di controllo penale e le politiche penitenziarie si risolvono in una scelta di fondo repressiva: il carcere viene concepito come un contenitore di condotte devianti e su tale quadro fanno fatica ad entrare nel dibattito sulle pene e sul carcere gli orientamenti che si andavano formando a livello internazionale (Congresso internazionale di diritto penale dell’Aja; Congresso di Roma nel 1953; Congresso di Anversa nel 1954; Congresso di Ginevra nel 1955; Congresso di Milano nel 1956 dove si auspica un sistema penitenziario funzionalizzato alla prevenzione dei delitti).

Sarà così necessario aspettare le pronunce della Corte Cost. del 1974 e soprattutto l’ordinamento penitenziario del 1975 per chiarire il significato e la portata del principio rieducativo, in quanto fino ad allora la prospettiva di una umanizzazione della pena ed il fine rieducativo a cui essa deve tendere si limitarono ad una più attenta considerazione delle condizioni materiali dei detenuti e delle loro sofferenze.

Ma cos’è la mediazione penale?

La mediazione è un percorso relazione tra due o più persone per la risoluzione di conflitti che si caratterizzano per la natura sociale, culturale e penale.

Nel campo penale il conflitto si configura come reato.

Per giustizia riparativa si intende il “procedimento nel quale la vittima e il reo, e se appropriato, ogni altro individuo o membri della comunità lesi da un reato, partecipano insieme alla risoluzione delle questioni sorte dall’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un facilitatore” (Cfr. Circolare n. 3601/6051 Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria).

La mediazione presume un intervento diretto, personale e consensuale sia del reo sia della vittima e rappresenta la specie che meglio consente alle parti di svolgere un percorso di riconoscimento reciproco e di ricostruzione della relazione interrotta dal reato.

Direi che questo libro offre un importante tassello per la costruzione di un dialogo tra vittima, od eredi della vittima, e reo: il conflitto è una vicenda umana che può dar luogo ad esperienze laceranti e di solitudine e le questioni che pone toccano la vicenda sociale nella sua interezza in quanto non sono questioni che riguardano “qualcuno”, ma sono questioni di “ciascuno”, espressive di disagio, inquietudine e sofferenza (Cfr. NICOSIA, La mediazione sociale come prevenzione al degenerare dei conflitti e risposta alla domanda di sicurezza).

L’obiettivo diventa quindi l’accoglienza dei contendenti tesi a favorire il tentativo di riprendere il dialogo interrotto o a crearne uno nuovo.

Nel libro ha trovato quindi dignità propria quell’accoglienza, quella speranza e quel sentimento di umano bisogno che si legge spesso negli occhi degli uomini che non vedono più futuro: ed è a seguito delle parole di Mauro Franzese, capo di un clan che prendeva il suo nome, che alle pagg. 66 e 67 emerge tutta la sofferenza che sta da una parte e dall’altra:

Uccidere, da una parte, e morire, dall’altra, è qualcosa di irreversibile: non se ne esce, o almeno non pare umanamente possibile. Anche se su versanti diametralmente opposti, la questione del perdono riguarda sia le vittime sia i carnefici: non nel senso di costringere gli uni ad entrare in rapporto con gli altri, quanto nel dovere fare i conti ciascuno con la propria inconsolabile pena”.

La mediazione penale rappresenta quindi una forma di pensiero, un modo più coinvolgente di concepire la giustizia, un moto dinamico ed in divenire che snoda il conflitto con al centro la persona e la sua immensa umanità, intesa non come detenuto ma come soggetto capace di dialogare e rompere il silenzio disarmante della solitudine.

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Ringrazio di cuore gli autori del libro “La speranza oltre le sbarre”, Maurizio Gronchi e Angela Trentini che abbraccio calorosamente, per avermi dato l’opportunità di una riflessione che ha reso il viaggio nel carcere di massima sicurezza un cammino esistenziale.

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