Compatibilitā con l'ordine pubblico della delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullitā riconducibili alla simulazione.

La convenienza giuridica del recepimento e dell'efficacia nell'ordinamento civile della dichiarazione di nullitā adottata in sede ecclesiastica.



Nota a Cass. civ., sez. I, n. 7923 del 20 aprile 2020, n. 7923 a cura dell'Avv. Salvatore Braghini

Di recente la Suprema Corte si è pronunciata ancora una volta sulla vexata quaestio relativa alla delibabilità di una sentenza del Tribunale ecclesiastico, ossia sulla convenienza giuridica del recepimento e dell'efficacia nell'ordinamento civile della dichiarazione di nullità adottata in sede ecclesiastica, riconoscendo la correttezza della Corte territoriale che ha accordato la delibazione pur in presenza di un matrimonio protrattosi oltre 3 anni.

Diciamo subito che la Cassazione non è tornata sui propri passi rispetto alla pronuncia delle Sezioni Unite del luglio 2014 (sentenza n. 16379), allorché risolse un contrasto giurisprudenziale che si era formato in seno alla prima sezione in merito alla possibilità di riconoscere come efficace la sentenza di nullità del matrimonio canonico nonostante la lunga durata di esso e quindi il lungo decorso di tempo dal momento in cui ha avuto luogo la causa invalidante. Le Sezioni unite avevano stabilito che la convivenza coniugale protrattasi per almeno tre anni, munita dei caratteri della riconoscibilità dall'esterno e della stabilità, costituisce un limite di ordine pubblico italiano, richiamandosi alla legge n. 184 del 1983, art. 6 commi 1 e 4 sull’adozione al fine di ancorare i concetti di stabilità e continuità della convivenza.

Orbene, se di un revirement non si tratta, che cosa si può cogliere nella sentenza in commento, Cassazione civile, sez. I, sentenza 20 aprile 2020, n. 7923.

La sentenza, a leggerla con attenzione, mostra che il principio del contrasto all'ordine pubblico non possa ravvisarsi allorquando non sia soltanto una parte a subire gli effetti della nullità ma le cause di invalidità siano presenti nella volontà di entrambi i coniugi. In questo caso, infatti, la situazione fattuale della convivenza, pur protrattasi per più di tre anni (matrimonio-fatto), limite spartiacque individuato dalla sentenza del luglio 2014 delle Sezioni Unite, non si impone sull'invalidità del matrimonio-atto, restando irrimediabilmente intaccato, e l'uno e l'altro (ossia il matrimonio atto e il matrimonio-fatto), dall'atteggiamento (a diverso titolo) determinante l’invalidità del matrimonio, come rilevato e accertato in entrambi i coniugi. In altre parole, la causa di nullità rilevata si atteggia in modo non dissimile dalla "simulazione" prevista dall'art. 123 c.c., norma presupponente che entrambi i coniugi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti.

Nella vicenda esaminata dalla Corte di legittimità, invero, oltre al "grave difetto di discrezione" della moglie, anche il marito aveva manifestato dubbi in ordine "all'indissolubilità" del vincolo coniugale.

La nullità del matrimonio, dunque, era stata accusata sia in base al can. 1095, nn. 2 e 3 del codice di diritto canonico: «Sono incapaci di contrarre matrimonio: […] 2° coloro che difettano gravemente di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente; 3° coloro che per cause di natura psichica, non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio», sia in base al can. 1101 § 2, ai sensi del quale «se una o entrambi le parti escludono con positivo atto di volontà il matrimonio stesso oppure un suo elemento essenziale o una sua proprietà essenziale, contraggono invalidamente», con specifico riferimento all’esclusione del cosiddetto “bonum coniugum” (bene dei coniugi).

Trattasi di due categorie di "vizi" che incidono negativamente sulla libertà interna (rectius interiore) e che insistono, uno sulla donna (la discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali e l'incapacità di adempiere gli oneri coniugali, can. 1095, nn. 2 e 3) e l'altro sull'uomo (l'esclusione dell'indissolubilità, can. 1101 § 2).

Assumendo la sentenza ecclesiastica la sussistenza di tali difetti suscettivi di invalidare la manifestazione di volontà espressa da entrambi i coniugi (incapacità per l'una e simulazione per l'altro), la Corte territoriale, a giudizio degli Ermellini, ha correttamente delibato la sentenza, escludendo doversi tutelare, in ragione della contestualità dei vizi invalidanti la volontà di entrambi i coniugi, l'affidamento in buona fede di uno dei coniugi rispetto all'altro, pur avendo essi convissuto per molti anni dopo le nozze.

Per la Procura, invece, la sentenza della Corte d'appello violerebbe il limite dell'ordine pubblico interno e internazionale, con riferimento al diritto fondamentale di vivere liberamente la vita sessuale e affettiva, sancito dalla Costituzione, dalla CEDU e dalla Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché con riferimento al principio di non discriminazione, atteso che la convivenza tra coniugi, pacificamente di durata ultra-triennale, e la nascita di tre figli appaiono come circostanze univocamente indicative di una stabile situazione familiare di fatto (da cui la prevalenza del matrimonio-fatto sul matrimonio-atto).

Per il Sostituto Procuratore che ha proposto ricorso per Cassazione, anzi, il procedimento delibativo avallerebbe una pronuncia con i connotati "discriminatori", a motivo della decisività accordata dal Tribunale ecclesiastico all'omosessualità della moglie, con gravi ripercussioni sulla violazione dell'ordine pubblico nazionale e sovranazionale.

Invero, nell'ottica canonistica, l'omosessualità non è irrilevante rispetto alla discrezione di giudizio circa  i diritti e i doveri matrimoniali essenziali (come si esprime il can. 1095, 2). Tutt'altro. Ciò in quanto la predetta discrezione consiste nella capacità di compiere un processo psichico mediante il quale, supposta una conoscenza sufficiente, l’intelletto delibera a riguardo degli oneri essenziali da assumere e da adempiere nel caso in relazione al proprio concreto futuro, impegnandovi le proprie capacità in modo tale che, una volta il matrimonio sia stato liberamente scelto dalla volontà, chi si appresta a celebrare il proprio matrimonio sia in grado di obbligare se stesso a riguardo di detti oneri.

D'altro canto, se è pur vero che in una visione medica e antropologica di impostazione a-cristiana, l'omosessualità può apparire come una variante dell'orientamento sessuale, addirittura in tutto e per tutto equiparato a quello eterosessuale, è altrettanto vero che nello scrutinio sulla validità del matrimonio secondo la visione canonica del matrimonio ciò che rileva non è l'orientamento sessuale in se stesso bensì il suo essere la causa psichica che determina l’ incapacità del soggetto, rendendolo, appunto, incapace a prestare il consenso e a realizzare una vera comunità di vita e di amore.  Poco c'entra, dunque, nella fattispecie esaminata dalla Corte territoriale che ha delibato la sentenza, la problematica della presunta "discriminazione" relativa all'orientamento sessuale; l'unico aspetto suscettivo di apportare una "discriminazione" nel campo dei Giudici ecclesiastici è il dettato del can. 1095 n. 3, chiamato ad accertare la sussistenza di una o più cause psichiche che compromettano la capacità del soggetto. Ed è giurisprudenza costante che, sebbene la causa di natura psichica non debba essere necessariamente una patologia, si debba comunque trattare di una seria forma di anomalia riferita all’universo psichico della persona, quale appunto, incontrovertibilmente lo è una forma di sessualità che si rivolge a soggetti dello stesso genere.

Ad ogni buon conto, la sentenza in commento prescinde da tale aspetto, in quanto esclude che possa incidere in modo autonomo sulla procedura di delibazione la causa dell'omosessualità. Infatti, nella sentenza impugnata si afferma che la domanda di nullità del matrimonio è stata accolta dal Tribunale ecclesiastico per "esclusione dell'indissolubilità da parte dell'attore" oltre che "grave difetto di discrezione di giudizio della convenuta circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente" e per "incapacità della convenuta ad assumere gli obblighi essenziali del matrimonio per cause di natura psichica".

Orbene, l'esclusione del bonum coniugum è ascrivibile al caso della simulazione parziale. Come ricordano i cann. 1057 §1 e 1101 §1 del codice di diritto canonico, ciò che costituisce in essere il matrimonio è il consenso delle parti legittimamente manifestato; ovviamente si presume che il consenso manifestato esteriormente con le parole e i segni usati nella celebrazione corrisponda alla reale volontà interiore degli sposi in quel momento. Ma è possibile che, in casi particolari e per le motivazioni che devono di volta in volta essere messe in luce, la volontà interna di uno degli sposi non corrisponda pienamente o per nulla a quanto manifestato dalle sue parole, perché in realtà esclude qualcuno degli elementi o proprietà che la Chiesa insegna essere propri del matrimonio stesso.

In tali casi il matrimonio risulta essere nullo, perché, al di là delle apparenze, uno degli sposi non ha voluto veramente ciò che il matrimonio è in se stesso, secondo la volontà di Dio Creatore; si parla in tal caso di “simulazione parziale” del consenso matrimoniale, in quanto il consenso espresso almeno in parte non corrisponde all’effettiva intenzione del contraente.

Dunque, nella sentenza delibata dalla Corte territoriale erano presenti due categorie di vizi, una per parte: nell'uomo era stata ravvisata l'esclusione dell'indissolubilità (simulazione parziale) e nella donna il vizio dell'incapacità sotto la duplice specie dei nn. 2 e 3 del canone 1095.

Ne consegue, giustamente, secondo la Corte di legittimità, che la condizione soggettiva della moglie non è stata affatto l'unica ragione fondante la decisione del Giudice ecclesiastico, come erroneamente affermato nel ricorso.

Poiché il vizio di nullità del matrimonio è dipeso dalle condotte di entrambi i coniugi, in base a quanto accertato nella sentenza impugnata, non rivestono rilevanza alcuna, nella specie, il principio di non discriminazione o il diritto di vivere liberamente la vita sessuale ed affettiva nel senso prospettato dalla Procura.

Di qui il giudizio di correttezza della decisione della Corte territoriale, secondo cui la sentenza ecclesiastica non si pone in contrasto con i principi dell'ordine pubblico italiano, in quanto la causa di nullità ritenuta sussistente è riconducibile all'ipotesi della "simulazione" di cui all'art. 123 del codice civile.

 

Fai una domanda