DIRITTO CIVILE. Per il Ā«Negotium mixtum cum donationeĀ» la forma č quella prescritta per lo schema negoziale adottato dalle parti. Cass. civ. 17 novembre 2010 n. 23215.
Nota di Nunzia Liberatoscioli. Avvocato - Foro di Chieti.
Al fine di ottenere il risarcimento di danni accertati sulla base di sentenze passate in giudicato, il debitore veniva convenuto in giudizio a causa della redazione di un (presunto) atto simulato, con il quale quest’ultimo, alcuni giorni dopo la condanna al risarcimento dei danni in favore degli attori, aveva venduto l’unico bene immobile di sua proprietà alla moglie, dietro il pagamento di un prezzo di molto inferiore rispetto al suo valore effettivo. Di conseguenza, i creditori avevano chiesto al giudice di dichiarare la nullità e l’inefficacia dell’atto di vendita e, in via subordinata, nell’ipotesi in cui si fosse trattato di un atto di donazione dissimulato sotto forma di atto a titolo oneroso, di dichiarare la nullità e l’inefficacia dello stesso per mancanza delle forme prescritte, appunto, a pena di nullità, dall’art. 782, c.c.
Il giudice di prime cure aveva rigettato la domanda attorea, considerando l’atto impugnato come negotium mixtum cum donatione; invece, impugnata la sentenza dinanzi alla Corte di Appello, era stata dichiarata la nullità dell’atto di compravendita, poiché, trattandosi di un contratto misto, la donazione aveva avuto un fine prevalente rispetto al corrispettivo, per cui avrebbe dovuto essere concluso per atto pubblico, ai sensi dell’
art. 782, c.c.
Giunta la controversia in Cassazione, la Suprema Corte non ha perso l’occasione di fare chiarezza sull’istituto del negotium mixtum cum donatione e sul requisito di forma al quale lo stesso è soggetto, mediante indicazioni puntuali che giova richiamare alla mente, anche utilizzando le espressioni proprie dei giudici di legittimità.
In particolare, aderendo alla costante giurisprudenza sul tema (Cass. 29 ottobre 1975, n. 3661; Cass. 28 novembre 1988, n. 6411; Cass. 10 febbraio 1997, n. 1214; Cass. 29 marzo 2001, n. 4623; Cass. 7 giugno 2006, n. 13337; Cass., Sez. Un., 12 giugno 2006, n. 13524; Cass. 2 settembre 2009, n. 19099), i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato, innanzitutto, che il negotium mixtum cum donatione è riconducibile «al c.d. negozio indiretto, la cui principale caratteristica risiede nella utilizzazione di un negozio tipico in vista della realizzazione di uno scopo ulteriore o diverso rispetto a quello del negozio realmente posto in essere».
Per di più, richiamando l’orientamento della dottrina prevalente, gli Ermellini hanno ribadito che «il negotium mixtum cum donatione si qualifica come un contratto mediante il quale le parti volutamente stabiliscono un corrispettivo di gran lunga inferiore a quello che sarebbe dovuto, con l’intento di arricchire la parte acquirente per quella parte eccedente il corrispettivo pattuito: in tal senso, ci si trova in presenza di una situazione giuridica particolare, connotata dal fatto che le parti adottano lo schema tipico di un contratto oneroso con l’ulteriore intento di far conseguire ad una di esse un arricchimento a titolo gratuito, in modo tale da piegare la causa tipica del contratto stipulato alla realizzazione di una finalità di liberalità».
Ebbene, proprio in base alle peculiarità dell’istituto in esame, gli Ermellini hanno precisato che la forma a cui assoggettare il contratto è quella propria del negozio adottato, per cui, trattandosi di negozio indiretto, il negotium mixtum cum donatione non deve necessariamente essere redatto secondo le modalità previste per la donazione diretta (ovvero, mediante atto pubblico).
A sostegno della tesi sposata dalla Corte di Cassazione, quest’ultima ha richiamato, infine, anche un dato normativo: l’art. 809, c.c., relativo alle donazioni indirette, «nell’individuare quali norme (c.d. materiali) sulle donazioni si applicano agli atti di liberalità diversi dallo schema negoziale tipico di cui all’
art. 769, c.c., non richiama l’
art. 782, c.c., che prescrive la specifica forma solenne dell’atto pubblico».
Di conseguenza, in accoglimento della tesi sostenuta dal debitore, la sentenza impugnata viene cassata e rinviata ad altra sezione della medesima Corte di Appello, la quale è chiamata ad uniformarsi al seguente principio di diritto: «nel negotium mixtum cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell'arricchimento, per puro spinto di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore realizzandosi così una donazione indiretta; conseguentemente, per la validità di tale negotium, non è necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, sia perchè l'
art. 809 c.c., nel sancire l'applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall'art. 769 c.c., non richiama l'art. 782 c.c., che prescrive la forma dell'atto pubblico per la donazione, sia perchè, essendo la norma appena richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l'intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse».
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Cass. civ. Sez. II, Sent., 17 novembre 2010, n. 23215
Motivi della decisione.
Il ricorso principale e quello incidentale condizionato devono, preliminarmente, essere riuniti perché relativi ad impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).
1. Con il primo motivo la ricorrente principale S.L. denuncia - in ordine all'art. 360 c.p.c., n. 3, -
violazione e falsa applicazione degli artt, 99, 112 e 183 c.p.c., nonchè artt. 1418 e 1421 c.c., assumendo che la Corte di appello di Genova, nel dichiarare la nullità dell'atto di compravendita per notar L. del 15 novembre 1992 (rep. 33658), stipulato tra la stessa e il coniuge L.M.G., aveva rilevato una causa di nullità dell'atto medesimo per causa diversa da quella prospettata dagli attori appellanti, i quali, in entrambi i gradi del giudizio di merito, avevano, in effetti, proposto domanda giudiziale di accertamento della natura simulata del suddetto atto, con sua conseguente dichiarazione di nullità, così incorrendo, con la sentenza impugnata, nel vizio di ultrapetizione.
1.2. Con il secondo motivo la difesa della predetta ricorrente censura la sentenza oggetto di ricorso in sede di legittimità deducendo, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 769, 770, 782, 809 e 1350 c.c., nonchè - avuto riguardo all'art. 360 c.p.c., n. 5, - l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in merito ad un punto decisivo della controversia. In particolare, la S. prospetta, al riguardo, che, sul presupposto che tanto il giudice di primo grado che quello di appello avevano accertato (e, dunque, condiviso) che, nella fattispecie sottoposta al loro esame, il suddetto atto di compravendita fosse da ricomprendersi nello schema giuridico del "negotium mixtum cum donatione", si doveva ritenere che aveva errato il giudice di appello nel farne conseguire l'applicabilità, quanto alla forma, della disciplina del negozio prevalente e non, invece, - come da ritenersi normativamente imposto - quella del negozio con il quale si era realizzata indirettamente la liberalità. 1.3. Con il terzo motivo - ricondotto all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, - la stessa ricorrente principale denuncia, in via meramente subordinata e per la sola denegata ipotesi di mancato accoglimento di almeno uno dei due precedenti motivi, la violazione del diritto alla difesa in termini di errata e/o falsa applicazione degli artt. 345, 346 e 189 c.p.c., nonchè, al riguardo, l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto della controversia prospettato dalle parti. In proposito, la difesa della S. deduce l'erroneità e l'illogicità dell'impugnata sentenza nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto di dover respingere le istanze istruttorie formulate da essa appellata, sull'infondato presupposto che le prove orali allegate nel suo interesse non era state reiterate in sede di precisazione delle conclusioni del primo grado di giudizio, con conseguente decadenza, nel mentre le relative istanze si sarebbero dovute intendere richiamate "per relationem" con il riferimento, compiuto all'udienza del 9 febbraio 2001, alle conclusioni di cui alla comparsa di costituzione e di risposta, comprensive, appunto, delle richieste probatorie.
2. Con il primo motivo del ricorso incidentale condizionato i sigg. Si.Ma., Po.Lu. e P.L. deducono, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1414, 1417 e 2729 c.c., nonchè la violazione dell'art. 116 c.p.c. per assunta erroneità della valutazione degli elementi probatori (documentali e presuntivi) acquisiti al processo, oltre all'omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, dolendosi, per il caso di accoglimento del ricorso principale, della sentenza impugnata con la quale non erano state apprezzate nè valutate le loro argomentazioni volte a censurare la pronuncia del Tribunale di Savona che aveva rigettato entrambe le domande, principale di nullità per simulazione assoluta e subordinata di nullità per simulazione relativa, proposte da essi quali originari attori, omettendo, conseguentemente, la pronuncia su punti decisivi della controversia.
2.1. Con il secondo motivo del ricorso incidentale condizionato i sigg. Si.Ma., Po.Lu. e P.L. censurano la sentenza impugnata, sempre con riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per supposta violazione e falsa applicazione dell'art. 1414 c.c.. Prelazione all'art. 782 c.c., dell'art. 1417 c.c. in relazione all'art. 2729 c.c, nonchè violazione dell'art. 116 c.p.c. per ritenuta erronea valutazione degli elementi probatori (documentali e presuntivi) acquisiti al processo, unitamente all'omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. In proposito i ricorrenti incidentali prospettano la carenza dell'impugnata sentenza poichè, così come per la domanda principale intesa ad ottenere la dichiarazione della nullità del suddetto atto di compravendita per simulazione assoluta, aveva omesso di pronunciarsi sulla domanda subordinata di simulazione relativa, senza valutare l'idoneità degli elementi probatori acquisiti al riguardo e senza considerare che la divergenza tra il prezzo dichiarato nel contratto e il valore effettivo (per come accertato con la c.t.u.) dell'immobile oggetto della compravendita potesse costituire prova della dedotta simulazione.
3. Il primo motivo del ricorso principale è infondato.
Sul piano generale si osserva che il potere-dovere del giudice di qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire il "nomen iuris" al rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, anche in difformità rispetto alle deduzioni delle parti, trova un limite - la cui sola violazione determina il vizio di ultrapetizione - nel divieto di sostituire l'azione proposta con una diversa, perchè fondata su fatti diversi o su una diversa "causa petendi", con la conseguente introduzione di un diverso titolo accanto a quello posto a fondamento della domanda, e di un nuovo tema di indagine.
Orbene, nella controversia dedotta in giudizio, per come desumibile anche dalle stesse conclusioni finali riportate nella sentenza di appello impugnata, i sigg. Si.Ma., P.L. e Po.Lu., così come nella domanda introduttiva del giudizio di primo grado, oltre a richiedere in via principale la dichiarazione della nullità e dell'inefficacia del rogito per notar Lepri del 5 novembre 1992 (rep. n. 33658) nei loro confronti per simulazione assoluta di tale atto, avevano domandato, anche in appello, in via subordinata, per l'eventualità di ritenuta sussistenza di un atto di donazione dissimulato sotto la forma dell'atto a titolo oneroso, la declaratoria di nullità ed inefficacia dell'atto medesimo nei loro riguardi per difetto delle forme previste a pena di nullità dall'art. 782 c.c.. Pertanto, sulla scorta dei "petita" complessivamente dedotti, e, in special modo, della domanda avanzata in linea subordinata, non può affermarsi che il giudice di appello sia incorso nel prospettato vizio di ultrapetizione, non avendo posto a fondamento della pronuncia una diversa "causa petendi" rispetto a quella rappresentata dagli appellanti, limitandosi, sul piano della qualificazione giuridica, a ritenere la sussistenza di un contratto misto, con riferimento al quale, considerando la prevalenza dell'"animus donandi", si sarebbe dovuta ravvisare l'applicabilità della
forma solenne impostadall'art. 782 c.c. (come invocata dai medesimi appellanti), così pervenendo, in effetti, alla dichiarazione di nullità ed inefficacia dell'atto stesso. In tal senso, dunque, deve rilevarsi che il giudice di appello ha esercitato legittimamente il potere-dovere di qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un "nomen juris" diverso da quello indicato dalle parti, non procedendo, tuttavia, a sostituire la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio tra le parti (cfr., per tutte, Cass. 17 luglio 2007, n. 15925).
4. Il secondo motivo del ricorso principale è, invece, fondato.
Nella ricostruzione in fatto della vicenda dedotta in controversia la Corte di appello di Genova ha
rilevato che, sulla scorta delle acquisizioni documentali intervenute nel giudizio di primo grado, era
rimasto accertato che anteriormente alla stipula (in data 5 novembre 1992) dell'atto di compravendita impugnato dai sigg. Si. M., P.L. e Po.Lu., era stato alienato (per L. 155.000.000) un bene in comproprietà tra i coniugi S.L. e L.M.G., il cui prezzo ricavato era stato, poi, utilizzato per pagare un debito dello stesso L.M. (nella misura di L. 127.500.000), con la conseguenza che la S. era rimasta creditrice, nei confronti del coniuge, con il quale era in regime di separazione di beni, di una somma pari alla differenza tra quanto corrisposto dallo stesso coniuge in adempimento del suo pregresso debito e la metà dell'importo ricavato dalla vendita del bene in comproprietà, per un importo risultante ammontare a L. 50.000.000.
Successivamente, la S. era divenuta acquirente, con il suddetto atto per notar Lepri del 5 novembre
1992, per il prezzo dichiarato di L. 68.000.000 già corrisposto, di un immobile il cui valore, al momento dell'intervento del rogito, era stato determinato, mediante apposita c.t.u., in L. 222.500.000, con la conseguenza che, in virtù dell'apparenza documentale e della logica ricostruzione dei fatti, poteva ritenersi fornita la prova dell'avvenuto pagamento, a titolo di parziale compensazione di un credito precedente, di L. 50.000.000 in relazione all'acquisto di un bene del superiore valore di L. 222.5000.000, con l'effetto, quindi, che, per il residuo valore, il trasferimento immobiliare oggetto del contendere si sarebbe dovuto ritenere avvenuto a titolo di liberalità in favore della S.
A fronte di tale ricostruzione, la Corte territoriale ha ritenuto che, nella specie, ricorresse una figura di contratto misto, caratterizzato da un concorso di motivi in parte di natura onerosa e in parte gratuita, la cui regolamentazione soggiaceva al criterio della prevalenza, ragion per cui, essendo predominante nel caso esaminato l'"animus donandi", l'atto avrebbe dovuto essere concluso nella forma pubblica propriamente prevista dall'art. 782 c.c., con derivante sua nullità ed inefficacia nei riguardi degli appellanti.
Così decidendo la Corte di appello genovese è, però, incorsa nell'errore di procedere ad una impropria qualificazione della fattispecie rappresentata dal "negotium mixtum cum donatione" che, per giurisprudenza ormai pressochè costante di questa Corte (Cass. 29 ottobre 1975, n. 3661; Cass. 28 novembre 1988, n. 6411; Cass. 10 febbraio 1997, n. 1214; Cass. 29 marzo 2001, n. 4623; Cass. 7 giugno 2006, n. 13337; Cass., Sez, un., 12 giugno 2006, n. 13524, in motivazione; Cass. 2 settembre 2009, n. 19099), a cui il collegio aderisce, non è riconducibile alla figura del contratto misto (ovvero di un contratto innominato ottenuto combinando due schemi negoziali tipici, a cui si applica la disciplina normativa del negozio prevalente), quanto, invece, al cd. negozio indiretto, la cui principale caratteristica risiede nella utilizzazione di un negozio tipico in vista della realizzazione di uno scopo ulteriore o diverso rispetto a quello del negozio realmente posto in essere. In effetti, il "negotium mixtum cum donatione" (come ritenuto anche dalla prevalente dottrina) si qualifica come un contratto mediante il quale le parti volutamele stabiliscono un corrispettivo di gran lunga inferiore a quello che sarebbe dovuto (circostanza questa univocamente emergente nel caso di specie, in cui il valore effettivo dell'immobile compravenduto era di L. 225.000.000, al cospetto di un prezzo effettivamente pagato di L. 68.000.000), con l'intento (desumibile, nella fattispecie esaminata, anche dalla stessa notevole entità della sproporzione tra il valore reale del bene e la misura del debito da adempiere in favore della S. da parte del L. M.) di arricchire (con l'atto concluso in data 5 novembre 1992, di poco successivo alla sentenza di condanna del Tribunale di Savona del 22 ottobre 1992, poi passata in giudicato) la parte acquirente per quella parte eccedente il corrispettivo pattuito: in tal senso, ci si trova in presenza di una situazione giuridica particolare, connotata dal fatto che le parti adottano lo schema tipico di un contratto oneroso con l'ulteriore intento di far conseguire ad una di esse un arricchimento a titolo gratuito, in modo tale da piegare la causa tipica del contratto stipulato alla realizzazione di una finalità di liberalità. Da tale premessa discende che la forma contrattuale è quella propria del negozio adottato, sia perchè il negozio indiretto costituisce un'espressione dell'autonomia privata sia perchè la congruità di tale soluzione trova conferma, con riguardo alle donazioni indirette, nel dato normativo contenuto nell'art. 809 c.c., il quale, nell'individuare quali norme (cc.dd. materiali) sulle donazioni si applicano agli atti di liberalità diversi dallo schema negoziale tipico di cui all'art. 769 c.c., non richiama l'art. 782 c.c., che prescrive la specifica forma solenne dell'atto pubblico. D'altro canto, è stato, in proposito, evidenziato (v. la cit. Cass. 10 febbraio 1997, n. 1214, e, da ultimo, Cass. 3 novembre 2009, n. 23297) che l'estensione delle norme sulla forma della donazione, dettate a tutela del donante (e non dei terzi) a quei negozi che perseguono l'intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità di altro genere, rappresenterebbe un sacrificio troppo radicale dell'autonomia privata, alla quale si deve ricondurre il potere delle parti di avvalersi delle figure negoziali per perseguire finalità lecite e, come tali, idonee a trovare nell'ordinamento il loro riconoscimento.
Pertanto, poichè il "negotium mixtum cum donatione" non deve rivestire la forma prescritta per la
donazione diretta ma quella propria dello schema negoziale effettivamente adottato, la sentenza
impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Genova.
5. Rimane assorbito il terzo motivo (come precedentemente esposto) del ricorso principale siccome
proposto in via meramente subordinata, ovvero con la richiesta di suo esame nella sola ipotesi di rigetto degli altri motivi avanzati, eventualità, invero, non verificatasi nell'ipotesi in questione, essendosi pervenuto come sottolineato all'accoglimento del secondo motivo.
6. Anche i due motivi proposti dai controricorrenti in forma di ricorso incidentale condizionato devono ritenersi assorbiti poichè le formulate doglianze (per come già indicate) sono state ricondotte, sul presupposto di un mancato soddisfacimento totale della soluzione adottata con la sentenza di appello, ad una erronea valutazione degli elementi probatori processuali in funzione del possibile (ed auspicato) accoglimento di almeno una delle due domande dagli stessi proposte nei gradi precedenti, che implica un riesame del merito della controversia che non può che essere devoluto al giudice di rinvio, senza, peraltro, trascurare l'applicabilità del principio generale in base al quale la parte che sia risultata vittoriosa nel giudizio di appello non ha l'onere di riproporre le domande e le eccezioni non accolte o non esaminate dal giudice di appello, poichè l'eventuale accoglimento del ricorso principale (ipotesi verificatasi nel caso di specie) comporta la possibilità che dette domande o eccezioni vengano riesaminate in sede di giudizio di rinvio (Cass. 10 dicembre 2009, n. 25821).
7. Si è dato conto precedentemente che, nella presente fase, la ricorrente principale ha proposto anche controricorso al ricorso incidentale nelle forme e nei termini stabiliti dall'art. 371 c.p.c., comma 4, con il quale si è limitata solo a confutare i motivi del ricorso incidentale, senza rappresentare questioni nuove o dedurre nuovi mezzi di impugnazione, ragion per cui tale forma di ulteriore difesa è stata svolta, nel caso di specie, in modo legittimo (v. Cass. Sez. un., 6 febbraio 1971, n. 311, e Cass. 23 giugno 1998, n. 6233). L'esplicazione di tale ulteriore attività difensiva non determina, proprio in virtù della sua indicata delimitata funzione, l'insorgenza di un obbligo in capo a questa Corte di adottare statuizioni in merito al suddetto controricorso (che, invece, avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile qualora fosse stato svolto, a sua volta, come ulteriore ricorso incidentale, derivando, diversamente, la possibilità di una serie indeterminata di ricorsi incidentali tardivi, in contrasto con il principio per il quale l'impugnazione incidentale è proponibile solo dalle parti contro cui è stata proposta l'impugnazione principale: cfr. Cass. 1 dicembre 1999, n. 13358, e Cass. 30 marzo 2004, n. 6282).
8. In definitiva, in accoglimento del secondo motivo del ricorso principale, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Genova che provvedere anche alla disciplina delle spese del giudizio di cassazione e si atterrà - ai sensi dell'art. 384 c.p.c. - al seguente principio di diritto:
"nel negotium mixtum cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell'arricchimento, per puro spinto di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore realizzandosi così una donazione indiretta; conseguentemente, per la validità di tale negotium, non è necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, sia perchè l'art. 809 c.c., nel sancire l'applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall'art. 769 c.c., non richiama l'art. 782 c.c., che prescrive la forma dell'atto pubblico per la donazione, sia perchè, essendo la norma appena richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l'intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse".
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso principale; accoglie il secondo e, dichiarati assorbiti il terzo motivo del ricorso principale e il ricorso incidentale condizionato, cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte di appello di Genova.