La firma digitale è perfettamente equiparata alla sottoscrizione autografa.
La sentenza sottoscritta con firma digitale è nulla? No, non è nulla per difetto di sottoscrizione la sentenza sottoscritta dal giudice con firma digitale.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 22871 del 10 novembre 2015 chiarisce che la sentenza sottoscritta dal giudice con firma digitale non è nulla per difetto di sottoscrizione.
La firma digitale è dunque perfettamente equiparata alla sottoscrizione autografa.
Cass. n. 22871 del 10 novembre 2015.
IL CASO
La questione sottesa alla decisione prende le mosse da un'opposizione all'esecuzione poposta da Tizio avverso l'atto di precetto intimatogli dalla società Yper il pagamento della somma complessiva di Euro 2.065,61, oltre interessi e spese, della quale l'opponente contestava alcune voci per i diritti autoliquidati dal procuratore della creditrice.
Il Giudice di Pace aveva ritenuta fondata l'opposizione limitatamente all'importo complessivo di Euro 292,85, ed il Tribunale l'ha ridotto come sopra; ha compensato le spese del primo grado di giudizio ed ha condannato l'appellato al pagamento delle spese del secondo grado, liquidandole, in favore dell'appellante, nell'importo complessivo di Euro 1.050,00, oltre accessori.
Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per Cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione. Il ricorrente deduce inesistenza giuridica della sentenza ai sensi dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5. Secondo il ricorrente, poichè la sentenza contiene soltanto la firma digitale e non la sottoscrizione del giudice, non sarebbe possibile l'identificazione del suo autore; la normativa che ha introdotto nell'ordinamento la firma digitale non sarebbe applicabile alle sentenze, in quanto presupporrebbe uno scambio telematico di atti (che, per le sentenze, non è previsto); per di più, trattandosi di sentenza emessa ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ., non vi sarebbero nemmeno la certificazione ed il deposito in cancelleria. Il ricorrente conclude osservando che, nell'attuale sistema normativo, la sentenza recante la firma digitale sarebbe mancante di sottoscrizione ai sensi dell'art. 132 c.p.c., n. 5, e perciò sarebbe inesistente.
La Corte di Cassazione sancisce che il motivo dedotto dal ricorrente è infondato.
L'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5 prescrive che la sentenza debba contenere "la sottoscrizione del giudice" e l'art. 161 c.p.c., comma 2, stabilisce che la regola di cui al primo comma (per la quale la nullità delle sentenze appellabili e ricorribili per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti di queste impugnazioni) invece "non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice".
Notevole è l'elaborazione giurisprudenziale concernente due distinti profili interpretativi di quest'ultima disposizione.
L'uno attiene ai rimedi per ovviare al vizio della sentenza mancante di sottoscrizione; l'altro, alla natura di questo vizio.
Quanto a quest'ultimo (che qui rileva), la giurisprudenza di legittimità è nel senso che la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice costituisce un requisito essenziale della giuridica esistenza del provvedimento, la cui mancanza ne determina la nullità assoluta e insanabile (equiparabile all'inesistenza giuridica), rilevabile anche d'ufficio e anche in esito al giudizio di cassazione (così, tra le altre, Cass. n. 15424/00, n. 11739/04, n. 21193/05, n. 21049/06, n. 12167/09, ord. n. 22705/10). Il principio è stato ridimensionato dalla recente sentenza a Sezioni Unite n. 11021/14, che, superando il contrario orientamento giurisprudenziale prevalente, ha ritenuto affetta da nullità sanabile ai sensi dell'art. 161 c.p.c., comma 1, la sentenza emessa dal giudice in composizione collegiale priva di una delle due sottoscrizioni (del presidente del collegio ovvero del relatore). In particolare, ha escluso l'equiparabilità della situazione a quella di mancanza assoluta di sottoscrizione, poichè, nel caso di sottoscrizione parziale (o insufficiente, secondo la qualificazione data dalle Sezioni Unite), non è in dubbio la provenienza della sentenza dal collegio che vi appare come organo giurisdizionale decidente. Il rigore del principio generale risulta altresì attenuato dall'interpretazione che, da tempo, questa Corte ha dato all'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5 in caso di firma illeggibile. Si trova ripetuta l'affermazione per la quale non costituisce motivo di nullità della sentenza l'illeggibilità della firma del giudice, a meno che essa non consista in un segno informe privo di qualsiasi identità, al punto da risolversi in una vera e propria mancanza di sottoscrizione (così già Cass. n. 2040/78, n. 6292/83), cui si aggiunge che l'illeggibilità del tratto grafico non è equiparabile al difetto di sottoscrizione, se il nome ed il cognome del giudice siano ricavabili da altre parti del documento (così Cass. n. 5635/90; cfr., nello stesso senso, anche Cass. n. 7634/94, n. 943/95).
Entrambe le affermazioni vengono a specificarsi nel seguente principio di diritto: "la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice, costituente requisito della sua esistenza giuridica a norma dell'art. 161 c.p.c., comma 2, deve essere costituita da un segno grafico che abbia caratteristiche di specificità sufficienti e possa quindi svolgere funzioni identitarie e di riferibilità soggettiva, pur nella sua eventuale illeggibilità (la quale non inficia la idoneità della sottoscrizione se sussistono adeguati elementi per il collegamento del segno grafico con un'indicazione nominativa contenuta nell'atto)" (Cass. n. 7928/00, n. 7713/02, n. 11471/03, n. 28281/11).
Si desume da quest'ultimo indirizzo, ma anche dal revirement segnato dalle Sezioni Unite nel 2014, che la sottoscrizione della sentenza è elemento essenziale perchè la sentenza sia riconoscibile come tale e ne sia resa palese la provenienza dal giudice che l'ha deliberata. Quest'ultimo è lo scopo per il quale l'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5 prescrive il requisito della sottoscrizione.
La mancanza di sottoscrizione invalida la sentenza perchè impedisce, non tanto (e non solo) la completa formazione di un documento, quanto il perfezionamento di un atto processuale (costituito dal provvedimento del giudice qualificabile come "sentenza" ai sensi degli artt. 131 c.p.c. e segg.): il vizio sussiste quando è impossibile la riconducibilità del provvedimento che è espressione dell'attività giurisdizionale al giudice che ne è l'autore.
Per contro, non è affetta da nullità la sentenza recante un segno grafico che consenta la riconducibilità al giudice sia dell'atto del processo che, quindi, della decisione.
Non è certo questa la sede per intrattenersi sulla distinzione tra sentenza come giudizio e sentenza come provvedimento destinato a documentare o a rappresentare il giudizio.
E' sufficiente osservare, quanto al profilo formale del provvedimento, che già il codice di rito consente che il giudice non sia l'autore materiale dell'attività di scritturazione, per come si desume dalla norma (oramai desueta) dell'art. 119 disp. att. cod. proc. civ., e comunque che la scritturazione sia attività da compiersi, pur sempre per iscritto, ma anche con mezzi meccanici. Invece, l'attività di sottoscrizione è attività che il codice ascrive personalmente al giudice. I richiami giurisprudenziali di cui sopra dimostrano che lo scopo dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5 è stato ritenuto raggiunto anche in caso di sottoscrizione, in sè, non riconoscibile, nè leggibile, e nemmeno completa, purchè composta di segni che consentano di collegarla con chi risulti autore della sentenza da altri elementi contenuti nello stesso provvedimento. Nel sistema del codice, la sottoscrizione è intesa come segno grafico materialmente proveniente dal giudice.
La sottoscrizione deve essere apposta di pugno dal soggetto che si appropria, per il tramite di essa, della paternità del provvedimento e perciò è legata alla sua persona, quindi necessariamente autografa.
Occorre allora delibare, per un verso, se la firma digitale consente di individuare con certezza l'autore del provvedimento e, per altro verso, se, pur non essendo autografa, sia idonea a perfezionare l'atto processuale, cioè a determinare l'esistenza della sentenza come provvedimento del giudice. La sentenza impugnata è stata allegata al verbale dell'udienza del 23 gennaio 2013, ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ.; è stata redatta dal giudice in formato elettronico, è stata sottoscritta con firma digitale ed è stata depositata telematicamente nel fascicolo informatico. Sulla copia cartacea della sentenza (ottenuta mediante il software in dotazione agli uffici giudiziari denominato "Consolle del Magistrato") non figura alcuna firma autografa del giudice (ma sul margine destro di ciascuna delle quattro pagine di cui è composta vi sono una coccarda e la dicitura "Firmato Da:...omissis..." seguita dal cognome e dal nome del giudice in caratteri stampatello e dall'ulteriore dicitura: "Emesso da: POSTECOM CA2 Serial=: 7b365"). La copia autentica (cartacea) prodotta unitamente al ricorso ai fini della sua procedibilità, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, reca un'ultima pagina, contenente in alto il numero della sentenza (n. 1073/13), il sigillo della Repubblica Italiana e quindi l'attestazione di conformità all'originale con data e sottoscrizione autografa del cancelliere.
La sentenza è stata redatta con gli strumenti di cui all'art. 16 del Provvedimento 18 luglio 2011 contenente le "Specifiche tecniche previste dal D.M. Giustizia 21 febbraio 2011, n. 44, art. 34, comma 1, recante regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione, nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24", pubblicato sulla G.U. n. 175 del 29 luglio 2011 (attualmente, sostituito dal Provvedimento 16 aprile 2014).
Il D.L. n. 193 del 2009, art. 4, convertito nella L. n. 24 del 2010, intitolato "misure urgenti per la digitalizzazione della giustizia" ha esteso al processo civile i principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e successive modificazioni (codice dell'amministrazione digitale: C.A.D.). Perciò, quest'ultimo costituisce, attualmente, l'apparato legislativo di riferimento qualora gli atti processuali di cui agli artt. 121 c.p.c. e segg., ed in specie i provvedimenti del giudice, siano contenuti in documenti informatici. Quest'ultima eventualità è consentita, appunto, dal testo del menzionato art. 4 laddove presuppone "l'adozione nel processo civile (...) delle tecnologie dell' informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni".
Quindi i principi generali del C.A.D. sono applicabili anche in ambito processuale e le relative disposizioni costituiscono le norme con valore di legge ordinaria che, per il tramite del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24, disciplinano gli atti del processo civile redatti in forma di documento informatico (cfr. art. 1, lett. p e art. 20 C.A.D.) e sottoscritti con firma digitale (cfr. art. 1, lett. s e art. 21 C.A.D.). Le disposizioni del Regolamento di cui al D.M. n. 44 del 2011, emanato in attuazione dei principi previsti dal C.A.D., ed in particolare gli artt. 11 ("formato dell'atto del processo in forma di documento informatico") e 15 ("deposito dell'atto del processo da parte dei soggetti abilitati interni"), coordinati con le norme tecniche del Provvedimento 18 luglio 2011 (oggi del Provvedimento 16 aprile 2014), rendono possibile che il magistrato ("soggetto abilitato interno" secondo la definizione contenuta nell'art. 2, comma 1, lett. m, n. 1, dello stesso Regolamento) rediga la sentenza in formato elettronico e la sottoscriva con firma digitale. In particolare, ai sensi del primo comma dell'appena citato art. 15, nella formulazione risultante dalla sostituzione operata dal D.M. 15 ottobre 2012, n. 209, art. 2, comma 1, lett. a), "l'atto del processo, redatto in formato elettronico da un soggetto abilitato interno e sottoscritto con firma digitale, è depositato telematicamente nel fascicolo informatico".
La firma digitale è definita dall'art. 1, lett. s) C.A.D. come "un particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l'integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici". Per tali sue caratteristiche, la firma digitale, per un verso, manca di autografia, per altro verso, non è nemmeno riproducibile su un supporto analogico. Essa non è costituita, a differenza della firma convenzionale, da un segno grafico vergato sul documento di pugno dell'autore, ma da una serie di informazioni digitali unite al documento, ed è apposta dal giudice mediante l'inserimento della sua personale "smart-card" e digitazione del "pin" (codice alfanumerico personale).
L'apposizione della firma digitale ad opera del giudice è desumibile grazie alla coccarda ed alla stringa grafica che compaiono su ciascuna delle pagine del file di copia della sentenza (il cui originale è archiviato all'interno del sistema). La coccarda e la stringa sono automaticamente inserite nella copia del documento informatico dal software in dotazione all'ufficio giudiziario al fine di dare la rappresentazione dell'apposizione della firma digitale.
Dalle specifiche tecniche di cui sopra si desume, inoltre, che l'atto del processo redatto in formato elettronico dal magistrato in tanto può essere depositato telematicamente nel fascicolo informatico in quanto sia stato previamente "sottoscritto con firma digitale".
In caso di mancanza di firma digitale, il sistema informatico impedisce il deposito telematico del documento e comunque non potrebbe generare la copia recante i segni grafici attestanti la presenza di una firma digitale (coccarda e stringa). A quanto fin qui detto si aggiunga che la conformità della copia (analogica) all'originale (informatico), da cui è tratta, è attestata dal cancelliere, ai sensi dell'art. 23, comma 1, C.A.D., in tutte le sue componenti (compresa quindi la firma) e l'attestazione del cancelliere completa la rappresentazione "esterna" dell'apposizione della firma digitale, garantendo che il documento informatico ne sia munito in originale.
Pertanto, a meno che non si contesti siffatta attestazione, non rileva che gli operatori "soggetti abilitati esterni privati" (art. 2, comma 1, lett. m, n. 3, dello stesso Regolamento) non avessero (come sostenuto nella memoria del ricorrente) la possibilità di accedere all'originale digitale per poterne riscontrare direttamente l'integrità e la corrispondenza alla copia (possibilità, peraltro, garantita, a far data dall'agosto 2014 dal D.L. n. 90 del 2014, art. 52, convertito con la L. n. 114 del 2014, che ha modificato il D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, convertito con la legge n. 221 del 2012). La firma digitale, in sè considerata, garantisce, tra l'altro, l'identificabilità del suo autore, quando il documento sia formato nel rispetto delle regole tecniche in materia di firma elettronica avanzata (cfr. art. 21, comma 2, C.A.D., che rinvia all'art. 20, comma 3, C.A.D.).
Ed invero col D.P.C.M. 30 marzo 2009 pubblicato sulla G.U. 6 giugno 2009 n. 129 (oggi sostituito dal D.P.C.M. 22 febbraio 2013 pubblicato sulla G.U. 21 maggio 2013 n. 117) sono state dettate le "Regole tecniche in materia di generazione, apposizione e verifica delle firme digitali e validazione temporale dei documenti informatici", ai sensi del già citato art. 20, comma 3, C.A.D. In base a tali regole, come in vigore già alla data della sentenza impugnata, la procedura di rilascio del dispositivo di firma ("smart card") presuppone l'identificazione certa del titolare (che materialmente lo prende in consegna) ed il dispositivo stesso è fatto in modo che la chiave privata (che non è altro che un file) non possa essere estratta e che il suo sblocco (attraverso il "pin") avvenga all'interno del dispositivo, proprio per garantire che il file della chiave privata non sia utilizzabile se non col dispositivo stesso (sicchè l'unico rischio è l'utilizzazione di questo da parte di soggetto diverso dal titolare: eventualità, nemmeno ipotizzata nel caso di specie).
Ne segue che la firma digitale, quando si trova in calce alla sentenza, soddisfa lo scopo per il quale ne è prescritta la sottoscrizione, vale a dire quello della riconducibilità del provvedimento al giudice che risulta averlo emesso e che è l'unico titolare della firma digitale (intesa come combinazione di chiavi crittografiche, pubblica e privata).
Detto ciò, va precisato che il ricorrente non ha mai posto in dubbio che la sentenza qui impugnata sia stata effettivamente munita di firma digitale dal magistrato del Tribunale di Napoli che l'ha redatta in formato elettronico. Quindi, non sono pertinenti i rilievi della parte resistente circa la necessità della presentazione della querela di falso per contestare l'attestazione di conformità all'originale effettuata, nel caso di specie, dal cancelliere, sulla copia cartacea della sentenza prodotta unitamente al ricorso. Piuttosto, il ricorrente, oltre ad aver contestato che la firma digitale consentisse, di per sè, l'identificabilità del giudice autore della sentenza, ha contestato che la normativa sulla firma digitale fosse applicabile alla sentenza, in quanto l'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5 non è stato nè abrogato nè modificato ed esso presupporrebbe la "sottoscrizione" da intendersi come segno grafico apposto di pugno dal giudice in calce alla sentenza. Superate con le argomentazioni di cui sopra le censure concernenti l'idoneità della firma digitale a consentire l'identificabilità del suo autore, quanto a quest'ultima censura (con la quale sostanzialmente si contesta che, ai sensi della normativa vigente, la "sottoscrizione" della sentenza debba essere autografa), si osserva quanto segue. E' innegabile che siano ontologicamente diverse la natura della sottoscrizione, intesa come atto consistente nell'apposizione, di pugno dall'autore del documento, del proprio nome e cognome, e quella della firma digitale, composta invece da una duplice sequenza crittografica di byte volta a costituire il segno personale di chi la appone. Il Collegio ritiene che l'equiparazione dell'una all'altra, ai fini della validità della sentenza, sia possibile non per via interpretativa, ma soltanto per via legislativa. Ritiene peraltro che questa equiparazione sia stata attuata dalle norme di legge concernenti il processo civile telematico sopra richiamate. Infatti - contrariamente a quanto si assume col ricorso- queste norme sono applicabili alla sentenza, malgrado il legislatore non sia intervenuto ad adeguare direttamente l'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5, cosi come peraltro non è intervenuto a prevedere, modificando le relative disposizioni del codice di rito, che il requisito della forma scritta dei provvedimenti del giudice di cui agli artt. 131 c.p.c. e segg. sia soddisfatto qualora si tratti di documento informatico, il cui contenuto originale è redigibile ed attingibile soltanto per il tramite della fruizione di programmi software. Con i già menzionati D.M. n. 44 del 2011, artt. 11 e 15 si sono previsti rispettivamente il formato dell'atto del processo in forma di documento informatico ed il suo deposito, quando redatto in formato elettronico dal giudice (quale soggetto abilitato interno). Le norme secondarie sono attuazione di quanto disposto dal già menzionato D.L. n. 193 del 2009, art. 4 convertito nella L. n. 24 del 2010. Questo, a sua volta, richiama, estendendoli al processo civile, i principi previsti dal "Codice dell'amministrazione digitale" portato dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, entrato in vigore il primo gennaio 2006, successivamente modificato dal D.Lgs. 4 aprile 2006, n. 159, dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235 nonchè dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221.
Quest'ultima legge contiene una sezione 6 intitolata "giustizia digitale", su cui il legislatore è ulteriormente intervenuto con la L. 24 dicembre 2012, n. 228, in modo da regolare le comunicazioni e le notificazioni ed il deposito degli atti processuali per via telematica. Le linee guida dell'intero corpo normativo così sinteticamente richiamato risultano ispirate ad una piena equiparazione tra documento informatico e documento cartaceo (definito anche come "analogico"), nonchè tra sottoscrizione autografa e -per quanto qui rileva- firma digitale. L'estensione di queste linee guida anche agli atti processuali si evince da quanto già esposto al precedente punto 1.3.1.
Il processo normativo di equiparazione si è completato con gli interventi del legislatore successivi alla data di pubblicazione della sentenza qui impugnata (quindi, non applicabili), ma comunque utili a comprendere la portata della normativa sulla quale sono venuti ad incidere.
Così col già citato D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 52, convertito con la L. 11 agosto 2014, n. 114, si è modificato il D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, convertito con la L. n. 221 del 2012 (a sua volta introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 19, n. 2), introducendo il comma 9 bis. Questa disposizione di legge -pur essendo destinata ad equiparare all'originale le copie informatiche ed analogiche (anche) dei provvedimenti del giudice presenti nei fascicoli informatici estratte da soggetti diversi dal cancelliere e muniti di attestato di conformità da questi soggetti, tra cui il difensore- conferma le conclusioni raggiunte circa l'estensione dei principi del C.A.D. anche agli atti del processo, specificamente ai provvedimenti del giudice. Essa, infatti, presuppone che il fascicolo informatico contenga la sentenza redatta in forma di documento informatico e "sottoscritta" con firma digitale. Ulteriore, definitiva, conferma della previsione per legge della redazione della sentenza come documento informatico si rinviene nel D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 9 octies, convertito nella L. n. 221 del 2012, introdotto dal D.L. 27 giugno 2015, n. 83 convertito nella L. 6 agosto 2015, n. 132, a norma del quale
"Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica".
Tra le norme di legge fin qui richiamate va comunque posta in particolare risalto quella dell'art. 21, comma 2, C.A.D., come sostituito dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 14, comma 1, lett. b), che consente di equiparare la firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, formata nel rispetto delle regole tecniche, alla firma apposta di pugno dal soggetto autore del documento, per di più munita della presunzione di autenticità di cui all'ultimo inciso. Alla stregua dell'impianto normativo risultante dalle norme già in vigore alla data di emanazione della sentenza impugnata - 23 gennaio 2013 - va perciò affermato che la sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale ai sensi del D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 15, non è affetta da nullità per mancanza di sottoscrizione, sia perchè sono garantite l'identificabilità dell'autore, l'integrità del documento e l'immodificabilità del provvedimento (se non dal suo autore), sia perchè la firma digitale è equiparata, quanto agli effetti, alla sottoscrizione autografa in forza dei principi contenuti nel D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e succ. mod., applicabili anche al processo civile, per quanto disposto dal D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24.
Quanto detto consente di superare anche l'ultima delle censure poste col primo motivo di ricorso, concernente la mancanza dell'attestazione di deposito della sentenza in cancelleria.
Tenuto conto del fatto che la sentenza impugnata risulta allegata al verbale di udienza, va ribadito il principio, già affermato in riferimento alle norme del codice di rito, per il quale "la sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ., integralmente letta in udienza e sottoscritta dal giudice con la sottoscrizione del verbale che la contiene, deve ritenersi pubblicata e non può essere dichiarata nulla nel caso in cui il cancelliere non abbia dato atto del deposito in cancelleria e non vi abbia apposto la data e la firma immediatamente dopo l'udienza. Invero, la previsione normativa dell'immediato deposito in cancelleria del provvedimento è finalizzata a consentire, da un lato, al cancelliere il suo inserimento nell'elenco cronologico delle sentenze, con l'attribuzione del relativo numero identificativo, e, dall'altro, alle parti di chiederne il rilascio di copia (eventualmente, in forma esecutiva)" (così Cass. n. 11176/15).
Il principio non subisce deroghe dalle previsioni che regolano il processo civile telematico. Intanto, va detto che, a seguito dell'adozione delle regole tecniche sopra richiamate, l'attività di deposito telematico nel fascicolo informatico delle sentenze redatte in formato elettronico (anche quando non pronunciate ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ.) è soltanto avviata dal giudice.
E' infatti sempre indispensabile l'intervento del cancelliere. A seguito della modifica dell'art. 15 del Regolamento di cui al D.M. n. 44 del 2011, effettuata con il D.M. n. 209 del 2012, art. 2, comma 1, lett. a) e b), il magistrato che ha redatto la sentenza in formato elettronico, dopo avervi apposto la propria firma digitale, non effettua personalmente il deposito, ma la norma va intesa nel senso che egli trasmette telematicamente in cancelleria il documento - corrispondente, in sostanza, alla "minuta" di cui è detto nel(l'oramai desueto) art. 119 disp. att. cod. proc. civ. - perchè il cancelliere ("accettando" il documento) possa provvedere al deposito (dapprima, eventualmente, in minuta) e quindi alla pubblicazione (evento, quest'ultimo, che rende definitivo il testo della sentenza, e ne impedisce la modificazione anche da parte del giudice che ne è stato autore). Quando la sentenza non è "contestuale" ex art. 281 sexies cod. proc. civ., ma depositata ai sensi dell'art. 281 quinquies cod. proc. civ. e del D.M. n. 44 del 2011, art. 15, comma 1, è riservata al cancelliere l'attività di pubblicazione ai sensi dell'art. 133 c.p.c., comma 1 e 2, che comporta anche l' inserimento della sentenza nel registro relativo, con l'attribuzione del numero identificativo (D.M. 27 marzo 2000, n. 264, art. 13 "Regolamento recante norme per la tenuta dei registri presso gli uffici giudiziari" e L. 2 dicembre 1991, n. 399 "Delegificazione delle norme concernenti i registri che devono essere tenuti presso gli uffici giudiziari e l'amministrazione penitenziaria").
A seguito dell'adozione dei registri informatizzati, l'attività risulta regolata dal D.M. 27 aprile 2009 "Nuove regole procedurali relative alla tenuta dei registri informatizzati dell'amministrazione della giustizia", pubblicato nella G.U. 11 maggio 2009, n. 107. Con l'unico adempimento della "pubblicazione" riservato al cancelliere, il sistema provvede all'attribuzione alla sentenza del numero identificativo e della data di pubblicazione ai sensi e per gli effetti dell'art. 133 c.p.c., comma 2, e art. 327 c.p.c., comma 1, (e consente inoltre l'estrazione di copia, cartacea o informatica, da attestarsi conforme da parte dei soggetti abilitati- compresi i difensori a far data dall'agosto 2014). Quando invece la sentenza è inserita nel verbale di udienza od a questo allegata ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ., l'attività del cancelliere è pur sempre necessaria per l'attribuzione alla sentenza del numero identificativo e per consentirne l'estrazione di copia, ma non anche ai fini della sua pubblicazione. Ed invero, come detto, la sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ. è da intendersi pubblicata con la sua lettura in udienza da parte del magistrato che ne è l'autore (cfr. Cass. n. 11176/15, anche per ulteriori riferimenti). Nel caso di specie trattasi, appunto, di sentenza inserita nel verbale di udienza; pubblicata con la sua lettura in udienza da parte del magistrato che l'ha redatta; munita del numero identificativo.
Non è fondata la censura del ricorrente secondo cui la sentenza non risulterebbe "depositata" in cancelleria. Il cancelliere ha certificato la conformità della copia cartacea all'originale (informatico) e l'attribuzione del numero 1073/13, con un'attestazione recante la sua firma autografa ed allegata in originale al ricorso per cassazione. Quanto attestato presuppone compiuta dal cancelliere l'attività di deposito prevista dall'ultimo inciso dell'art. 281 sexies cod. proc. civ. (a seguito dell'"accettazione" -secondo le regole tecniche del processo civile telematico- di un documento informatico costituito dal verbale di udienza contenente la sentenza). In conclusione il primo motivo di ricorso va rigettato.
[...]
LA MASSIMA
La sentenza sottoscritta dal giudice con firma digitale non è nulla per difetto di sottoscrizione. Ed infatti, risultano pienamente garantite sia l'identificabilità dell'autore del provvedimento giudiziario, sia l'integrità e l'immodificabilità dello stesso: la firma digitale è perfettamente equiparata alla sottoscrizione autografa. Cass. n. 22871 del 10 novembre 2015.
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