Le investigazioni difensive.

il diritto di difendersi investigando, ritrae la manifestazione più individualista del diritto di difesa. Una garanzia, quella inscritta nell’art. 24 della nostra Costituzione, che ha indubbiamente orientato il legislatore del 1988.



A cura del Dott. Emilio Lorenzi

Benché troppo spesso osteggiato e svilito dall’imperturbabilità del pregiudizio, il diritto di difendersi investigando, ritrae la manifestazione più individualista del diritto di difesa.

Una garanzia, quella inscritta nell’art. 24 della nostra Costituzione, che ha indubbiamente orientato il legislatore del 1988 nell’adesione ad un modello processuale tendenzialmente accusatorio, coerente con le istanze di tutela dell’indagato e impreziosito dai principi del giusto processo. Storicamente la problematica delle investigazioni difensive nasce al Congresso Nazionale Forense del 1947.

In quell’occasione la brillante proposta di Giovanni Leone, di introdurre l’avviso di procedimento evidenziò come erano ormai maturi i tempi per una rivisitazione del modo di concepire la funzione difensiva: non più come statica attività di controdeduzione logica delle risultanza accusatorie ma esercizio dinamico e autonomo del diritto di difesa, che solo grazie alla pronta conoscenza del procedimento avrebbe consentito alle parti di attivarsi per recuperare tutti quegli elementi di prova che altrimenti il tempo avrebbe inesorabilmente disperso.

  • Ma perché l’avviso di procedimento?

Sembrerà banale, ma è bene sottolinearlo, che per poter demolire la ricostruzione accusatoria è necessario avere piena contezza dell’addebito mosso a proprio carico. In quest’ottica, la conoscenza è il momento primo del difendersi.

Era una voce fra tante quella dell’insigne giurista, ma quella intuizione non rimase fuori dal nostro sistema costituzionale.

Essa germogliò tra le righe dell’art. 24, nella parte in cui fu impresso a chiare lettere che «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».

Si badi bene, non del processo!

Ciò significa che tale diritto, secondo l’intenzione dei nostri padri costituenti, andava garantito sin dalla fase introduttiva, momento processuale in cui non poteva che attuarsi attraverso un’autonoma attività di ricerca della prova.

Con l’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale la disciplina delle indagini difensive è stata inizialmente confinata tra le norme di attuazione, segnatamente nell’art. 38, che a causa della sua insufficienza lasciò la materia oggetto d’esame in balia di profonde incertezze.

Da subito emerse una generale ritrosia nei confronti della figura del difensore inquirente, generata dal timore di un turbamento della ritualità e dell’ordine delle attività investigative pubbliche.

Le forti diffidenze giurisprudenziali si attualizzarono in alcune sentenze che diedero vita alla teoria della «canalizzazione», in base alla quale il difensore era posto nella sconfortante condizione di dover consegnare i propri testi al pubblico ministero.

Nondimeno la stessa avvocatura paventava il rischio di pericolose influenze dell’animo dei testimoni, derivanti dal semplice contatto preliminare con il legale.

Questa contrapposizione frontale tra indagini pubbliche e private, c’è tuttora ma a ben vedere non ha ragione d’essere. Le ragioni di una siffatta tesi sono molteplici.

Da una prospettiva soggettiva, l’attività inquirente svolta dal difensore si muove autonomamente e parallelamente a quella pubblica e ad essa si rapporta, secondo i canoni del principio di «parità delle parti», che aspira a mantenerle equidistanti dall’organo giudicante e ad apprezzarne le fisiologiche differenze onde bilanciarne le prerogative. In questo senso la facoltà inquirente attribuita al difensore deriva dalla necessità di assicurare in modo pieno ed effettivo il diritto alla prova riconosciuto all’imputato dall’art. 190 c.p.p.

Quest’ultimo verrebbe fortemente compromesso ove al soggetto incriminato non fosse accordato il potere di attivarsi nella raccolta degli elementi di prova utili ad una compiuta ricostruzione dei fatti oggetto di giudizio.

Di riflesso, da un punto di vista oggettivo, l’investigazione difensiva anima il contraddittorio tra le parti e garantisce il corretto accertamento giudiziale.

L’ art. 111 della Costituzione è estremamente chiaro sul punto: «il processo penale è regolato dal contraddittorio nella formazione della prova». Il libero convincimento del giudice, soggetto terzo e imparziale, verrà, infatti, a formarsi sulla base degli elementi raccolti e apportati dalle parti al processo, che assurgeranno a rango di prove solo nel rispetto del metodo dialettico cui il nostro sistema aderisce.

Ciò significa che, per poter contendere ad armi pari, al difensore deve essere riconosciuto un autonomo potere investigativo atto a preparare al meglio la strategia difensiva, a corroborare le proprie argomentazioni e ad esibire validi contributi dimostrativi.

Solo in tal modo il contraddittorio potrà estrinsecarsi in maniera corretta.

La scelta di aderire ad un sistema accusatorio impone, inoltre, come fisiologica caratteristica l’accoglimento del principio di separazione delle fasi.

Le informazioni raccolte nel segmento delle indagini preliminari non dovrebbero avere alcun valore probatorio ad eccezione dei casi espressamente previsti dalla costituzione di «consenso dell’imputato», di «accertata impossibilità di natura oggettiva» o di «provata condotta illecita» (art. 111 comma 5 Cost.). Ed è proprio alla presenza di situazioni eccezionali, accompagnate dai rischi insiti nella possibilità di formazione unilaterale della prova, che va imputata la scelta di regolamentare le investigazioni difensive, non a caso avvenuta in un momento storico concomitante alla riforma del giusto processo.

La legge 397 del 2000, ha irrimediabilmente risentito della genetica disparità tra parti in un sistema che nasce originariamente asimmetrico, sia per l’assenza di poteri autoritativi in capo al difensore, sia per i mezzi a disposizione riservati alle parti, sia per la presunzione di innocenza per cui non è dovere dell’avvocato provare la non colpevolezza del suo assistito bensì è obiettivo della pubblica accusa quello di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la responsabilità dell’imputato.

Tuttavia, il perseguimento degli obiettivi di compensazione delle facoltà inquirenti hanno portato troppo spesso ad ingenue rivendicazioni che non hanno tenuto conto della connaturata differenza di ruoli e dei rischi che possono scaturire dell’estensione dei casi di formazione unilaterale della prova.

L’attività investigativa del difensore è stata, così, imbrigliata in un sistema di rigidi protocolli d’azione e di precise forme di documentazione che oltre ad intralciare il libero dispiegarsi del difendersi investigando non sono stati in grado di evitare il sorgere di svariati dubbi interpretativi.

Gli ostacoli sono di varia natura e sono probabilmente imputabili ad un ritardo culturale oltre che ad oggettive difficoltà nella loro soluzione.

Si pensi alla problematiche inerenti alla qualifica soggettiva attribuibile al difensore che faccia uso di verbali trascritti infedelmente: tale soggetto può assumere la qualifica di pubblico ufficiale? O ancora, alle incertezze scaturenti dal rifiuto di collaborare opposto dalla fonte che si avvale del diritto di non rispondere o rendere dichiarazioni, alla diatriba in materia di indagini difensive e giudizio abbreviato, fino a giungere a questioni che esorbitano i confini nazionali (si pensi alla possibilità di compiere indagini difensive all’estero) o che si stagliano all’orizzonte delle nuove prospettive europee.

Ad ogni buon conto, le concrete difficoltà riscontrabili nella materia oggetto del nostro studio non possono giustificare lo scarso utilizzo che si registra nella prassi di questa straordinaria opzione difensiva, ma al contrario dovrebbero rappresentare uno stimolo in più per approfondire la tematica in questione onde evitare che il processo scada in una mera battaglia di retroguardia consistente nella semplice confutazione della tesi del pubblico ministero.

Non si tratta di una prepotente pretesa quella che anima il diritto di difendersi investigando ma è una questione di metodo quella che richiede alle parti di attivarsi affinché la successiva contesa dibattimentale si arricchisca delle ricostruzioni alternative, ove vi sia spazio per esse.

Il presente studio si propone, pertanto, di mettere in evidenza i maggiori punti di frizione dell’attuale disciplina delle investigazioni difensive, monitorando con attenzione le pronunce giurisprudenziali più recenti con l’obiettivo di offrirne una lettura il più possibile rispettosa del principi costituzionali e delle scelte di sistema del nostro ordinamento.

La problematica della collaborazione privata alla giustizia è risalente nel tempo e la prospettiva di riconoscere alle parti private il pieno esercizio del diritto di difesa è uno dei temi che ha più interessato tanto gli studiosi quanto gli operatori del processo penale negli ultimi anni.

Un corretto approccio allo studio delle investigazioni difensive, non può però prescindere da un preliminare excursus storico finalizzato a districare nella mente del lettore il tortuoso percorso normativo e giurisprudenziale che ha spinto il legislatore ad intervenire con la legge 7 dicembre 2000 n. 397.

L’ analisi della normativa in esame dovrà articolarsi avendo come riferimento costante il diritto di difesa, vero e proprio punto cardine della disciplina delle indagini difensive, che si concretizza, secondo la tradizionale impostazione dei processualisti, nel compimento di ciò che è necessario «per far valere davanti al giudice i diritti soggettivi e gli altri interessi giuridici dell’imputato» .

Il codice di procedura penale del 1930 , seppur formalmente ispirato ad un sistema «misto», in sostanza evidenziava, soprattutto nella fase predibattimentale, molti dei caratteri tipici del processo inquisitorio. È importante infatti osservare come si realizzava una articolazione processuale scandita in due fasi distinte: la fase istruttoria, caratterizzata dalla segretezza, era finalizzata a raccogliere gli elementi necessari all’accertamento della verità e la fase di giudizio era deputata all’assunzione delle prove oralmente e in contraddittorio .

In questo contesto, ad assolvere il compito di natura squisitamente pubblicistica di formazione della prova erano tre figure: il pubblico ministero, il giudice istruttore e il giudice del dibattimento.

Il pubblico ministero, parte processuale e al contempo organo pubblico deputato alla istruzione sommaria, cumulava al potere di assumere le prove e di adottare misure restrittive della libertà dell’imputato, un potere di archiviazione diretto, non più condizionato all’autorizzazione del giudice (come previsto nel codice del 1913) .

Il giudice istruttore, titolare dell’istruzione formale, sommava ai compiti del suo ufficio quelli dell’accusatore infatti procedeva d’ufficio alla ricerca delle prove che assumeva in segreto e decideva per il rinvio a giudizio dell’imputato. In un contesto di questo tipo la fase decisionale risultava essere fortemente condizionata dalla precedente fase istruttoria. Il giudice del dibattimento, infatti, poteva avvalersi di tutti i verbali degli elementi probatori raccolti in segreto nella fase anteriore sicché la fase dibattimentale finiva per costituire una analisi, seppur argomentata, delle prove raccolte durante la fase istruttoria, realizzando così «una finzione di procedimento accusatorio» .

  • A questo punto sorge spontaneo domandarsi: ma quali poteri aveva d’altra parte il difensore?

Il difensore svolgeva, nella sola fase dibattimentale, un ruolo di controllo, di contestazione dialettica di eventuali irregolarità e di censura circa gli elementi d’accusa già acquisiti agli atti del procedimento. Atti che, si noti bene, erano frutto di investigazioni portate avanti nella massima segretezza dai soggetti predisposti a controllare la fondatezza della notizia di reato. Seppur non ostacolata da alcuna norma del Codice Rocco, l’attività di ricerca di elementi di prova era per la difesa tacitamente esclusa , soprattutto in relazione alla testimonianza, da una giurisprudenza del Consiglio nazionale forense arroccata intorno ad ideali ormai desueti che consideravano un qualsiasi tipo di contatto tra il patrocinatore e il teste, che si fosse verificato prima dell’audizione da parte dell’autorità giudiziaria, come un comportamento deontologicamente scorretto suscettibile di dar luogo a responsabilità disciplinare .

Fu proprio in seno al Congresso Nazionale forense tenutosi a Firenze nel 1947 che Giovanni Leone, con l’intento di rompere drasticamente con il passato e spinto da uno spirito innovatore in linea con quello dei Padri Costituenti, propose di introdurre l’avviso di procedimento.

Motivò questo suo intervento osservando che l’attività difensiva dovesse svolgersi indipendentemente dall’attività del pubblico ministero, che la difesa non dovesse essere considerata un’attività di controdeduzione logica delle risultanze accusatorie del p.m. ma una attività autonoma. Solo la conoscenza di un procedimento avrebbe consentito alle parti di tutelare prontamente il proprio diritto di difesa che l’art. 24 della Costituzione considera inviolabile in ogni stato e grado del procedimento quindi anche nella fase introduttiva, laddove non poteva che essere svolta attraverso l’attività di ricerca della prova e cioè attraverso l’attività investigativa.

L’importanza di questa intuizione fu definitivamente sancita prima nel 1950, anno in cui fu sottoscritta a Roma la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e successivamente nel 1999 con la riforma costituzionale che ha introdotto il comma 3 dell’art. 111 Cost.

La forte paura di andare incontro a turbative, ad interventi che avrebbero ostacolato l’attività investigativa rappresentò un impedimento significativo per l’introduzione del tanto auspicato avviso di procedimento (poi comunicazione giudiziaria e infine informazione di garanzia).

Da un lato, infatti, alla magistratura inquirente poco garbava l’idea di spartire con altri l’esercizio delle attività d’indagine, dall’altro questa forte ostilità nei confronti di una qualsiasi tipo di relazione diretta tra avvocato e testimone, evidenziava una palese sfiducia nei confronti del difensore stesso .

Sfiducia che però non trovava e non trova tuttora riscontro nelle cospicue pronunce della Corte costituzionale quando quest’ultima afferma che «il diritto di difesa è, in primo luogo, garanzia di contraddittorio e di assistenza tecnico-professionale. Il che è quanto dire che quel diritto, di regola, è assicurato nella misura in cui si dia all’interessato la possibilità di partecipare ad una effettiva dialettica processuale, non realizzabile senza l’intervento del difensore» .

Una ragionata rivisitazione del modo di concepire la tematica delle investigazioni difensive, compito arduo ma al contempo avvincente, è stato l’obiettivo perseguito da questa trattazione. Nonostante siano trascorsi ormai quindici anni dall’innesto codicistico operato dalla l. n. 397 del 2000, gli ultimi dati statistici offerti dall’Osservatorio sulle investigazioni difensive istituito dall’Unione Camere Penali Italiane, hanno evidenziato uno scarso utilizzo delle facoltà inquirenti accordate agli avvocati, nonché uno spirito di rassegnazione in ragione delle numerose incertezze e zone d’ombra che questa materia depone.

Pare scontato, ma un primo passo per superare il ritardo culturale più volte denunciato nel corso della trattazione, dovrebbe essere fatto proprio dagli avvocati i quali, oltre a investire sulla formazione e sulla specializzazione, dovrebbero quantomeno rappresentare ai propri assistiti l’esistenza di tali strumenti investigativi e valutare con gli stessi se è il caso di usufruirne, senza essere spinti dall’egoistico fine di lucrare su una parcella più alta.

È necessario che l’attività d’indagine sia percepita come doverosa e non come rara possibilità. Detto questo, la migliore soluzione per offrire una lettura chiarificatrice delle complesse problematiche sulle indagini difensive, è quella di accogliere un approccio costituzionalmente orientato alla materia in questione. Prendendo le mosse dalla norma madre da cui origina il potere inquirente del difensore e cioè l’art. 24 Cost., si è più volte ribadito nel corso della trattazione, come l’attività di ricerca di elementi di prova è l’antecedente logico ed eziologico del conoscere. Ricercare, conoscere e difendersi rappresentano tre momenti intimamente connessi, ciascuno dei quali imprescindibile in un modello liberale accusatorio. Si comprende, dunque, come la finalità che deve muovere l’agire difensivo non è tanto l’obiettivo di utilizzare come prove nel processo elementi raccolti unilateralmente nella fase delle indagini preliminari, quanto quello di conoscere per difendersi. In ciò si ravvisa un punto di connessione con l’art. 111 comma 4 Cost., posto che è proprio il contraddittorio nella formazione della prova ad esigere una partecipazione egualmente informata delle parti alla dialettica processuale.

Depurato da ogni pretesa istruttoria, il diritto di difendersi investigando riacquisirebbe quel carattere di libertà che gli dovrebbe spettare. Libertà che si concretizza in un agire svincolato nel tempo e nello spazio. Ecco, allora, che molti problemi potrebbero essere risolti, a partire da quelli inerenti alle investigazioni all’estero, per cui la giurisprudenza è ancora ferma ad una pronuncia del 2007 in cui si affermava che il difensore non fosse abilitato a svolgere indagini fuori dai confini nazionali, sulla scorta del principio secondo cui ubi lex voluit dixit, per cui tutto ciò che non è previsto dal codice non è ammesso ed è passibile di inutilizzabilità. Sarebbe auspicabile un intervento legittimante l’azione ultra fines del difensore, se non altro sub specie di colloquio non documentato.

Una simile presa di posizione sarebbe ancora più apprezzabile ove se ne facesse carico l’Unione Europea, posto che si sta passando ad un sistema basato sulla tendenziale fungibilità delle giurisdizioni. La formalizzazione dell’agire difensivo realizzato della novella del 2000, se letta nella prospettiva di un’emancipata attività della difesa avente uno scopo puramente euristico, poteva anche essere evitata. Sarebbero state sufficienti le regole deontologiche a garantire il corretto estrinsecarsi dell’attività del difensore.

La scelta di regolamentarle è stata necessitata da situazioni in cui le informazioni raccolte dal difensore nel corso delle indagini preliminari avrebbero potuto assumere valore di prova in dibattimento. Ed invero, la storia ha dimostrato come un’adesione incondizionata al principio del contraddittorio nella formazione della prova porta il sistema al collasso, se non accompagnata da adeguate eccezioni.

Nota a molti è la frase inscritta nella sentenza costituzionale 255 del 1992 secondo cui «fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità». Il «principio di non dispersione della prova» che ha incalzato al recupero, in ambito processuale, di elementi raccolti in fase d’indagine preliminare si spiega storicamente in ragione dello spaesamento cui versava la giurisprudenza nella fase di transizione dal Codice Rocco al Codice Vassalli. Con la riforma sul giusto processo e con la conseguente previsione del comma 5 dell’art. 111 Cost., che rimette alla legge la regolamentazione dei casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio, prevedendo le tre fattispecie tipiche – consenso dell’imputato, accertata impossibilità di natura oggettiva, provata condotta illecita – in cui tale evenienza può concretizzarsi, l’ammissione di circostanze in cui l’atto unilaterale si trasforma in prova non è più giustificabile sulla base della semplice esigenza di ricerca della verità.

Tale premessa è utile a comprendere che è stata proprio la possibilità di vedere un elemento d’indagine del difensore, tramutarsi in prova a rendere necessaria una regolamentazione della sua attività attraverso l’introduzione di vincoli d’azione e documentazione. In ciò si è ravvisato un punto critico del sistema, dato che dal mancato rispetto delle regole di verbalizzazione, si è fatta derivare l’assegnazione al difensore della qualifica di pubblico ufficiale, con il rischio di integrare il reato di falso in atto pubblico in caso di dolosa, falsa o incompleta attestazione. Si è avuto modo di dimostrare come una siffatta attribuzione non sia condivisibile per una serie di ragioni.

L’attività investigativa del difensore si caratterizza per la facoltatività, per la non necessaria completezza, per la sua disponibilità, per cui il legale può valutare liberamente di non depositare l’atto documentato, per l’assenza dell’obbligo di denuncia del reato di cui il legale viene a conoscenza nel momento in cui compie l’intervista difensiva. Sono tutti caratteri che impongono di prendere le distanza dalla celebre sentenza Schera, del 27 giugno 2006, alla quale siamo ancora fermi, per poter auspicare che venga istituito un reato a sé, magari di grado minore rispetto a quello del pubblico ufficiale, rispettoso delle disuguaglianze ineliminabili tra pubblico ministero e difensore.

Pronunce come quella sopra indicata sono particolarmente dannose perché scoraggiano gli avvocati dall’intraprendere attività di investigazione difensiva.

Tornando al rapporto tra regola del contraddittorio e sue eccezioni, sarebbe necessario dettare una disciplina più trasparente in rapporto alle situazioni più “delicate”. Il riferimento va qui alle norme inerenti agli atti irripetibili compiuti dal difensore. In una prospettiva de iure condendo è ragionevole auspicarne una ridefinizione più chiara, che tenga conto del necessario intervento di tutte le parti interessate al compimento dell’atto. In questo senso andrebbe specificato che anche i rilievi tecnici irripetibili vanno trattati alla stregua degli accertamenti tecnici irripetibili, in quanto anch’essi invasivi della situazione preesistente.

Entrambi gli atti, poi, dovrebbero essere comunicati non solo al pubblico ministero (come attualmente previsto dall’art. 391-decies comma 3) ma anche, «a tutti coloro nei confronti dei quali l'atto può avere effetto e dei quali si abbia conoscenza», prendendo a modello quanto previsto dall’art. 15 delle Regole di comportamento del penalista. Allo stesso modo, prevedere quantomeno un meccanismo di preavviso, sia della controparte pubblica, sia delle altre parti private interessate, quando il difensore compie un rilievo irripetibile in quanto «non prorogabile» (art. 391-octies comma 2 c.p.p.), sarebbe un’ipotesi senz’altro più corretta per favorire una compartecipazione all’assunzione dell’atto irripetibile. Inoltre, nei casi in cui l’irripetibilità sia sopravvenuta, e dunque l’eventuale dichiarazione non possa essere assunta in dibattimento, è necessario dimostrare in maniera scrupolosa la natura oggettiva di tale impossibilità, e ciò a prescindere dal fatto che il teste sia stato originariamente sentito dal pubblico ministero o dalla difesa.

Ad ogni modo, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha più volte ammonito il giudice italiano ad un attento uso probatorio dell’atto irripetibile che non può mai costituire l’unica e decisiva fonte di convincimento per affermare la responsabilità penale dell’imputato. Lo stesso ragionamento andrebbe esteso a tutte le altre situazioni derogatorie del contraddittorio per cui l’atto unilaterale viene ad acquisire pieno valore di prova. Attenta dottrina ha a riguardo suggerito che gli elementi di conoscenza unilateralmente assunti non possono sorreggere la decisione in modo esclusivo , non essendo possibile collocarli in una posizione paritaria rispetto a quelli formati dialetticamente.

Diverso è il discorso nel caso di giudizio abbreviato, in cui la deroga al contraddittorio fondata sul «consenso dell’imputato» ha sollevato dubbi circa la necessità dell’accordo di entrambe le parti, dunque anche del pubblico ministero, all’utilizzo dell’atto d’indagine della difesa, contrariamente a quanto la disciplina sembra prevedere.

La specialità del rito induce a conferire generale rilevanza probatoria all’indagine preliminare cosicché, si recupera la costituzionalità dello stesso garantendo alla controparte il diritto alla controprova, purché esso non si traduca in un escamotage per colmare eventuali lacune delle indagini preliminari. Sul punto, l’ultima novità è quella prevista dal D.D.L. del Governo presentato alla Camera dei Deputati il 23 dicembre 2014, recante «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto al fenomeno corruttivo, oltre che all'ordinamento penitenziario per l'effettività rieducativa della pena».

L’art. 13 della presente proposta suggerisce di modificare il comma 4 dell’art. 438 c.p.p. prevedendo che, nel caso di rito speciale richiesto dopo il deposito dei risultati delle indagini difensive «a sorpresa», il giudice non debba provvedere subito all'ordinanza dispositiva del giudizio, ma debba attendere il decorso del termine, eventualmente richiesto dal pubblico ministero per lo svolgimento di indagini suppletive. Tuttavia, si attribuisce all’ imputato la facoltà di revocare la richiesta di giudizio abbreviato, avendo egli contezza del materiale raccolto dall’accusa all’esito delle indagini suppletive. Se accolta, la proposta determinerebbe una modifica sostanziale del rito abbreviato semplice, non più liberamente azionabile sulla base della semplice istanza di parte. Si è altresì notato che il compimento di attività investigativa suppletiva, che precede l’immediata richiesta di giudizio abbreviato semplice, molto spesso è resa necessaria dall’inefficienza dei meccanismi informativi che comportano, fin troppo spesso, l’inizio dell’attività esplorativa della difesa solo a partire dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415-bis. Eppure, la difesa dovrebbe essere informata in tempo utile, per azionare i poteri inquirenti ad essa conferiti.

La necessità di avere tempestiva notizia del procedimento, induce ad auspicare un ripristino della disciplina dell’informazione di garanzia come inizialmente concepita, seppur sapientemente bilanciata con le esigenze di riservatezza investigativa. In tal modo si assicurerebbe la possibilità per il difensore di muoversi tempestivamente, ricollocando la funzione inquirente nel segmento tipico in cui andrebbe svolta e indirizzandone i risultati in una prospettiva endofasica. Tuttavia, la recuperata prontezza del potere del difensore non abilita lo stesso ad agire in maniera totalmente autonoma.

È insita nella sua natura privata l’assenza di poteri coercitivi, tali per cui il suo operare non può legittimamente estrinsecarsi in situazioni che comprimono i diritti fondamentali dell’individuo garantiti in Costituzione. È stato, così, necessario prevedere meccanismi di natura compensativa, idonei a garantire l’acquisizione di materiale investigativo ritenuto utile dalla difesa, attivabili mediante ricorso all’autorità giudiziaria. In particolare il riferimento va ai casi in cui la fonte rifiuti di collaborare essendosi avvalsa della facoltà di non rispondere. In tale ipotesi si è visto che i dispositivi dell’«audizione condivisa» e dell’incidente probatorio, contemplati dai commi 10 e 11 dell’art. 391-bis, non si sono rivelati convincenti per una serie di ragioni tra cui emergono, da un lato, i rischi di anticipata discovery della strategia difensiva, dall’altro, lo scarto tra le finalità investigative e gli effetti probatori che derivano dall’esperimento dell’incidente probatorio. Ad aggravare la già poco persuasiva soluzione adottata dal legislatore, ha poi contribuito la giurisprudenza, che ha più volte ribadito come i rimedi previsti dal codice non siano affatto atti dovuti, e, al contempo, l’eventuale provvedimento di rigetto non sia soggetto a gravame. In prospettiva futura, si potrebbe immaginare di valorizzare la figura del giudice per le indagini preliminari, in particolare autorizzando la parte a rivolgersi a quest’ultimo per rimuovere gli ostacoli sopra evidenziati. In tal modo la richiesta, sarebbe diretta ad un soggetto per sua natura imparziale, che garantirebbe la segretezza dell’investigazione difensiva, evitando non solo infelici ingerenze da parte del pubblico ministero ma anche di tramutare l’atto d’indagine che si intende ottenere in prova. Inoltre il provvedimento adottato dal giudice sarebbe opportuno che venga motivato, in modo da poter garantire un controllo in sede di gravame della correttezza del diniego opposto. Altro spunto di riflessione è stato offerto dal modo di interpretare il sistema delle inutilizzabilità, molto spesso piegato dalla giurisprudenza a fini deterrenti. Con una recente sentenza si è arrivati a dire che le dichiarazioni documentate del difensore devono essere considerate inutilizzabili se non sottoscritte alla fine di ogni foglio.

Dal ragionamento messo a punto dalla Cassazione emerge una sovrapposizione del tutto inaccettabile tra le sanzioni della nullità e dell’inutilizzabilità che dimostra, ancora una volta, come in materia vi siano molte incertezze troppe volte risolte creando un intralcio per la difesa dell’imputato.

È evidente che fin quando si continuerà ad avere un approccio alla materia superficiale e rassegnato, difficilmente ci sarà spazio per radicali cambiamenti.

La strada da percorrere verso un effettivo esercizio del diritto di difendersi investigando è ancora lunga e impervia, ma ciò non può rappresentare un valido alibi per cedere le armi.

La sfida per la completa attuazione del rito accusatorio merita di essere combattuta anche sul fronte delle investigazioni difensive, le quali rappresentano un aspetto consustanziale dello stesso.

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