Per un miglioramento della compliance aziendale : il whistleblowing.

Il whistleblowing tra profili giuslavoristi, normativa privacy ed esigenze di prevenzione dei reati. Un difficile bilanciamento per un equilibrio precario.



A cura del dott. Antonio Paolitto

Un difficile bilanciamento per un equilibrio precario.

SOMMARIO: 1 – Introduzione: la centralità del whistleblowing nel potenziamento della compliance aziendale; 2 – Alle origini del fenomeno: il modello USA per un approccio comparativo; 3 – Le principali criticità del whistleblowing nella impostazione disciplinare italiana; 4 – I recenti sviluppi legislativi in materia; 5 – Conclusioni.

  • 1 – Introduzione: la centralità del whistleblowing nel potenziamento della compliance aziendale

E’ pacifico che una solida strategia di compliance aziendale passi – ai sensi del d. lgs. 231/2001 sulla responsabilità da reato degli enti – per la costruzione di un efficace modello di organizzazione, gestione e controllo che possa – dopo un’efficace “mappatura del rischio” – ridurre al minimo il pericolo di reato, inquadrando e bloccando da subito anche le condotte prodromiche alla sua commissione.

E’ altresì certo che l’efficace funzionamento di tal modello debba essere garantito da una solida attività di vigilanza, attuata tramite l’OIV (Organismo Indipendente di Valutazione): per assicurare l’efficienza dell’OIV, tuttavia, si rende necessario un potenziamento dell’internal audit aziendale tramite raccolta e cura adeguata dei flussi informativi.

Ed è proprio in questo contesto (analoghe valutazioni possono essere fatte per il settore pubblico con specifico riferimento alla prevenzione della corruzione (1)) che si inserisce il whistleblowing (2).

  • 2 – Alle origini del fenomeno: il modello USA per un approccio comparativo

Il whistleblowing, fenomeno di origine Americana, è un termine usato per «identificare misure normative preordinate a far emergere “serious malpractices” o “wrongdoings”, di regola posti in essere da soggetti che rivestono posizioni apicali all'interno di organismi pubblici e privati.

Più precisamente, l'espressione fa riferimento alle garanzie c.d. anti-retaliation delle quali possono beneficiare quei lavoratori che, di propria iniziativa, segnalano i comportamenti identificati come illeciti nelle normative medesime (o comunque contribuiscono al loro disvelamento); ciò, avvalendosi di canali comunicativi appositamente predisposti dal datore di lavoro (c.d. internal whistleblowing) o indirizzando la propria segnalazione alle competenti autorità (amministrative o giudiziarie), a organizzazioni indipendenti o, ancora, agli organi di informazione (c.d. external whistleblowing(3).

Non da ultimo dette segnalazioni in regime di organizzazione e controllo ex D.Lgs. 231.01 dovranno riguardare i preposti Organismi di Vigilanza.

In termini elementari, trattasi di una «segnalazione di irregolarità» (4) che si può articolare in due modi diversi: la segnalazione al proprio datore di lavoro (o per esso ai dirigenti di grado superiore – c.d. whistleblowing interno), oppure la denuncia alle Autorità competenti (c.d. whistleblowing esterno).

L’istituto viene introdotto negli Stati Uniti nel 2002, con il Sarbanes-Oxley Act (SOX), legge introdotta in reazione a dei gravi scandali finanziari commessi da alcune imprese quotate in borsa: la ratio evidente era quella di proteggere gli investitori tramite rafforzamento della accuratezza e attendibilità delle informazioni societarie redatte in conformità alla legislazione sui titoli e sulle materie collegate; pertanto, il SOX (Section 806) introduce una parte di internal audit nelle società dedicata alla denuncia di irregolarità in forma anonima da parte del dipendente, tutelandolo da eventuali “rappresaglie” datoriali (c.d. garanzie anti-retaliation).

In termini giuslavoristici (5), la Section 806 del SOX prevede che nessuna società (e per essa i suoi dirigenti), possa minacciare, licenziare, sospendere dal suo incarico o comunque discriminare, a causa del suo comportamento, il dipendente che abbia:

1. fornito informazioni in indagini relative a violazioni della legge in materia di frode agli azionisti, purché l’informazione sia stata fornita (o l’investigazione sia stata proposta) ad Autorità qualificate (es. agenzie federali, membri del Congresso USA, superiori gerarchici del dipendente con funzioni di vigilanza interna della società);

2. agito giudizialmente o testimoniato in casi relativi alla violazione della citata normativa.

In tale evenienza, il lavoratore avrà diritto ad ottenere giudizialmente la reintegra, con mantenimento della medesima anzianità che avrebbe maturato in assenza della discriminazione, il pagamento delle retribuzioni arretrate maggiorate degli interessi ed il risarcimento del maggior danno causato dalla discriminazione.

Ma v’è di più: le garanzie anti-retaliation infatti, nel SOX non vengono fornite solo sul versante del labour law, ma anche su quello del criminal law; in altri termini, la ritorsione contro il whistleblower assume non solo la massima rilevanza lavoristica, specie nell'ottica sanzionatoria in regime ex D.Lgs 231.01, ma anche penale.

Viene così prevista la pena della multa e/o della reclusione non inferiore a dieci anni per chi consapevolmente e con intento ritorsivo ponga in essere un’azione dannosa contro colui che abbia fornito informazioni veritiere relative alla commissione (o comunque al tentativo di commissione) di un reato federale; dove per azione dannosa si intende quella materialmente avversa o che comunque avrebbe dissuaso un dipendente ragionevole dal perseguire il diritto tutelato dalla norma o dal divulgare la notizia (Section 1107 SOX).

Al SOX ha fatto seguito il Whistleblower Protection Act (WPA), la legge federale applicabile ai dipendenti pubblici.

Da ultimo, con il Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act è stata addirittura introdotta un’incentivazione economica per il whistleblower che denuncia le serious malpractices o le wrongdoings.

Gli ordinamenti a Common Law hanno prontamente recepito l’istituto: nascono così il Public Interest Disclosure Act (PIDA) nel Regno Unito, i Protected Disclosure Act in Nuova Zelanda e Sud Africa, il Public Service Act in Australia e la Loi sur la protection des fonctionnaires divulgateurs d’actes reprehensibles in Canada.

Non va poi sottaciuto che la stessa OCSE, analizzando il fenomeno, ha voluto dettare delle linee guida per garantire una effettiva protezione ai whistleblowers, riprendendo già le best practices consolidate nei Paesi più evoluti in materia.

Tali linee guida (6) mirano dunque a:

- Incentivare gli enti pubblici e privati alla promozione dell'utilizzo di linee di comunicazione dedicate al whistleblowing;

- Prevedere dei meccanismi strutturati di follow-up, vale a dire di accertamento indipendente, e di feed-back al segnalante;

- Introdurre sanzioni efficaci per gli autori di misure di rappresaglia contro i segnalanti;

- Introdurre incentivi di varia natura (legale ed economica) per i whistleblowers;

- permettere le segnalazioni anche in forma anonima.

Il punto di contatto con l’Europa e, più in generale, con i Paesi a Civil Law, tuttavia, lo si deve ad una norma del SOX, la Section 301, la quale stabilisce che non solo le società stabilite negli USA e le loro controllate con sedi Estere, ma anche qualsiasi società Estera quotata sul mercato USA debba dotarsi di sistemi di internal audit che accolgano le denunce dei dipendenti e che forniscano adeguate garanzie anti-retaliation.

Da lì, il concetto di whistleblowing è approdato nel Vecchio Continente: ed è apparso, tuttavia, con specifico riferimento all’impegno che gli Stati Membri UE hanno assunto per l’adozione delle Convenzioni Internazionali nella lotta alla corruzione; la ratio di fondo è rinvenibile nella convinzione che un rafforzamento dei modelli organizzativi interni degli organismi pubblici e privati possa portare, mediante soggetti operanti direttamente al loro interno, all’individuazione e all’estirpazione di gravi fenomeni, quali appunto la corruzione in primis, altrimenti difficilmente individuabili con gli ordinari mezzi di controllo.

Si può spiegare in tal senso la scelta dell’Italia, che nel dotarsi di una legge anticorruzione, con l’art. 1, comma 51, l. 190/2012 ha introdotto l’art. 54 bis d. lgs. 165/2001 (Testo Unico sul Pubblico Impiego) che positivizza nel nostro ordinamento giuridico la figura del whistleblower nel pubblico impiego.

Si è trattato tuttavia, di un primo intervento embrionale e lacunoso sotto il profilo delle garanzie fornite al whistleblower, nel senso di una tutela dell’anonimato insufficiente e di una difficoltà di fondo nel garantire contemporaneamente la tutela del lavoratore e la prevenzione della maladministration (7).

Tuttavia, come sottolineato dalla dottrina più attenta (8), resta una differenza di fondo tra il whistleblowing all’Americana e il suo modello di importazione Europea; trattasi di una differenza di prospettiva: mentre negli USA (e più in generale negli ordinamenti a common law) si discute delle garanzie da fornire al denunziante, in Europa accade esattamente il contrario.

In altri termini, ritenendo la posizione giuridica del whistleblower adeguatamente presidiata, in Europa ci si è concentrati – all’opposto – sulle garanzie da fornire al denunciato/segnalato, affinché questi possa avere piena contezza dei fatti attribuitigli nonché dell’origine delle accuse mossegli, così da difendersi dalle stesse e tutelare la propria onorabilità e professionalità.

  • 3 – Le principali criticità del whistleblowing nella impostazione disciplinare italiana

Il fenomeno del whistleblowing, allo stato, vive nel nostro ordinamento in una sorta di equilibrio precario e instabile, dovuto alla difficoltà di conciliare interessi penali, giuslavoristi e di privacy.

Nello specifico infatti, la condotta del whistleblower pone diversi interrogativi ancorati alle conseguenze che ne derivano sul triplice piano dei sovracitati diritti.

  • La segnalazione o la denuncia (e viceversa la loro omissione) hanno rilevanza penale? Fino a che punto si estende il diritto all’anonimato del whistleblower? Quali conseguenze nel rapporto di lavoro derivano dalla segnalazione/denuncia, che sia fondata o meno?

Questi i principali quesiti da risolvere mediante una difficile armonizzazione delle fattispecie astratte di diritto.

Ma procediamo con ordine nel tentativo di fornire una risposta a tali interrogativi.

Il primo problema sta nel fatto che tanto la condotta attiva quanto quella omissiva del potenziale whistleblower potrebbero avere rilevanza penale: nello specifico, infatti, la situazione che si pone è duplice.

Il soggetto che scopra una condotta a suo parere illecita e la segnali o denunci sarebbe indubbiamente perseguibile penalmente per diffamazione o calunnia qualora si accerti l’irrilevanza penale di tale condotta e/o la consapevolezza del “soffiatore” dell’innocenza dell’incolpato e della sua volontà di nuocergli (animus nocendi); per converso, se il whistleblower – conscio di tale evenienza che lo esporrebbe al pericolo di una self-incrimination – rimanesse connivente omettendo la segnalazione o denuncia agli Organi e/o Autorità competenti, rischierebbe di essere comunque perseguibile penalmente per favoreggiamento o per concorso omissivo nel reato compiuto dal collega.

E’ indubbiamente questa problematica – a parer di chi scrive – a costituire la vera “spada di Damocle” pendente sull’intera materia trattata (9).

Allo stato, infatti, la responsabilità penale del whistleblower resta il vero nodo irrisolto della disciplina in compendio: ma per risolvere il problema occorrerebbe discutere a monte le scelte di politica criminale; cosa che l’economia del lavoro difficilmente accoglie.

Passando ora alla seconda questione, è necessario dire fin da subito che il diritto all’anonimato del whistleblower mal si concilia con il nostro ordinamento, che non tollera minimamente la denuncia anonima: e ciò perché, come già spiegato, ci si concentra maggiormente sulle garanzie da fornire al soggetto segnalato/denunciato, piuttosto che sulla persona del “soffiatore”, ritenuta già adeguatamente protetta.

Il primo ostacolo, in merito, è rinvenibile nella disciplina sul diritto di accesso agli atti amministrativi di cui alla l. 241/1990: l’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa sul punto è quello di estendere il contenuto di tale diritto (di cui è titolare il segnalato/denunciato) anche alla pretesa di conoscere l’identità del whistleblower, e ciò proprio in virtù di quei superiori principi – propri del nostro ordinamento – di trasparenza, dialettica democratica e diritto di difesa, ai quali non può essere opposto il diritto di riservatezza.

Sembra evidente, pertanto, che la segnalazione anonima non possa trovare alcuna garanzia nel nostro ordinamento (10).

Passando ad un altro profilo, è pacifico che a seguito di una denuncia di whistleblowing vi sia un trattamento di dati personali presso un soggetto diverso dall’interessato: si pone pertanto un problema di raccordo con la normativa sulla privacy di cui al d. lgs. 196/2003. Orbene, la necessità di segretezza delle indagini si scontra (finendo comunque per prevalere) con i due principi fondamentali della normativa sul trattamento dei dati personali:

-l’obbligo di informativa da rendere nei confronti dell’interessato e il consenso al trattamento dell’accusato;

-informativa che – ai sensi dell’art. 13, comma 4, d. lgs. 196/2003 – deve essere assicurata all’interessato all’atto della registrazione dei dati o, in caso di comunicazione, non oltre la prima comunicazione.

Tuttavia, all’art. 13, comma 5, d. lgs. 196/2003 vengono previste due importanti esimenti: non sussiste pertanto obbligo di informativa quando i dati siano trattati in base ad un obbligo previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria oppure per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.

Con specifico riferimento poi all’obbligo dell’accusato di fornire il consenso al trattamento, anche qui l’art. 24, comma 1, d. lgs. 196/2003 introduce due importanti esimenti sancendo che non è richiesto il consenso quando il trattamento sia necessario per adempiere ad un obbligo imposto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria, nonché nei casi individuati dal Garante sulla base dei principi sanciti dalla legge, per perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo destinatario dei dati, anche in riferimento all’attività di gruppi bancari e di società controllate o collegate, qualora non prevalgano i diritti e le libertà fondamentali, la dignità o un legittimo interesse dell’interessato.

Orbene, analizzando la seconda esimente, la dottrina più attenta evidenzia che «il Gruppo dei Garanti Europei si è espresso nel senso di ritenere l’implementazione di un sistema aziendale di whistleblowing un legittimo interesse del datore di lavoro che, come tale, in un’ottica di bilanciamento deve prevalere sull’interesse del lavoratore di esprimere il proprio consenso rispetto al trattamento dei dati nel rispetto delle finalità previste dalla normativa» (11).

In definitiva, qualora il datore di lavoro tratti i dati personali forniti da un whistleblower in adempimento di obblighi legali, ovvero per far valere un diritto in sede giudiziaria non deve fornire al dipendente accusato alcuna informativa (altrimenti si vanificherebbe la riservatezza del dato fornito dal whistleblower); analogamente, non è necessario il consenso dell’accusato al trattamento delle informazioni riferite da un whistleblower qualora il datore agisca per perseguire un proprio legittimo interesse, ovvero intenda far valere un proprio diritto in sede giudiziaria.

Questi, in estrema sintesi, i limiti posti dalla disciplina legale sul trattamento dei dati personali al corretto esercizio dei poteri datoriali in caso di whistleblowing.

Restano da analizzare gli aspetti prettamente giuslavoristici del whistleblowing: ed è proprio in questo settore che - come sottolineato dalla dottrina più attenta (12) - l’esigenza di un intervento normativo è meno importante; ciò per una ragione di fondo squisitamente comparativa degli ordinamenti a common law e di quelli a civil law.

Mentre nei primi, infatti, il principio del libero mercato è portato a conseguenze estreme anche nel diritto del lavoro, tali per cui il principio della libera recedibilità consente di licenziare il dipendente in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione (si spiega così la ratio legis degli interventi a tutela del whistleblower, finalizzati ad evitare che il dipendente diventi vittima sacrificale di tali principi), nei secondi il diritto al lavoro assurge a valore di rango primario e merita pertanto di essere tutelato.

Con specifico riferimento al diritto del lavoro italiano, la condotta del whistleblower, in assenza di indicazioni normative, è stata ancorata dalla giurisprudenza (13) all’esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore (14).

Diritto di critica del dipendente – relativo alla segnalazione o denuncia del comportamento illecito tenuto dal datore di lavoro o dal collega – che, se esercitato (all’interno o all’esterno dell’ente) nel rispetto della verità dei fatti, della continenza formale e sostanziale e di una forma espositiva congrua e moderata, non determina violazione dell’obbligo di diligenza, fedeltà e di leale collaborazione nei confronti del datore di lavoro ex artt. 2104-2105 c.c. quali specifica applicazione dei principi civilistici di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (15).

Ne deriva – quale logico corollario – che se il diritto di critica è stato esercitato nelle condizioni di legge, i provvedimenti disciplinari ritorsivi adottati nei confronti del whistleblower sono illegittimi e pertanto espongono il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente licenziato e al pagamento di indennità risarcitorie (c.d. tutela reale forte).

Queste in sintesi, le criticità del “whistleblowing all’italiana”.

Le cose, ovviamente, potrebbero cambiare grazie alle recenti evoluzioni legislative di cui si darà contezza nel successivo paragrafo.

  • 4 – I recenti sviluppi legislativi in materia

Il fenomeno del whistleblowing, ancor prima che sul versante squisitamente legislativo, è stato introdotto in Italia a livello di best practices.

Emblema di ciò sono le Linee Guida di Confindustria dettate in tema di modelli di Organizzazione, Gestione e Controllo ex d. lgs. 231/2001, le quali sul punto rilevano che:

- L'obbligo di informare il datore di lavoro di eventuali comportamenti contrari al Modello organizzativo rientra nel più ampio dovere di diligenza e obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro di cui agli articoli 2104 e 2105 del codice civile.

Di conseguenza, rientrando in tali doveri, il corretto adempimento all'obbligo di informazione da parte del prestatore di lavoro non può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari. -

Nel disciplinare un sistema di reporting efficace, sarà opportuno garantire la riservatezza a chi segnala le violazioni.

Allo stesso tempo, sarà opportuno prevedere misure deterrenti contro ogni informativa impropria, sia in termini di contenuti che di forma.

- La regolamentazione delle modalità di adempimento all'obbligo di informazione non intende incentivare il fenomeno del riporto di rumor interni (whistleblowing), ma piuttosto realizzare quel sistema di reporting di fatti e/o comportamenti reali che non segue la linea gerarchica e che consente al personale di riferire casi di violazione di norme all'interno dell'ente, senza timore di ritorsioni.

- Si possono anche prevedere, accanto alle sanzioni disciplinari, meccanismi premiali riservati a quanti coopereranno al fine dell'efficace attuazione del modello, per esempio denunciando comportamenti individuali devianti (es. attraverso la regolazione di sistemi di whistleblowing).

Spesso, infatti, quando si intende promuovere il rispetto delle regole, la prospettazione dei vantaggi derivanti dalla loro osservanza può risultare più efficace della minaccia di conseguenze negative per la loro violazione.

Si è già accennato all’art. 1, comma 51, l. 190/2012 il quale, introducendo l’art. 54 bis d. lgs. 165/2001 ha per la prima volta istituzionalizzato nel pubblico impiego e a fini anticorruzione la figura del whistleblower.

Successivamente, l’ANAC (Autorità Nazionale Anti Corruzione), con la Determinazione 28 aprile 2015, n. 6, ha emesso le linee guida per l’applicazione pratica della norma e per garantire l’effettiva tutela della “vedetta civica”.

Tali linee guida, recependo le indicazioni della dottrina più attenta e già citata (16), hanno il dichiarato fine di fornire una protezione concreta al “soffiatore del fischietto” andando oltre le criticità legislative e traducendo in concreto ciò che finora è rimasto astratto.

Tra le condotte meritevoli di tutela rientrano non solo tutti i delitti contro la PA (ad es. la corruzione per l’esercizio della funzione, per atto contrario ai doveri di ufficio, in atti giudiziari), ma anche le situazioni nelle quali – a prescindere dalla rilevanza penale dei fatti – si riscontri un esercizio distorto dell’attività amministrativa, magari a fini privati o per inquinamenti ab externo (es. abuso di un soggetto dei poteri affidatigli al fine di ottenere vantaggi privati, sprechi, raccomandazioni, irregolarità contabili e così via).

Le linee guida si basano sui seguenti criteri, mirati a fornire:

- Un’interpretazione chiara dell’art. 54 bis d. lgs. 165/2001 con specifico riferimento all’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione ed alle condizioni di tutela;

- Indicazioni sulle opportune misure che le singole Amministrazioni devono adottare per garantire l’anonimato del whistleblower;

- Un modello interno di gestione delle segnalazioni per ogni PA;

Nel settore Bancario, il 21.7.2015 la Banca d'Italia, nell’aggiornare le “Disposizioni di vigilanza per le banche” con la Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 ha introdotto indicazioni vincolanti in materia di whistleblowing come previsto dal D. Lgs. 72/2015 di attuazione della direttiva 2013/36/UE in materia di vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento.

Ciò al fine di dare concreta attuazione all’art. 52 bis, comma 1, TUB che obbliga le banche ad adottare specifiche procedure di segnalazione al proprio interno da parte del personale, di atti o fatti potenzialmente costituenti violazione della normativa sull'attività bancaria.

Tali linee guida, in conformità alle best practices del settore, auspicano l’adozione di sistemi interni volti a:

— permettere la segnalazione da parte del personale di atti o fatti che possano costituire una violazione delle norme, chiarendosi che per personale si intendono i dipendenti e coloro che comunque operano sulla base di rapporti che ne determinano l'inserimento nell'organizzazione aziendale, anche in forma diversa dal rapporto di lavoro subordinato;

— incentivare l'uso dei sistemi interni di segnalazione e di favorire la diffusione di una cultura della legalità comunicando al proprio personale “in maniera chiara, precisa e completa il procedimento di segnalazione interno adottato indicando i presidi posti a garanzia della riservatezza dei dati personali del segnalante e del presunto responsabile della violazione”; tuttavia, gli obblighi di riservatezza non possono essere opposti quando le informazioni richieste sono necessarie per le indagini od i procedimenti avviati dall'autorità giudiziaria in seguito alla segnalazione;

— formalizzare il procedimento che si instaura nel momento in cui viene effettuata una segnalazione con l'indicazione, ad esempio, dei tempi e delle fasi di svolgimento del procedimento, dei soggetti coinvolti nello stesso, delle ipotesi in cui il responsabile dei sistemi interni di segnalazione è tenuto a fornire immediata comunicazione agli organi aziendali;

— definire le modalità attraverso cui il soggetto segnalante ed il soggetto segnalato devono essere informati sugli sviluppi del procedimento;

— nel caso in cui il segnalante sia corresponsabile delle violazioni, riservare un trattamento privilegiato per quest'ultimo rispetto agli altri corresponsabili, compatibilmente con la disciplina applicabile;

— predisporre una relazione annuale sul corretto funzionamento dei sistemi interni di segnalazione, contenente le informazioni aggregate sulle risultanze dell'attività svolta a seguito delle segnalazioni ricevute, che viene approvata dagli organi aziendali e messa a disposizione del personale della banca. Quanto al follow-up delle segnalazioni, le banche devono dotarsi di sistemi di garanzia dell’avvenuta ricezione delle segnalazioni, le quali dovranno essere esaminate e valutate attraverso canali specifici, autonomi ed indipendenti diversi dalle ordinarie linee di reporting, gerarchico o funzionale.

Con riferimento invece al risultato dell’attività di follow-up, i soggetti preposti alla ricezione, all'esame e alla valutazione delle segnalazioni non possono partecipare all'adozione di eventuali provvedimenti decisionali, rimessi alle funzioni od agli organi aziendali competenti. Importanti evoluzioni si registrano anche in materia di antiriciclaggio.

Il d. lgs. 25 maggio 2017, n. 90 di “Attuazione della direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo (c.d. IV direttiva europea antiriciclaggio), in vigore dal 4 luglio, riscrive integralmente, fra gli altri, il decreto legislativo n. 231/2007 che ne aveva dettato una prima disciplina.

Non è questa la sedes materiae per approfondire tout court un così fondamentale intervento legislativo, tuttavia – ai fini che qui interessano – il decreto in compendio offre spunti di riflessione interessanti.

Una interessante chiave di lettura del summenzionato decreto sembrerebbe essere quella di una crescita della prevenzione dei reati in azienda tramite un genuino potenziamento dei meccanismi di whistleblowing.

Nello specifico, l’art. 5, comma 1, d. lgs. 90/2017 riscrive l’art. 25 octies d. lgs. 231/2001 introducendo nell’elenco dei reati presupposto per i quali si applica la responsabilità amministrativa da reato delle società anche la ricettazione, il riciclaggio e l’impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita.

Ma soprattutto, l’art. 2 d. lgs. 90/2017 riscrive completamente l’art. 48 d. lgs. 231/2007 introducendo misure per tutelare il whistleblower in tale materia.

A seguito delle citate modifiche, il “nuovo” art. 48 d. lgs. 231/2007 così dispone:

«Capo VII (Segnalazione di violazioni)

- Art. 48 (Sistemi interni di segnalazione delle violazioni).

- 1. I soggetti obbligati adottano procedure per la segnalazione al proprio interno da parte di dipendenti o di persone in posizione comparabile di violazioni, potenziali o effettive, delle disposizioni dettate in funzione di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo.

2. Le procedure di cui al comma 1 garantiscono:

a) la tutela della riservatezza dell'identita' del segnalante e del presunto responsabile delle violazioni, ferme restando le regole che disciplinano le indagini e i procedimenti avviati dall'autorita' giudiziaria in relazione ai fatti oggetto delle segnalazioni;

b) la tutela del soggetto che effettua la segnalazione contro condotte ritorsive, discriminatorie o comunque sleali conseguenti la segnalazione;

c) lo sviluppo di uno specifico canale di segnalazione, anonimo e indipendente, proporzionato alla natura e alle dimensioni del soggetto obbligato.

3. La presentazione della segnalazione di cui al presente articolo non costituisce, di per se', violazione degli obblighi derivanti dal rapporto contrattuale con il soggetto obbligato.

4. La disposizione di cui all'articolo 7, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, non trova applicazione con riguardo all'identita' del segnalante, che puo' essere rivelata solo con il suo consenso o quando la conoscenza sia indispensabile per la difesa del segnalato».

Ma la vera svolta è avvenuta recentemente: con l’entrata in vigore della legge 30 novembre 2017, n. 179 (17), infatti, il fenomeno del whistleblowing entra a pieno titolo nell’ordinamento Italiano; il lavoratore (pubblico o privato) che segnala un illecito disporrà dunque di adeguate tutele.

Il testo si compone di tre articoli.

Il primo modifica l’art. 54 bis TUPI prevedendo che il dipendente pubblico segnalante l’illecito del quale viene a conoscenza per ragioni di lavoro non possa essere – per tal motivo – esposto a provvedimenti datoriali di ritorsione (es. trasferimento, demansionamento, licenziamento etc.); nel caso li subisca, l’onere della prova della non ritorsività di tali provvedimenti incombe sul datore di lavoro: accertatane la ritorsività, al licenziamento segue la reintegra, mentre per gli altri provvedimenti è prevista la sanzione della nullità.

Vengono ampliate le competenze dell’ANAC, che potrà applicare alla PA di riferimento apposite sanzioni amministrative nel caso in cui – su istanza dei dipendenti o dei sindacati – siano accertati comportamenti discriminatori nei confronti del denunciante.

E’ sancita la totale segretezza dell’identità della “vedetta civica”, la cui segnalazione viene coperta ex art. 329 c.p.p. e sottratta al diritto di accesso di cui all’art. 22 l. 241/1990.

Dalle sovra citate tutele il denunciante decade qualora venga condannato – anche in primo grado – per calunnia, diffamazione o altri reati commessi con la denuncia o qualora venga accertata la sua responsabilità civile per dolo o colpa grave.

L’art. 2 l. 179/2017 previsto con riferimento ai lavoratori (dipendenti e collaboratori) del settore privato consente di apprezzare al massimo la centralità del whistleblowing come strumento concreto di supporto nelle strategie di compliance societaria, poiché interviene proprio sulla responsabilità amministrativa degli enti, con riferimento ai modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati.

Nello specifico, all’art. 6 del d. lgs. 231/2001 vengono aggiunti 3 commi.

Il comma 2 bis con riferimento a tali modelli impone la creazione di canali che, a tutela dell'ente, consentano a coloro che a qualsiasi titolo lo rappresentino o dirigano, di effettuare segnalazioni circostanziate di condotte costituenti reati o violazioni del modello di organizzazione e gestione, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni ricoperte.

Tali canali debbono garantire la riservatezza dell'identità del segnalante, garantita con apposite modalità informatiche.

Le segnalazioni devono imprescindibilmente basarsi su elementi di fatto “precisi e concordanti”.

E’ poi previsto un duplice sistema di sanzioni disciplinari: da una parte, i modelli di organizzazione devono sanzionare chi violi le misure di tutela del segnalante; d’altro canto, è obbligatorio sanzionare chi effettua, con dolo o colpa grave, segnalazioni che si rivelino infondate.

Il comma 2 ter introduce la possibilità di denunciare all’Ispettorato Nazionale del Lavoro l’adozione di misure discriminatorie nei confronti del segnalante/denunciante.

Il comma 2 quater, da ultimo, sancisce la nullità di ogni atto ritorsivo nei confronti del whistleblower (trasferimento, demansionamento, licenziamento etc.) con onere della prova della non ritorsività a carico del datore di lavoro.

Il terzo articolo invece introduce una scriminante all’art. 622 c.p.: viene infatti previsto che la segnalazione/denuncia di un segreto d’ufficio, professionale, scientifico, industriale sia sorretta da una giusta causa qualora fatta dal lavoratore a tutela dell’integrità delle amministrazioni (pubbliche e private) o miri a prevenire/reprimere delle malversazioni.

La palla ora ripassa alle società e alle PA, finalmente dotate di un adeguato corpus normativo dal quale attingere in sede di autoregolamentazione della materia, anche se non mancano in dottrina considerazioni critiche su tale intervento legislativo (18).

Alla luce di quanto finora esposto, sembrerebbe pertanto che il legislatore abbia compiuto un decisivo salto di qualità nel disciplinare e proteggere la figura del whistleblower in tutti i suoi contesti: certo, non si è ancora giunti ad un auspicabile “Statuto dei diritti del whistleblower”, il quale richiederebbe una delicata opera di armonizzazione del diritto di cui si è già parlato (v. supra, par. 3), ma la partenza sembra indubbiamente buona.

  • 5 – Conclusioni

In definitiva è evidente che la tematica trattata presenti criticità importanti dovute, in primis, alla difficoltà di armonizzazione tra diritto penale, diritto del lavoro e normativa sul trattamento dei dati personali, ed in secundis – quale logico corollario della prima problematica – ad un non facile bilanciamento di interessi contrapposti.

Il punto chiave – è pacifico – resta l’esigenza di prevenzione dei reati: ma è altrettanto ovvio che per prevenire un reato bisogna avere la certezza che questo si stia commettendo.

Il problema è che in un contesto di lavoro, pubblico o privato, l’uomo medio non può mai avere piena contezza dell’evoluzione (a livello di tempistica e di successione di condotte) di una fattispecie di reato: più semplicemente, non è facile per tutti capire se la condotta potenzialmente suscettibile di segnalazione/denuncia implichi la preparazione o la commissione di un reato.

Il confine tra la legalità e la delazione, in questa materia, è tuttora altamente labile.

Pertanto, ben venga la l. 179/2017 sul whistleblowing, ma si ritiene comunque indispensabile un potenziamento regolamentare all’interno delle imprese e delle PA (19): all’uopo è fondamentale che il personale più qualificato in materia – dipendente della struttura – si incarichi della redazione e della applicazione (mediante formazione endoaziendale, nonché affissione in bacheche visibili a tutti i dipendenti) di regolamenti interni che elenchino specificamente e tassativamente le condotte prodromiche alla commissione di un reato nonché quelle già costituenti reato.

Il che, in linea teorica, è già previsto dalla legge ed attuato tanto dalle imprese private quanto dalle PA: tuttavia, è necessario un salto di qualità ulteriore per far sì che, da un lato, il potenziale whistleblower sappia con certezza se denunciare/segnalare o meno mentre, d’altro canto, il denunciato/segnalato possa difendersi con piena cognizione di causa.

In questo senso, un importante aiuto può venire dalle indicazioni di principio fornite dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale, trovatasi a giudicare sul licenziamento di un whistleblower, ha sancito nei suoi riguardi l'applicabilità delle tutele avverso il licenziamento illegittimo in tutti i casi nei quali il dipendente compia una valutazione dell'esattezza delle accuse mosse o, almeno, della loro fondatezza alla luce di una base fattuale sufficiente (20).

Ma soprattutto, è necessario cambiare il modus operandi nel whistleblowing come segue: il dipendente accorto (tanto pubblico quanto privato) dovrà – una volta acquisita la consapevolezza della rilevanza penale della condotta che intende scoraggiare – prima segnalarla agli organi interni all’uopo preposti a vigilare dal datore di lavoro (whistleblowing interno) e solo successivamente, preso atto che la propria segnalazione è stata ignorata senza adeguate motivazioni, denunciarla alle Autorità (whistleblowing esterno) per ottenere “giustizia”.

Diversamente agendo, infatti, si finirebbe per far “saltare il banco” e minare quell’equilibrio precario sul punto del quale si è già discusso.

Solo così potrà eliminarsi quella “incertezza del diritto” che di fondo permea purtroppo l’intera tematica trattata: la cultura della legalità, infatti, non può essere un pretesto per danneggiare o eliminare professionalmente un collega “sgradito”, trasformando ogni lavoratore nel “controllore degli altri colleghi” ed alterando gli equilibri sul lavoro, ma deve essere, ancor prima che un principio cardine dell’ordinamento giuridico, un valore aggiunto dell’intera società civile.

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(1)Al riguardo, interessanti le considerazioni di AMATO G., Profili penalistici del whistleblowing: una lettura comparatistica dei possibili strumenti di prevenzione della corruzione, in Riv. trim. dir. pen. econ. 3-4/2014, pp. 551-569, anche per una comparazione tra compliance pubblica e privata: «Si reputa essenziale imporre l’adozione, da parte delle singole amministrazioni, di adeguati piani interni con finalità di prevenzione, che individuino i settori nei quali si annida il rischio corruttivo, oltre che, le adeguate soluzioni organizzative volte ad abbattere o ridurre quel rischio e introdurre un’adeguata tutela di chi denuncia i fenomeni corruttivi, i Whistlerblowers. Settore pubblico e settore privato in questo modo convergono, condividendo logiche, obiettivi di tutela e strumenti di intervento.

Anche in ambito pubblico, infatti, la strategia di prevenzione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione è ricondotta alla costituzione di un adeguato assetto gestionale ispirato ai modelli del risk management.

A essi si accompagna la necessità di sviluppare una cultura dell’integrità, attraverso l’applicazione di valori, principi e norme nella conduzione delle attività proprie delle organizzazioni operanti nel settore pubblico.

Tra queste norme, in particolare, i codici di condotta dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono pensati come la fonte che individua doveri di comportamento giuridicamente rilevanti, sanzionabili non solo in termini di responsabilità disciplinare …

Si giunge, per questa via, a estendere al settore pubblico modelli organizzativi noti alla disciplina penale italiana, dove la tendenza sempre più marcata è stata quella di indurre e, talvolta, imporre alle società l’adozione di sistemi di corporate e di control governance a carattere prevalentemente endogeno, in quanto promossi, gestiti e fatti funzionare all’interno e dall’interno delle società stesse …

Sul versante della gestione pubblica del rischio-reato, il comma 5 dell’art.1 della l. n. 190 del 2012, dispone che le pubbliche amministrazioni centrali definiscano su base triennale il piano di prevenzione della corruzione, contenente la valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione, indicando altresì gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio.

Il piano, in particolare, dovrebbe individuare le attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio di corruzione, prevedendo, non solo meccanismi di formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei a prevenire tale rischio, ma in particolare, obblighi di informazione nei confronti del responsabile chiamato a vigilare sul funzionamento e sull’osservanza del piano.

Affiancano questi strumenti i codici di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni che … sono ripensati, rispetto ai codici originariamente contemplati dal Testo unico sul pubblico impiego, come precipuamente volti a garantire il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e alla prevenzione dei fenomeni di corruzione.

Concetto, quello della prevenzione, che sembra acquisire corpo proprio nella previsione e nel rispetto di obblighi di denuncia e di segnalazione di eventuali situazioni di illecito nell’amministrazione, di cui il dipendente pubblico sia venuto a conoscenza.

Tali doveri, compresi quelli informativi dunque, cui si aggiungono anche quelli relativi all’attuazione del piano di prevenzione della corruzione, sono concepiti come fonte di responsabilità disciplinare, rilevante anche ai fini della responsabilità penale, civile, amministrativa e contabile.

Essi, inoltre, trovano ulteriore specificazione e integrazione nei doveri posti dai codici di comportamento che ciascuna pubblica amministrazione è tenuta a definire.

Su di essi, e conseguentemente sul rispetto dei doveri posti, sono chiamati a vigilare i dirigenti responsabili di ciascuna struttura, le strutture di controllo interno e gli uffici di disciplina.

Il tratto differenziale di tali codici, rispetto ai loro omologhi richiesti agli enti di natura civilistica sopra ricordati, è dunque rappresentato dal carattere della vincolatività delle prescrizioni in essi contenute.

È il comma 59 dell’art. 1 della l. n. 190, infatti, a stabilire che le disposizioni di prevenzione della corruzione di cui ai commi dall’1 al 57 dell’art. 1, comprese le prescrizioni dettate con riferimento ai codici di comportamento – dunque anche i doveri di segnalazione e di vigilanza – rappresentano norme di diretta attuazione del principio di imparzialità di cui all’articolo 97 della Costituzione».

(2) La presente analisi introduttiva è ripresa dalle condivisibili considerazioni di GAREGNANI G. M., La rilevanza dei flussi informativi nei modelli organizzativi ai sensi del d. lgs. n. 231/2001, in Riv. dottori comm., fasc.2, 2009, pag. 319 e ss., alle quali si rinvia: del medesimo avviso FORTUNATO S., Corporate Governance: il whistleblowing nella prospettiva del sistema di controllo interno, in Riv. Dottori comm., 2017, III, pp. 397: «il sistema informativo e le comunicazioni interne all'impresa costituiscono, come noto, uno dei cinque componenti del sistema di controllo interno in base al riconosciuto modello CoSO, nel cui ambito rientrano le comunicazioni inerenti i malfunzionamenti o le violazioni dei codici, procedure ed istruzioni di lavoro che sovraintendono le attività aziendali ed il controllo dei rischi, tra cui quello c.d. di compliance ovverossia di rispetto del quadro normativo esterno ed interno dell'impresa. Tali peculiari comunicazioni sono spesso definite di “segnalazione” o di whistleblowing e ricevono una particolare attenzione in quanto:

— sono il principale deterrente rispetto al rischio di c.d. management override, vale a dire l'abuso dei vertici dei poteri loro conferiti, al fine di violare il sistema di controllo interno;

— consentono di avviare anticipatamente attività di follow-up (accertamenti, indagine, misure di rimedio) che altrimenti avverrebbero con ritardo, a volte di anni, con una superiore esposizione ai rischi (ad esempio, reputazionali) ed ai costi conseguenti;

— costituiscono un “barometro etico” od un campanello d'allarme sulla eventuale presenza di stati o situazioni specifiche di “disagio” e di “turbamento” dell'ambiente di controllo interno».

(3) La definizione, nella dottrina giuslavorista italiana, si deve a LATTANZI R., Prime riflessioni sul c.d. whistleblowing: un modello da replicare ad occhi chiusi?, in RIDL, 2010, II, pp. 336-337.

(4) Così, GOLISANO G., Il whistleblowing nella giurisprudenza Usa: illeciti d’impresa e posizione del lavoratore che li denuncia, in LG, 2006, X, pp. 938, cui si rinvia altresì per approfondire l’evoluzione storica dell’istituto negli Stati Uniti nonché per una interessante comparazione con gli ordinamenti UE.

(5) In tal senso D’AMORA F., Il whistleblowing in Italia tra profili lavoristici e privacy del dipendente, in Il Giuslavorista, 13 aprile 2017, cui si rinvia per ulteriori specifici richiami al diritto del lavoro USA.

(6) In merito, FORTUNATO S., Corporate governante: il whistleblowing nella prospettiva del sistema di controllo interno, in Riv. Dottori comm., fasc. 3, 2017, pag. 397 e ss. evidenzia come «in conclusione, l'analisi dello studio OCSE suggerisce che il whistleblowing, per essere efficace, non debba essere affrontato legislativamente solamente sotto il profilo della protezione del whistleblowers da ritorsioni, ma deve riguardare più aspetti del complessivo sistema di comunicazioni aziendali riferite alle responsabilità etiche e di conformità alla legge delle attività d'impresa che sono da diffondere in tutta la struttura aziendale e con i terzi».

(7) ll’uopo, condivisibili le considerazioni di D’AVINO E., L’imperfetta contrattualizzazione del lavoro pubblico nel prisma della disciplina anticorruzione, in LPA, 2015, II, pp. 300-302: «anzitutto, è la conclamata tutela dell'anonimato ad essere insufficiente. Infatti, siccome l'identità del segnalante, in caso di procedimento disciplinare, non è svelata solo qualora la contestazione dell'addebito sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, la tutela dell'anonimato è subordinata all'avvio di un procedimento ispettivo volto a rinvenire ulteriori prove a suffragio della soffiata. Tale procedimento, però, non è in alcun modo disciplinato né obbligatorio. Così questo tipo di tutela risulta, di fatto, affidata alla discrezionalità di altri soggetti che potrebbero facilmente vanificarla qualora non dovessero ritenere opportuno compiere detti accertamenti. Per rendere più concreta ed adeguata la disciplina sarebbe stata preferibile l'introduzione di un obbligo di avvio di procedure ispettive a seguito di denuncia o, quantomeno, la puntualizzazione delle modalità di un eventuale procedimento di accertamento. In tal caso l'attività del whistleblower avrebbe rappresentato il momento iniziale di un percorso più articolato ed efficace … Ciò è ancor più vero se si riflette su un ulteriore aspetto, consequenziale a quello appena esaminato.

Atteso che l'obiettivo del whistleblowing è quello di prevenire le condotte irregolari nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, è del tutto probabile — per non dire auspicabile — che il whistleblower, accortosi dell'intento di commettere un illecito, denunci ancor prima del suo perfezionamento.

In tal caso, anche qualora fossero effettuati accertamenti, potrebbe non emergere alcun dato idoneo a fondare l'addebito su ulteriori elementi; sicché, nel corso del procedimento disciplinare instauratosi la tutela dell'anonimato sarebbe necessariamente sacrificata al fine di garantire il diritto di difesa.

Ciò, nonostante il lavoratore abbia agito proprio nel momento più idoneo a prevenire l'illecito, magari riuscendo anche ad ostacolare in concreto la realizzazione dello stesso …

A ben vedere, l'aspetto appena delineato cela un problema latente, che è a monte dell'istituto del whistleblowing.

Per come è formulato l'art. 54 bis, infatti, appare difficile garantire contemporaneamente tutela del lavoratore e prevenzione della maladministration.

In realtà, nonostante la funzione preventiva del whistleblower, la norma nulla dispone sui requisiti necessari e sufficienti affinché una denuncia possa ritenersi fondata anche quando l'illecito non sia ancora perfezionato.

Purtroppo, il problema non è puramente teorico perché gli effetti di una tale lacuna si ripercuotono direttamente sul rapporto di lavoro.

Si crea, difatti, un labile confine tra liceità o non della denuncia, così da non comprendersi entro quali limiti si possa applicare la tutela ex art. 54 bis o, all'opposto, si debba ritenere legittimo — addirittura per giusta causa — un eventuale licenziamento irrogato a seguito di denuncia di un fatto poi non perfezionatosi.

Vi è, dunque, una sottile border line tra denuncia doverosa e calunnia e diffamazione che, invece, l'art. 54 bis tiene espressamente fuori dal suo ambito di applicazione.

È ovvio che le conseguenze scaturenti dall'una o dall'altra ipotesi non sono di poco conto, contrapponendosi due conseguenze estreme: tutele assolute per il dipendente o, all'opposto, legittimità di un eventuale licenziamento.

Occorrerebbe, quindi, fornire al lavoratore parametri cui ancorarsi per valutare da quale momento la denuncia possa ritenersi fondata, al fine di comprendere entro quali limiti essa rappresenti effettivamente adempimento di un dovere giuridico ed etico.

Il legislatore sarebbe potuto intervenire, contemperando e bilanciando i due estremi così da responsabilizzare il dipendente; non sfociandosi, dunque, in una implicita legittimazione a calunniare ma garantendo, al contempo, un ambito certo di applicazione delle tutele. Creando così un giusto equilibrio che non arrecasse danni né al lavoratore né al datore di lavoro; beneficiandone l'efficienza del buon andamento».

(8) In tal senso, LATTANZI R., Prime riflessioni sul c.d. whistleblowing, cit., p. 349, nonché AMATO G., Profili penalistici del whistleblowing …, cit., p. 582, ma soprattutto D’AMORA F., Il whistleblowing in Italia …, cit., il quale individua l’unico possibile rimedio per garantire l’anonimato del whistleblower: «sotto questo profilo, la normativa SOX potrebbe apparire non “importabile” direttamente in Italia, in quanto uno dei principi cardine su cui si basa è quello dell’anonimato del denunciante.

Ebbene, nelle applicazioni pratiche delle cc.dd. whistleblowing policies, si è osservato come la rivelazione del nome del denunciante sia stata evitata con la descrizione puntuale delle condotte denunciate: una descrizione completa dei fatti, senza che vi sia la rivelazione della fonte dell’informazione».

(9) L’economia del lavoro non consente una trattazione più ampia di una tematica così complessa: per ulteriori approfondimenti si rinvia a AMATO G., Profili penalistici del whistleblowing … cit, in Riv. trim. dir. pen. econ. 3-4/2014, pp. 549-607: sul punto, tuttavia, l’Autrice sottolinea come «La domanda che si pone è se sia preferibile che il diritto penale rimproveri l’eventuale omissione della segnalazione o se sia da prediligere la neutralità dello strumento punitivo di fronte a tale rischiosa reticenza. In sostanza, la condotta tutta omissiva del non rivelare potrebbe assumere le sembianze, in presenza degli specifici presupposti, di un favoreggiamento personale? O, addirittura, regredendo sul piano della materialità, di un concorso omissivo nel reato da altri realizzato, del quale si abbiano contezza o mero sospetto non rivelati? E, nella gamma delle soluzioni repressive, è possibile domandarsi quale tra le tipologie delittuose omissive prediligere: figure di reato omissivo proprie o improprie; e, tra queste ultime, la violazione sarebbe di un obbligo di garanzia o di un obbligo di sorveglianza? Sul versante opposto, soffiare il fischietto può assurgere a causa di non punibilità o a ipotesi di attenuazione del regime sanzionatorio per il concorrente sleale delatore?».

(10) Sul punto, v. Cons. Stato, Sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3601: secondo il Supremo Consesso, infatti, «la tolleranza verso denunce segrete e/o anonime è un valore estraneo al nostro ordinamento giuridico. Emblematico, in tal senso, è l’art. 111 Cost. che, nel sancire (come elemento essenziale del giusto processo) il diritto dell’accusato di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, inevitabilmente presuppone che l’accusato abbia anche il diritto di conoscere il nome dell’autore di tali dichiarazioni … l’anonimato sulle denunce o sulle dichiarazioni accusatorie è … guardato con particolare sospetto dall’ordinamento: da qui l’evanescenza e l’infondatezza di ogni tentativo volto a qualificare tale inesistente diritto all’anonimato come una prerogativa del diritto alla riservatezza».

V. – da ultimo – T.A.R. Brescia, (Lombardia), sez. I, 12 luglio 2016, n. 980 secondo cui «il nostro ordinamento non tollera le denunce segrete e colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce o esposti. Non si può dunque, escludere che l'immediata comunicazione del nominativo del denunciante potrebbe riflettersi negativamente sullo sviluppo dell'istruttoria. Ma ciò può, a tutto concedere, giustificare un breve differimento del diritto di accesso».

(11) Così D’AMORA F., Il whistleblowing in Italia ..., cit.

(12) LATTANZI R., Prime riflessioni sul c.d. whistleblowing …, cit., pp. 343-347.

(13) V. ex multiis, Cass. civ., Sez. Lav., 26/09/2017, n. 22375, per la quale «non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all'Autorità giudiziaria competente fatti di reato commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell'illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti. È di per sé sola irrilevante la circostanza che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con l'archiviazione della "notitia criminis" o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa.

A differenza delle ipotesi in cui è in discussione l'esercizio del diritto di critica, nelle ipotesi di denuncia e di querela non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio»; Cass. civ., Sez. Lav., 18/07/2017, n. 17735, in Quotidiano Giuridico, 2017:«l'esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l'impresa; il relativo accertamento costituisce giudizio di fatto che, se correttamente e congruamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità»; Cass. Civ., Sez. Lav., 24/01/2017, n. 1752, in FI. 2017, 3, I, 884: « È legittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore pubblico che invii ad alcuni soggetti istituzionali (prefettura, procura della repubblica e Corte dei conti) una memoria contenente la denunzia di condotte illecite da parte dell'amministrazione di appartenenza palesemente priva di fondamento, configurandosi una condotta illecita, univocamente diretta a gettare discredito sull'amministrazione medesima, non potendosi peraltro configurare, nella specie, le condizioni per l'applicabilità della disciplina del c.d. "whistleblowing" ex art. 54 bis d.lg. n. 165 del 2001»; Cass. civ., Sez. Lav., 26/10/2016, n. 21649, in D&G, 2016, 26 ottobre e in Ilgiuslavorista.it, 2016, 28 ottobre:

«In tema di esercizio dei diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, è necessario che il prestatore si limiti a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l'impresa … L'esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l'impresa» nonché Cass., Sez. Lav., 16.2.2017, n. 4125, in D&G, 2017, 31, p. 15, nt. LEVERONE I., Il lavoratore può denunciare il datore di lavoro senza rischiare il licenziamento?: «La Suprema Corte ha inoltre escluso che l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c. possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, poiché in tal caso si correrebbe il rischio di scivolare verso non voluti ma impliciti riconoscimenti di una sorta di dovere di omertà, contrario sia al predetto obbligo di fedeltà sia ai principi cardine del nostro ordinamento. Peraltro, prosegue il Collegio, lo stato di diritto attribuisce valore civico e sociale all'iniziativa del privato che solleciti l'intervento dell'autorità giudiziaria di fronte alla violazione di legge penale, finalizzata alla realizzazione dell'interesse pubblico alla repressione di fatti illeciti. Da ciò discende che l'esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall'art. 333 c.p.p., non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell'insussistenza dell'illecito o dell'estraneità allo stesso dell'incolpato».

(14) La complessità e la vastità del diritto di critica è tale per cui – per l’economia del lavoro – non è possibile analizzarlo pienamente: per ulteriori approfondimenti sul punto si rinvia a DESSI’ O., Il diritto di critica del lavoratore, in RIDL, 2013, II, pp. 395-426.

(15) Il diritto di critica del lavoratore è stato mutuato dalla Giurisprudenza del Lavoro con riferimento al diritto di critica giornalistica. Al riguardo, si precisa che per continenza sostanziale deve intendersi la rispondenza dei fatti a veridicità e obiettività, senza travalicare nelle opinioni; per continenza formale il rispetto dei parametri di correttezza e civiltà desumibili dalle fondamentali regole del vivere civile: nello specifico, l’esposizione dei fatti deve essere caratterizzata da un linguaggio corretto, privo di toni denigratori e di insinuazioni, limitandosi allo scopo informativo previsto: in tal senso, DESSI’ O., Il diritto di critica del lavoratore ..., cit.

(16) V. supra, par. 2, D’AVINO E., L’imperfetta contrattualizzazione …, cit., pp. 298-304.

(17) Sul punto v. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-11-15/il-whistleblowing-e-legge-tutelato-dipendente-che-segnala-illeciti-120411.shtml nonché Whistleblowing, in vigore le nuove norme: tutelato il dipendente che segnala illeciti, in www.altalex.com , 29 dicembre 2017. In senso critico DE VITA G., Whistleblowing e privacy: luci ed ombre della nuova norma, in www.altalex.com , 30 novembre 2017.

L’Autore sottolinea, con specifico riferimento al settore privato, alcune lacune normative, tra le quali, a titolo semplificativo e non esaustivo: la creazione di una discriminazione tra società che adottano il modello organizzativo e società che non lo adottano, con la conseguenza che i soggetti operanti in queste ultime saranno privi di tutela; la mancanza di sanzioni nei confronti del soggetto che ha l’obbligo di fare segnalazioni/denunce e non vi ottemperi; la mancata indicazione tra i reati oggetto di segnalazione di quelli in corso di esecuzione; la mancata chiarezza sulle condotte illecite da segnalare/denunciare, per tali intendendosi solo quelle a danno dell’ente o anche quelle a suo vantaggio.

Per un commento all’embrionale DDL 2208 v. SALAZAR P., La segnalazione di illeciti integra un comportamento sanzionabile?, in LG, 2017, VI, p. 586: l’autrice, sostanzialmente, evidenzia come «appare così, chiaramente, una più incisiva prevalenza dell’interesse pubblico alla punizione degli illeciti e delle irregolarità commesse sia dalla pubblica amministrazione sia dalle persone giuridiche di diritto privato e dagli altri enti dotati di personalità giuridica, rispetto alla tutela della riservatezza e del segreto derivanti dal rapporto di lavoro»

Per le prime considerazioni sulla l. 179/2017, con specifico riferimento al lavoro privato, v. GOFFREDO M.T, Legge sul whistleblowing e aziende private: cosa cambia, in Il Giuslavorista, 19.12.2017: l’Autore rileva come «si prospettano quindi una serie di adempimenti a carico delle aziende sia sui sistemi informatici, sia sui modelli organizzativi, sia sulle procedure aziendali anche in materia disciplinare. Sotto un altro profilo i dipendenti, ma anche i collaboratori di un'azienda potranno con maggiore tranquillità segnalare gli illeciti. Sarà poi un problema quando un lavoratore subirà una modifica del rapporto, riuscire a dimostrare o al contrario ad escludere, che il provvedimento non sia collegato con la segnalazione.

E, al limite, qualche lavoratore potrà abusare dello strumento della segnalazione per acquisire impropriamente una protezione aggiuntiva della sua condizione lavorativa. Staremo a vedere se la nuova legge provocherà un proliferare di segnalazioni anonime o se invece prevarrà un costume propenso a "non interessarsi dei fatti degli altri"».

(18) In definitiva, a parer di chi scrive, la l. 179/2017 rappresenta un importante salto di qualità per il nostro Paese su un fenomeno così delicato come il whistleblowing: tuttavia, la vera partita si gioca sempre e comunque sul piano aziendale.

Ne è consapevole FORTUNATO S., Corporate governante: il whistleblowing … cit., il quale sottolinea giustamente che «il tema del whistleblowing rientra pienamente anche nella visione e nelle iniziative delle imprese quali soggetti che responsabilmente rispondono e contribuiscono alla società civile ed alle comunità con cui interagiscono e non merita per ciò di essere sottovalutato. In conclusione, ci si augura che saranno le scelte organizzative delle singole imprese, il confronto con il mercato ed, infine, le linee guida di c.d. soft law ad elevare l'utilità del whistleblowing che, se correttamente compreso ed utilizzato, può effettivamente anch'esso contribuire ad un cambiamento culturale positivo nella vita delle imprese».

(19) Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza 21 luglio 2011, causa n. 28274/08, Heinisch c./Germania, citata da D’AVINO E., L’imperfetta contrattualizzazione del lavoro pubblico…cit.

 

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