La tutela dell’interior design e del concept store.

Deve considerarsi opera dell'architettura anche un progetto o un'opera di arredamento di interni e come tale può essere protetta e tutelata.



Nota a Cass. civ. n. 8433 del 30 aprile 2020

a cura dell'Avv. Andrea D'Amico

Approda in Cassazione la controversia in materia di tutela autorale del “concept” e di concorrenza sleale che ha visto impegnati sin da 2009 (dapprima in procedimenti cautelari, indi con il merito) Kiko SpA e Wycon SpA (già Wjcon Srl), note imprese operanti nella produzione e commercializzazione di prodotti cosmetici e di profumeria.

Con la sentenza n. 8433/2020 in commento la S.C. di Cassazione, sez. I civile, conferma – con argomentazione coerente ai principi regolanti la materia ed ai precedenti arresti giurisprudenziali – la tesi già espressa in sede di merito, a parere della quale la tutela riconosciuta alle opere di interior design dall’art. 2, num. 5, della l. 633/1941 (in avanti “l.d.a.”) può – a talune condizioni di cui si dirà – essere anticipata sino ad abbracciare il “concept”.

Prima di procedere alla narrazione della vicenda processuale, nonché all’elencazione delle statuizioni più significative rese dal Supremo Collegio nella sentenza in commento, si reputa opportuno fornire una breve panoramica sui principali strumenti di tutela offerti dal nostro ordinamento alle opere di interior design, nonché definire una nozione di “concept” utile ai fini della migliore comprensione del presente scritto.

Gli strumenti di tutela dell’interior design 

A norma dell’art. 2, num. 5, l.d.a. “sono compresi nella protezione: (…) 5) i disegni e le opere dell’architettura”.

Si ritiene pacificamente [v. per tutti P. Galli, commento all’art. 2 l.d.a., in L. C. Ubertazzi (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2019, 1648 e ss., con ivi ampi riferimenti a dottrina e giurisprudenza] che la tutela autorale copra: 

(i) i disegni; 

(ii) i progetti (ivi compresi, in particolare, il progetto preliminare e quello esecutivo, sino a comprendere – sia pure a seguito di un severo scrutinio circa la sussistenza del carattere creativo – i meri studi di fattibilità: Trib. Milano, 12.4.2005 in AIDA, 2006, 1086); nonché 

(iii) gli edifici che ne costituiscono attuazione; indubbio è, poi, che la protezione abbracci anche 

(iv) gli arredamenti di interni.

Secondo la tesi prevalente (peraltro accolta tanto in sede di legittimità che di merito dagli organismi chiamati a pronunciarsi sulla controversia in esame) l’opera architettonica riceve tutela a condizione di non costituire una “forma necessitata”, ovverosia un risultato imposto da un problema tecnico/funzionale che l’autore si propone di risolvere [tra le altre si vedano Trib. Milano sentenza 15.10.2015 (sentenza di prime cure tra le parti in lite, n.d.r.), nonché Trib. Milano sentenza 4.3.2010, entrambe in banca dati “OneLegale”]. 

La stessa soluzione di problemi tecnici, peraltro (vi si accenna per mera completezza), non risulta a sua volta sfornita di tutela, ben potendo accedere – sussistendone i requisiti – alla protezione accordata ai progetti di ingegneria dall’art. 99 l.d.a.. 

Ai fini dell’accesso alla tutela autorale dell’interior design, parte minoritaria della giurisprudenza ha ritenuto necessaria anche la presenza di un quid pluris, rappresentato dalla sussistenza di un valore estetico autonomo e separato dalla funzione utilitaria dell’opera architettonica (Trib. Treviso, 11.12.2006, in AIDA, 2008, 1211). Sebbene tale posizione paia superata, la presenza di un elevato gradiente artistico non è del tutto priva di rilevanza, stante il disposto dell’art. 20 (2) l.d.a. a norma del quale “nelle opere dell’architettura l’autore non può opporsi alle modificazioni che si rendessero necessarie nel corso della realizzazione. Del pari non potrà opporsi a quelle altre modificazioni che si rendesse necessario apportare all’opera già realizzata. Però se l’opera sia riconosciuta dalla competente autorità statale importante carattere artistico spetteranno all’autore lo studio e l’attuazione di tali modificazioni”. 

Accanto alla tutela autorale, l’ordinamento predispone, in favore del titolare dell’interior design, talune tutele concorrenti. 

Tra di esse è possibile citare, in primis, la protezione riconosciuta al design industriale, cosicché i disegni e/o modelli di mobilia ed arredamenti possono senz’altro costituire oggetto di registrazione a norma degli artt. 31 e ss. del d.lgs. 30/2005, ovvero, in assenza di registrazione, possono accedere alla tutela apprestata dall’ordinamento al design non titolato. Sebbene non vi sia unanimità sul punto, tale conclusione parrebbe potersi estendere anche ad elementi non costituenti prodotto, come, in particolare, gli allestimenti di spazi, [v. per tutti F. Sanna, commento all’art. 31 d.lgs. 30/2005, in L. C. Ubertazzi (a cura di), Commentario breve (…), cit., 379). La Corte di Giustizia dell’U.E. parrebbe aver recentemente fugato ogni dubbio circa la possibilità di cumulo tra la tutela autorale e quella in materia di disegni e modelli, sostenendo che i prodotti di industrial design possono considerarsi “opere dell’ingegno” (assoggettate, per l’effetto, a tutela autorale) in presenza di un carattere creativo (nel senso che il design deve riflettere la personalità del suo autore, manifestando le scelte libere e creative di quest’ultimo, fermo che scelte determinate da considerazioni di carattere tecnico, da regole o altri vincoli che non lasciano margine per la libertà creativa, non possono ritenersi originali ai fini della tutela autorale) e di una sufficiente compiutezza espressiva (cosicché una mera idea non costituisce “opera dell’ingegno”, ma abbisogna di concretizzarsi in un un oggetto identificabile con sufficiente precisione e oggettività) (v. C.G.U.E. sent. 12.9.2019 in C-683/2017, punti 30 e ss., con ivi ampi riferimenti alla giurisprudenza comunitaria pregressa).

Sotto altro profilo, la giurisprudenza si è interrogata sulla registrabilità come marchio d’impresa dell’interior design: pur essendo giunta, ad oggi, ad una sostanziale apertura in materia (v. Corte di Giustizia dell’U.E. nel celebre caso “Apple”, C-421/13), l’accesso alla tutela accordata ai segni distintivi pare nondimeno ardua, come la stessa Kiko SpA ha avuto modo di sperimentare vedendosi rigettare dall’E.U.I.P.O. la richiesta di registrare l’allestimento dei propri negozi come marchio tridimensionale dell’U.E. (E.U.I.P.O., Commissione dei Ricorsi, proc. n. R-1135/2015-1). 

Infine, in presenza di un rapporto di concorrenza vengono in rilevo le norme dettate dall’art. 2598 c.c. in tema di concorrenza sleale (sul punto – che pure costituisce ampia parte della pronuncia in commento – non ci si dilungherà in quanto esulante dall’oggetto del presente scritto).

Il concept

Tanto osservato circa gli strumenti di tutela e la loro astratta cumulabilità, è necessario ora chiarire cosa si intende con l’espressione “concept” o (in quanto riferita ad un esercizio di commercio al dettaglio) con l’espressione “concept store”.

Secondo il dizionario Garzanti un “concept store” è uno “spazio commerciale che unisce prodotti e attività di diverso genere (ristorazione, libreria, beauty center ecc.) in un’ambientazione progettata con cura, per avere sul cliente un impatto comunicativo coerente”.

Come sostenuto da autorevole dottrina (e con maggior focus agli aspetti meramente giuridici), «il termine “concept” (…) può correntemente rendersi come una proposta necessaria a definire gli elementi fondamentali ed essenziali di un progetto e fornirne le basi per la realizzazione dello stesso» (S. Sandri, Visual merchandising: l’interpretazione della giurisprudenza e i dubbi applicativi, in Dir. Ind., 2016, 5, pag. 6).

Da un punto di vista eminentemente giuridico, dunque, il “concept” è poco più di un’idea, in sé tutelabile ai sensi della l.d.a. solo in presenza: (i) di una sufficiente compiutezza espressiva, nonché (ii) dell’impronta creativa dell’autore (n.b.: la sintesi – estrema – che precede viene fornita al solo fine di favorire una migliore comprensione del presente scritto e senza alcuna pretesa di abbracciare le multiformi sfumature – giuridiche e non – che il temine “concept” racchiude in sé).  

Ancorché la tematica di opere dell’ingegno prive di una compiutezza espressiva (e ciò non di meno tutelate ai sensi della l.d.a.) sia ben nota (si pensi al fenomeno del “format”), la declinazione del fenomeno nel campo del disegno architettonico presenta i caratteri della novità. La pronuncia in commento, dunque, desta interesse poiché, almeno in base a quanto consta allo scrivente, rappresenta una prima verifica in sede di legittimità delle tesi propugnate dalle Corti di merito. 

Alla luce di quanto precede, è ora possibile narrare le vicende sostanziali e processuali relative alla pronuncia in commento.

La vicenda

Con citazione innanzi al Tribunale di Milano dell’anno 2013 Kiko SpA chiamava in giudizio Wycon SpA, lamentando, in particolare: (a) la violazione dei propri diritti autorali sul concept store che la stessa Kiko SpA aveva commissionato ad apposito Studio di consulenza e successivamente attuato all’interno della propria rete di punti vendita, declinando di volta le caratteristiche salienti del concept secondo le peculiarità di ciascun punto vendita; e (b) la violazione delle regole poste a presidio della leale concorrenza tra operatori. Sosteneva, in particolare, Kiko SpA, che la convenuta aveva riprodotto nei negozi appartenenti alla propria rete commerciale sia le caratteristiche estetiche dei propri store, sia talune iniziative, nonché elementi funzionali ed estetici e finanche il layout del proprio sito internet (non veniva, invece, attivata la tutela offerta dalle succitate nome in materia di design industriale, cosa che pure Kiko SpA avrebbe potuto fare stando a quanto è noto circa la controversia in esame). Per l’effetto, Kiko SpA chiedeva, in particolare, l’inibizione delle altrui condotte illegittime unitamente ad un congruo risarcimento.

Costituitasi Wycon SpA, essa chiedeva il rigetto delle domande avversarie deducendo, inter alia, la carenza di carattere creativo in capo agli allestimenti realizzati (peraltro in modi sempre difformi da negozio e negozio) dagli store appartenenti alla rete vendita di Kiko SpA. Sosteneva, in particolare, la convenuta, che le caratteristiche dei punti vendita Kiko fossero del tutto comuni nel settore di riferimento e, per l’effetto, che essi non fossero meritevoli di tutela.

Ad esito del giudizio di prime cure il Tribunale di Milano confermava la tesi di parte attrice, accertando e dichiarando la contraffazione – ad opera della convenuta – dei diritti autorali sul concept store vantati da Kiko SpA, nonché la concorrenza sleale “parassitaria” di Wycon SpA (peraltro liquidando un risarcimento che ha fatto discutere).

Vale la pena riportare qui uno stralcio della pronuncia di prime cure, ove il Tribunale di Milano chiarisce cosa risulta – a suo avviso – meritevole di tutela, individuando, dunque, gli elementi ritenuti dotati di capacità espressiva del progetto di interior design di titolarità di Kiko SpA: «Tale progetto, di stile minimalista caratterizzato da simmetrie ed essenzialità, era fondato – in sintesi – su di un ingresso open space, con ai lati due grandi grafiche retroilluminate, a creare una sorta di portale essenziale e senza riprendere la comune esposizione di prodotti; su interni aventi espositori laterali consistenti in strutture continue e inclinate, le pareti caratterizzate da alloggi in plexiglass trasparente traforati nei quali sono inseriti i prodotti; su “isole” a bordo curvilineo posizionate al centro dei negozi per contenere i prodotti o fornire piani di appoggio; sulla presenza di numerosi schermi TV incassati negli espositori inclinati; sull’utilizzazione di combinazioni dei medesimi colori (bianco, nero, rosa/viola) e di luci ad effetto discoteca» (Trib. Milano sentenza 15.10.2015 in banca dati “OneLegale”).

Il pronunciamento del Tribunale risultava sostanzialmente confermato in grado di appello, sì da indurre Wycon SpA a spiegare apposita impugnazione in Cassazione, dinanzi alla quale venivano articolati n. 12 (dodici) motivi di ricorso. Per quanto qui interessa ci si concentrerà sui motivi di ricorso nn. 3 e 4 (“violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2, n. 5 L.A., sia quanto alla qualificazione giuridica della fattispecie come opera dell’architettura, pur in mancanza di un progetto d’arredo concreto e definito in tutti i suoi connotati espressivi formali, sia, in relazione all’art. 2, n. 10 L.A., quanto alla qualificazione giuridica della fattispecie come opera dell’architettura anziché come opera di design e conseguente mancata valutazione della stessa ai fini della verifica della sussistenza, per l’accesso alla tutela, del requisito del valore artistico”) e 7 (“violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 12 L.A. in relazione al capo della sentenza che ha dichiarato sussistente il plagio, sulla base di un’impressionante somiglianza tra gli allestimenti dei rispettivi punti vendita di Kiko e di Wjcon, senza dare atto di evidenti differenze esistenti”), tralasciando, in particolare, i motivi di ricorso articolati in merito alla concorrenza sleale parassitaria (motivi che, pur essendo degni di interesse, esulano dall’oggetto del presente scritto).   

Resisteva in giudizio Kiko SpA, spiegando a sua volta ricorso incidentale (i cui contenuti non verranno qui esaminati).

La decisione della Suprema Corte

L’iter logico-giuridico seguito dalla S.C. presenta una indubbia continuità con i principali arresti raggiunti dalla giurisprudenza in tema di tutela autorale. 

In particolare, la Cassazione: (i) esordisce sostenendo che “l’opera dell’ingegno è protetta dall’ordinamento purché presenti un qualche elemento od una qualche combinazione che sia originale, frutto della creatività, ancorché minima del suo autore (Cass. 908/1995), così da potersi identificare, pur inserendosi in un genere assai diffuso, per essere un prodotto singolare dell’autore e da poter essere individuata tra le altre analoghe (Cass. 7077/1990)”; (ii) prosegue affermando che “Ciò che è tutelato è l’opera dell’ingegno in quanto estrinsecata in una determinata forma e non l’idea in sé e per sé, anche se originale” (Cass. Civ. 5301/1999); e (iii) conclude statuendo che, stante quanto precede, “Per essere tutelabile, il progetto o l’opera di architettura d’interni deve essere, tuttavia, sempre identificabile e riconoscibile sul piano dell’espressione formale come opera unitaria d’autore, per effetto di precise scelte di composizione d’insieme degli elementi (ad es. il colore delle pareti, particolari effetti nell’illuminazione, la ripetizione costante di elementi decorativi, l’impiego di determinati materiali, le dimensioni e le proporzioni). Infatti, l’esclusiva riguarda il complesso, l’opera unitaria di organizzazione dello spazio, l’utilizzo congiunto degli elementi di arredo secondo il medesimo disegno organizzativo”. 

Ad esito del percorso argomentativo suindicato, la S.C. elabora il seguente principio di diritto: «in tema di diritto d’autore, un progetto o un’opera di arredamento di interni, nel quale ricorra una progettazione unitaria, con l’adozione di uno schema in sé definito e visivamente apprezzabile, che riveli una chiara “chiave stilistica”, di componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile quale opera dell’architettura, ai sensi dell’art. 5, n. 2 L.A. (“i disegni e le opere dell’architettura”), non rilevando il requisito dell’inscindibile incorporazione degli elementi di arredo con l’immobile o il fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore dell’arredamento di interni, purché si tratti di un risultato di combinazione originale, non imposto dalla volontà di dare soluzione ad un problema tecnico-funzionale da parte dell’autore».

Per l’effetto, la Cassazione rigetta i motivi di ricorso nn. 3 e 4 articolati dalla ricorrente in quanto in parte inammissibili ed in parte infondati.

Confermata, alla luce di quanto sopra, la tutela autorale del concept, la S.C. si concentra sulla questione della contraffazione dello stesso da parte di Wycon SpA.

Invero, costituisce insegnamento pacifico (peraltro ribadito dalla sentenza in commento) quello in base al quale “In presenza di un livello non particolarmente elevato di creatività presente nell’opera tutelata, varianti pur minime possono essere sufficienti ad escludere la contraffazione”, fermo, in ogni caso, che “si ha violazione dell’esclusiva non solo quando l’opera è copiata integralmente (riproduzione abusiva in senso stretto), ma anche quando vi sia contraffazione dell’opera precedente, contraffazione implicante delle differenze oltre che delle somiglianze (Cass. 12314/2015; Cass. 804/2016); quando si tratta di valutare se c’è o meno contraffazione non è determinante, per negarla, l’esistenza di differenze di dettaglio, rilevando solo che i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore siano riconoscibili nell’opera successiva (Cass. n. 7077/90)”.

Sulla scorta dei principi appena richiamati la S.C. arriva a rigettare il motivo di ricorso n. 7, siccome infondato. Invero, il ragionamento della Corte parrebbe difettare di una concreta declinazione dei principi di diritto succitati secondo le circostanze del caso di specie (sia pure con i ben noti limiti all’esame dei fatti di causa propri del giudizio di Cassazione), sebbene tale assenza paia essenzialmente dovuta al motivo di ricorso così come articolato da Wycon SpA (e trasposto nella sentenza in commento), nonché al minimo spazio concesso dalla giurisprudenza di merito all’aspetto in esame (lo stesso Trib. Milano, in particolare, si limita ad affermare che Wycon SpA avrebbe apportato modeste modifiche al progetto complessivo dell’ambientazione degli interni dei suoi negozi di cosmetici, senza tuttavia dilungarsi oltre). Una pronuncia più circostanziata, ad ogni buon conto, sarebbe stata auspicabile tenuto conto anche del fatto che non sussiste contraffazione quando la ripresa di un “canovaccio” (quale, con le dovute proporzioni, potrebbe essere considerato il concept) si esplichi mediante la sola riproduzione di particolari non significativi o già noti o che costituiscano semplici idee diversamente rappresentante, cioè di elementi secondari o di dettaglio (v., in proposito, Cass. Civ. 13249/2011, che, pur vertendo in materia di format, parrebbe enunciare un principio di diritto avente potenziale affinità con la materia del concept).

Per mera completezza (non costituendo oggetto del presente scritto), si segnala come, nonostante quanto sopra, la S.C. abbia accolto i motivi di ricorso articolati dalla ricorrente in tema di concorrenza sleale, per l’effetto rinviando la prosecuzione del giudizio ad un’ulteriore fase di merito.

Alla luce di tutto quanto sopra, la tutelabilità del concept con il paradigma autorale parrebbe oramai acquisita. 

Come osservato, la pronuncia di Cassazione presenta una indubbia continuità con i precedenti giurisprudenziali regolanti la materia, in ciò confermando anche la vis espansiva del diritto d’autore nell’abbracciare fenomeni nuovi ed atipici. 

L’anticipazione della tutela al concept, ad ogni modo, suscita talune perplessità nella misura in cui, all’atto pratico, potrebbe almeno astrattamente determinare una compressione dell’altrui iniziativa imprenditoriale: volendo fare una riflessione che si innalza al di sopra del caso di specie, viene da chiedersi, in particolare, se il paradigma autorale, tanto aggirabile quanto duraturo nel tempo, sia la miglior forma di tutela per le opere di interior design di negozi, per i quali gli aspetti più propriamente autorali risultano inevitabilmente legati a – normalmente ben più rilevanti – esigenze concorrenziali, o se in tali circostanze non debbano invece essere valorizzate forme di tutela alternative (oltre ai tradizionali istituti della responsabilità aquiliana e della concorrenza sleale si potrebbe pensare, ad esempio ed entro i limiti di legge, ad una valorizzazione della funzione dell’insegna), maggiormente concentrate sulla rilevazione degli aspetti confusori ed anticoncorrenziali della condotta.

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