DIRITTO DEL LAVORO. Socio accomandatario deceduto durante il processo e rilevanza probatoria delle dichiarazioni rese.. Nullitą parziale della clausola di riduzione dell'orario di lavoro.
Nota di Simona Rapagnetta
Il sig. C.., impiegato della società C. s.a.s.., a fronte di una decisione unilateralmente imposta dal datore di lavoro ai lavoratori di ridurre l’orario di lavoro e trasformarlo da tempo pieno a tempo parziale, ricorreva al fine di vedersi riconosciuta la corresponsione dell’importo spettante per le ore prestate in meno rispetto a quelle contrattualmente previste. Il giudice di I° grado, rigettava la domanda adducendo che la riduzione dell’orario di lavoro si sarebbe giustificata sulla base di un accordo stipulato e sottoscritto dalle parti nel 1990. In appello, il ricorrente si vedeva riconosciuto il diritto a vedersi corrisposta la somma di € 7.793,12 a titolo di retribuzione per le ore lavorative non prestate a seguito della riduzione delle ore imposta della parte datoriale. Durante lo svolgimento del giudizio d’appello, interveniva l’evento-morte di uno dei soci accomandatari: il processo, perciò, s’interrompeva per essere poi successivamente riassunto. La società C. s.a.s., in Cassazione, impugnava la sentenza d’appello eccependo, in via preliminare, la nullità della sentenza d’appello stessa dato che a seguito della riassunzione del processo, non venivano citati gli eredi del socio accomandatario deceduto; alla base di tale eccezione veniva addotta una presunta violazione ex artt 101 e 102 c.p.c. Con il secondo motivo di gravame, si contestava il modus operandi del giudice d’appello in merito alla circostanza che, secondo la ricorrente, egli aveva basato la sua decisione, in via esclusiva, su quanto dichiarato dal resistente in sede di libero interrogatorio rilasciato ex art. 420 c.p.c. La terza questio, si incardinava sull’istituto della mora credendi, ex art. 1206 cc, ed, in particolare, sulla circostanza che la mancata prestazione delle ore da parte del lavoratore, intervenuta a seguito di decisione unilaterale imposta dalla parte datoriale di riduzione dell’orario di lavoro, implicava che l’onere di provare di non dover corrispondere alcuna retribuzione al lavoratore per le ore oggetto della riduzione medesima, sia a carico del datore di lavoro; sul lavoratore, pertanto, non gravava alcun obbligo di dover provare di non aver potuto svolgere il proprio lavoro, per causa indipendente dalla propria volontà. Sul lavoratore, inoltre, non gravava neppure l’onere di dimostrare di aver messo infruttuosamente a disposizione del datore di lavoro il proprio tempo. L’ultimo motivo di gravame si riallacciava direttamente al principio sancito nell’art. 1219 c.c. ovvero al principio di conservazione del negozio giuridico colpito da nullità parziale. La clausola relativa alla riduzione dell’orario di lavoro unilateralmente imposta e comunicata solo verbalmente, comportava, ex art. 5 del D.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, la nullità della stessa. La sua nullità, però, non pregiudicava la piena validità del contratto di lavoro che, privato dalla clausola di cui sopra, si convertiva in un contratto pienamente efficace. Decadeva, pertanto,l’orario di lavoro parziale, tornando, così, in auge l’orario di lavoro a tempo pieno.
La prima
quaestio è connessa alla natura giuridica della società in accomandita semplice ed, in particolare, allo status di erede di uno dei soci accomandatari. Veniva eccepita, in via preliminare, la nullità della sentenza e di tutto il relativo procedimento per violazione del
principio del contraddittorio: l’ omessa integrazione allo stesso degli eredi di uno dei soci accomandatari venuto a mancare nel corso del giudizio, rappresenterebbe una chiara ed in equivoca inosservanza dei precetti normativi ex a
rtt. 101 e
102 c.p.c.. La s.a.s., ex
art. 2247 cc,si identifica con quella tipologia di impresa attraverso la quale due o più persone conferiscono beni e/o servizi per l’esercizio in comunione di attività economica con lo scopo di dividerne gli utili; tratto distintivo di questa società è che i soci accomandatari rispondono, a differenza di quelli accomandanti, solidamente ed illimitatamente per le obbligazioni solidali; ai soli soci accomandatari, dunque, è attribuita l’amministrazione della società. Nel caso in specie, la morte di uno dei soci accomandatari avrebbe dovuto ingenerare ipso iure l’instaurazione di un litisconsorzio necessario con gli eredi del de cuius, nel momento in cui si è addivenuti alla riassunzione del giudizio a seguito della sua interruzione per morte del socio accomandatario. Prima di procedere con l’analisi della questio, è funzionale quanto doveroso ricordare che il litisconsorzio necessario, ex art. 102 c.p.c., si rinviene ogniqualvolta, in un processo civile, si è in presenza di due o più attori (litisconsorzio attivo) o due o più convenuti (litisconsorzio passivo)e la decisione non può essere validamente pronunciata se non nei confronti di più parti; la conditio sine qua non della piena ed indiscutibile validità della pronuncia è che tutte le parti si siano costituite in giudizio e abbiano così instaurato il contraddittorio tra le stesse in ossequio ai principi stabiliti in primis a livello costituzionale. Il litisconsorzio necessario a carattere sostanziale differisce dal litisconsorzio a carattere processuale perché nel primo caso si è in presenza di un rapporto giuridico unitario mentre nel secondo caso, sussiste un oggettivo rapporto di dipendenza tra due o più cause o per la natura propria della situazione giuridica controversa o per effetto di domande proposte congiuntamente. Partendo dal presupposto che, nel caso oggetto del presente esame, i soci della ricorrente condividono una unitarietà soggettiva ed oggettiva perfettamente coincidente con l’ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale poiché si configura un interesse della società (intesa come autonomo soggetto giuridico) che non si identifichi con la somma degli interessi dei soci medesimi, occorre analizzare se la morte di uno dei soci accomandatari, interrompa di fatto e di diritto tale vincolo evidentemente non trasmissibile agli eredi Nelle società di persone, la morte di uno dei soci porta alla cessazione della qualità di socio stesso la quale, pertanto, non si trasferisce ope legis, agli eredi; ciò che invece diviene immediatamente operante è la monetizzazione della quota e la sua corrispondente liquidazione nel corrispondente importo pecuniario. Tale principio ha trovato la sua consacrazione nella pronuncia della Suprema Corte (Cass.Sez I n. 21803 dell’ 11/10706) nella quale viene specificato che nelle società in accomandita semplice, soltanto la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte, ai sensi dell’art. 2284 cc, in virtù del quale gli eredi non subentrano nella posizione del defunto nell’ambito della società, e non assumono quindi la qualità di soci accomandatari a titolo di successione mortis causa ma hanno diritto soltanto alla liquidazione della quota del loro dante causa…” Da ciò si deduce agevolmente che la trasmissibilità della quota con il relativo acquisto della qualifica di socio accomandatario può porsi solo quale conseguenza di un’apposita clausola statutaria che espressamente preveda il sub ingresso dell’erede di uno dei soci accomandatari stabilendo a monte il modus operandi in merito. Si sarebbe palesata un’evidente violazione del principio del contraddittorio, ex art. 101 c.p.c., ingenerando una nullità della sentenza, se uno dei soci (in vita) non fosse stato citato ma, nel caso in specie, gli eredi del socio accomandatario, non subentrando nella posizione di accomandatari, non avevano alcun diritto a partecipare in veste di litisconsorti necessari né sostanziali (perché non hanno ereditato la qualifica di soci) né processuali (poiché gli stessi non sono titolari di alcun giudizio dipendente e/o concatenato a quello principale) e n merito al giudizio riassunto, sussisteva, nei loro riguardi, un generico “dovere” di litis denuntiatio.
Rigettata la prima eccezione preliminare, il secondo motivo di gravame si fonda su una presunta violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del D.l. 726/84 nella misura in cui l’accordo intercorso tra il C. s.a.s. e il C. avente ad oggetto la riduzione dell’orario di lavoro non abbia rivestito la forma scritta richiesta ab substantiam. Il ricorrente in Cassazione, infatti, eccepiva che la decisione presa dalla Corte d’Appello si basava esclusivamente sulle dichiarazioni rese dal C., nel corso del libero interrogatorio e che il giudice d’appello abbia attribuito loro un autentico valore confessorio. Il C., in tal sede, aveva affermato che la riduzione dell’orario di lavoro, seppur non avendo avuto formale consacrazione in un atto scritto, era comunque stato oggetto di un apposito accordo concordato tra le parti ed approvato nel 1990. La società ricorrente, pertanto, contestava la circostanza che la Corte d’Appello aveva rigettato il ricorso basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni rese dal C., a nulla rilevando altre fonti di prova prodotte in giudizio.
Il libero interrogatorio, ex
art. 420 c.p.c., rappresenta un mezzo di prova diretto d acquisire ulteriori elementi di valutazione al giudice al fine di fornire una maggiore esattezza del thema decidendum; svolge, pertanto, una funzione sussidiaria e di riscontro rispetto ad elementi di prova già acquisiti. Recita testualmente l’
art. 420 c.p.c. “Nell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti…”: da una lettura attenta si deduce l’obbligatorietà del libero interrogatorio ma la sua eventuale omissione non determina la nullità della sentenza. La rilevanza probatoria delle dichiarazioni rese a seguito di libero interrogatorio non è assolutamente di tipo confessorio: solo per mezzo di un interrogatorio formale, infatti, si addiviene ad una confessione giudiziale, ex art. 228 c.p.c. che sola assurge a prova legale in senso stretto. La confessione giudiziale, infatti, vincola il giudice il quale dovrà ritenere raggiunta la prova in ordine alla veridicità dei fatti ammessi.
Interviene la pionieristica pronuncia della Suprema Corte (Cassazione civile Sentenza, Sez. Lav., 20/05/1995, n. 5590) nella quale afferma che “Le dichiarazioni rese dalla parte in sede di libero interrogatorio ai sensi dell'
art. 420 c.p.c. possono essere poste a base della decisione, pur non avendo un valore confessorio, ma non consentono al giudice, in relazione al loro contenuto, di omettere l'esame o l'ingresso nel giudizio di altre prove quando queste vertano su fatti che, in quanto non direttamente percepiti o percepibili dalla parte che chiede di provarli, non possono neppure essere dalla stessa utilmente riferiti in sede di libero interrogatorio, il quale ha ad oggetto i "fatti della causa" (art. 117 c.p.c.) nel senso di fatti percepiti dalla parte chiamata a renderlo”.
La Corte d’Appello, non aveva fondato il proprio convincimento basandosi, sic et simpliciter, sulle dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio dato che la sua convinzione derivava anche dall’oggettiva constatazione che l’accordo stipulato nel 1990 dalle parti nulla aveva a che vedere con la successiva riduzione dell’orario di lavoro avvenuta ben 9 anni dopo. La sentenza d’appello, inoltre, anche se avesse ammesso una certa interdipendenza tra l’accordo del 1990 e quello del 1999, avrebbe dovuto comunque dichiararne l’illegittimità dato che, ex art. 5 del D.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, la riduzione dell’orario di lavoro deve trovare la sua consacrazione in un atto scritto previsto, in questo caso, ab substantiam. Nella fattispecie de quo, invece, la riduzione non aveva rivestito tale forma. Costituisce, inoltre, principio assoluto in materia processuale, che il giudice addivenga alla formulazione della sentenza “secondo il suo prudente apprezzamento” ex art. 116 c.p.c.: il giudice, pertanto, è tenuto a valutare l’attendibilità di ogni elemento di prova e di ogni circostanza posta alla sua attenzione ma in merito alla utilizzabilità di tali elementi gode della più ampia discrezionalità. L’unico limite posto alla suo prudente apprezzamento è dato dalle prove legali: in tal caso gli è precluso qualsiasi valutazione sul contenuto e l’attendibilità delle stesse: è’ suo dovere, pertanto, ritenere pienamente provati i fatti oggetto delle prove legali. Nel caso in specie, il giudice d’appello non veniva posto di fronte a prove legali ma ad un mero interrogatorio libero e, giocoforza, lo stesso non avrebbe mai potuto fondare la propria decisione su quanto dichiarato in tal sede; semmai quanto affermato durante l’interrogatorio, avrebbe dovuto svolgere una funzione suppletiva e chiarificatrice rispetto a quanto già acquisito a mezzo di altre ed incontrovertibili prove.
Con il terzo motivo di gravame, il ricorrente poneva a carico del lavoratore l’onere di dover dimostrare che il pagamento degli emolumenti veniva richiesto a seguito di una disponibilità formalmente manifestata dal lavoratore stesso a svolgere le ore di lavoro oggetto della riduzione e che solo a fronte del diniego opposto dal datore di lavoro, il C. avrebbe avuto titolo per avanzare la pretesa risarcitoria inoltrata giudizialmente. Questa illazione alla base della tesi sostenuta dalla C. s.a.s., si basava sul presupposto che l’erogazione della retribuzione debba soggiacere ai principi della effettività e corrispettività: emblematica pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (Sezioni Unite 2334/91) afferma che “la retribuzione è dovuta solo in presenza di prestazione lavorativa con la sola eccezione della mora credendi con la quale il debitore della prestazione avvisa il creditore datore di lavoro della disponibilità ad effettuare la sua prestazione”. Il diniego del datore di lavoro sarebbe di per sé sufficiente a sorreggere l’istanza risarcitoria per il riconoscimento del corrispettivo per le ore non effettivamente lavorate. Nel caso in specie, il C. non aveva mai ufficializzato una disponibilità in tal senso e quindi, agli atti, non risulta esserci alcun documento che comprovi la mora credendi della parte datoriale.
Questa mancanza, però, non può essere da sola sufficiente a scaricare sul C. l’onere della prova atteso che la riduzione dell’orario lavorativo, oltre che effettuata solo verbalmente, è espressione di una volontà unilaterale. L’onere della prova, pertanto, resta a carico della parte detentrice del potere decisionale; il solo fatto della riduzione unilaterale delle ore del rapporto di lavoro, realizza ope legis, un’ipotesi di mora credendi: il prestatore, dunque, a meno che non sopraggiungano circostanze oggettive ed incompatibili con la volontà di lavorare a tempo pieno, in base a quanto contrattualmente stabilito, conserva intatto il diritto alla retribuzione.
L’ultima questio, si incardina sull’applicabilità del principio di “conservazione del negozio giuridico colpito da nullità parziale”ovvero del principio che si pone quale immediata e diretta espressione di una legislazione di protezione che fa sì che alla declaratoria di nullità di una clausola pregiudizievole, come nel caso de quo, non debba far seguito l’invalidazione dell’intero contratto (ex art. 1367 c.c.).
La tesi sostenuta dalla C. s.a.s. si basa sull’assunto che l’eventuale nullità della clausola di riduzione dell’orario di lavoro, non comporta l’automatica instaurazione di un contratto a tempo pieno poiché, anche sulla scia dei principi di effettività e corrispettività della retribuzione, la stessa deve essere necessariamente proporzionata all’effettiva prestazione resa. La circostanza che, diversamente da quanto stabilito nell’art. 5 del D.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, la clausola non sia stata formalizzata in un atto scritto, la rende di per sé nulla a prescindere dalla considerazione, di non poco conto, che tale modificazione contrattuale ai danni del C., sia stata imposta unilateralmente dalla parte datoriale. Il prestatore di lavoro, pertanto, si è trovato nell’impossibilità oggettiva di adempiere appieno a quanto contrattualmente previsto. In merito, la stessa Corte di Cassazione, nella pronuncia 5330 del 10.3.06, afferma che “la nullità della clausola sul tempo parziale, per difetto di forma scritta…non implica, ai sensi dell’art. 1419 cc, l’invalidità dell’intero contratto…e comporta, per il principio di conservazione anzidetto, che il rapporto di lavoro deve considerarsi a tempo pieno”. Anche in tale occasione, la Corte, quindi, afferma che l’onere di provare la mancanza di volontà di stipulare un contratto a tempo pieno, era solo a carico della parte datoriale dato che, la riduzione avrebbe comportato una sensibile diminuzione del compenso mensile ai danni del lavoratore. Anche la Corte Costituzionale fa propria questa presunzione ed in merito, nella pronuncia 283/05, afferma che la nullità per vizio di forma della clausola sull’orario di lavoro, determina l’automatica conversione del contratto da tempo parziale a tempo pieno. A sorreggere ulteriormente tale precetto interviene la considerazione che nel caso oggetto del presente esame, la clausola apposta (verbalmente) e dichiarata nulla, produce l’automatica conservazione del contratto pienamente valido; la nullità della clausola, restituisce piena forza al contratto iniziale che prevedeva…il contratto a tempo pieno. Tanto premesso, anche questo motivo di gravame, viene rigettato.
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Cassazione civile sez. lav. 21 novembre 2011 n. 24476
Con ricorso depositato il 24/5/02 C.A. si rivolse al giudice del lavoro del Tribunale di Lecce dolendosi del fatto che la società D'A.s.a.s., di cui era stato dipendente in qualità di impiegato dal 25/11/71 al 14/1/01, gli aveva unilateralmente ridotto l'orario di lavoro a decorrere dal 1999, senza il suo consenso, per cui, dedotta la violazione della L. 19 dicembre 1984, n. 863, art. 5, comma 10, chiese la condanna della convenuta al pagamento delle ore prestate in meno rispetto a quelle previste contrattualmente, determinando l'ammontare complessivo in Euro 7.793,12, oltre accessori di legge. Con sentenza del 30/9/05 il giudice adito rigettò la domanda sulla base della considerazione che nel corso del libero interrogatorio il ricorrente aveva riconosciuto che la riduzione dell'orario di lavoro era stata accettata dai dipendenti attraverso la sottoscrizione dell'accordo del 20/11/1990.
A seguito di impugnazione di tale sentenza la Corte d'appello di Lecce ha accolto l'appello ed ha condannato la società convenuta al pagamento in favore del C. della somma di Euro 7793,12, oltre accessori di legge, e alle spese del doppio grado di giudizio.
La Corte salentina ha spiegato che la riduzione dell'orario di lavoro di cui si discuteva era quella oggetto della disposizione datoriale del mese di agosto del 1999 e non poteva trovare il proprio fondamento nel precedente accordo scritto risalente al 20/1/1990;
inoltre, la mancanza della forma scritta, richiesta ad substantiam per la riduzione consensuale del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale L. n. 863 del 1984, ex art. 5, comma 10, comportava la nullità della clausola contenente la suddetta riduzione oraria di lavoro, con conseguente conversione del contratto a tempo parziale in rapporto a tempo pieno e con correlato diritto del lavoratore a vedersi retribuite le ore lavorative non prestate per determinazione unilaterale della parte datoriale.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società D'A.M. del Dott. ing. G. M. & C. s.a.s. che affida l'impugnazione a quattro motivi di censura.
Resiste con controricorso il C., mentre sono rimasti solo intimati G.C., M.M.G. e M.G. nella loro qualità di eredi del socio accomandatario della società ricorrente, vale a dire dell'ing. M.G..
La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
DIRITTO
1. Col primo motivo la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 102, 111 e 331 c.p.c., e degli artt. 2313, 2315, 2318 e 2324 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè la nullità della sentenza e del procedimento in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4, adducendo che male avrebbe fatto la Corte d'appello a respingerle l'eccezione del difetto di contraddittorio per mancata estensione dello stesso agli eredi del socio accomandatario M.G.
Si richiede, quindi, di accertare se, una volta in cui sia interrotto il giudizio per morte del socio accomandatario ed una volta in cui lo stesso sia stato riassunto sia nei confronti della società che degli eredi del socio accomandatario, non si sia instaurato un litisconsorzio necessario, sostanziale o processuale, con la conseguente necessità di notificare l'atto di impugnazione della sentenza a tutte le parti del processo di primo grado, pena la nullità del giudizio e della sentenza.
Il motivo è infondato.
Invero, l'omessa citazione in appello degli eredi del socio accomandatario non può ritenersi costituire nella fattispecie una causa di nullità della sentenza, dal momento che non ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario tra la società e gli eredi del socio accomandatario; in effetti, questi ultimi hanno solo diritto alla liquidazione della quota, salvo diverso accordo con gli altri soci, non comportando la morte del socio accomandatario lo scioglimento o l'estinzione della società, ma soltanto la trasmissione o la liquidazione della quota, quale conseguenza dello scioglimento del rapporto tra il singolo socio e la società, mentre sono i soci accomandanti a subentrare "de iure" nelle posizioni dei loro rispettivi danti causa ex art. 2322 c.c..
Si è, infatti, statuito (Cass. sez. 1, n. 21803 dell'11/10/2006) che "nella società in accomandita semplice, soltanto la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte, ai sensi dell'art. 2322 c.c., mentre in caso di morte del socio accomandatario trova applicazione l'art. 2284 c.c., in virtù del quale gli eredi non subentrano nella posizione del defunto nell'ambito della società, e non assumono quindi la qualità di soci accomandatari a titolo di successione "mortis causa", ma hanno diritto soltanto alla liquidazione della quota del loro dante causa, salvo diverso accordo con gli altri soci in ordine alla continuazione della società, e fermo restando che in tal caso l'acquisto della qualifica di socio accomandatario non deriva dalla posizione di erede del socio accomandatario defunto, ma dal contenuto del predetto accordo".
Nè può condividersi l'assunto in ordine alla pretesa sussistenza di un litisconsorzio processuale atto a giustificare l'integrazione del contraddittorio, atteso che, come esattamente evidenziato dalla Corte territoriale, in primo grado fu convenuta in giudizio solo la società. In sostanza la riassunzione operata nei confronti degli eredi del socio accomandatario dopo la morte di quest'ultimo poteva avere solo il valore di "litis denuntiatio".
2. Col secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, comma 2, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, dell'art. 2697 c.c., e dell'art. 116 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, oltre che l'omessa motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.
Si sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello, dalle dichiarazioni rese dal C. in sede di libero interrogatorio e dai documenti versati in atti emergerebbe che la riduzione dell'orario di lavoro era stata concordata ed accettata dai lavoratori dell'azienda. A conclusione del motivo è posto il quesito di diritto col quale si chiede di accertare se le risposte date dalle parti in sede di libero interrogatorio ex art. 420 c.p.c., possano costituire l'unica fonte di convincimento del giudicante.
Il motivo è infondato per le seguenti ragioni: la circostanza per la quale le risposte fornite da una parte nel corso del libero interrogatorio possano in astratto rappresentare l'unica fonte di convincimento del giudicante, fermo restando che le dichiarazioni rese nel corso del libero interrogatorio non hanno un valore confessorio, è inconferente, in quanto non vale ad escludere che il medesimo giudicante possa, come di fatto verificatosi nel caso in esame, fondare la propria convinzione, laddove adeguatamente motivata, sulla preponderanza di altri elementi egualmente degni di rilievo sul piano processuale. Ebbene, nel caso in esame la Corte di merito ha fondato il proprio convincimento sul fatto, ben evidenziato con argomentazione adeguatamente motivata ed immune da vizi di carattere logico-giuridico, che l'oggetto del contendere non aveva attinenza con l'accordo del 1990 richiamato nel libero interrogatorio del lavoratore, in quanto la doglianza riguardava, invece, la questione della validità della riduzione dell'orario di lavoro disposta dall'azienda nel mese di agosto del 1999, decisione imprenditoriale, questa, che non poteva ritenersi sorretta dal consenso prestato dai lavoratori in occasione dell'accordo sottoscritto nove anni prima. D'altra parte, la Corte di merito ha evidenziato che, anche se nel 1999 vi fosse stato un accordo verbale sulla riduzione dell'orario di lavoro, questo non avrebbe potuto avere alcuna validità, posto che la L. n. 863 del 1984, art. 5, comma 10, prescrive la forma scritta come requisito "ad substantiam" per la riduzione consensuale di un rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
In effetti, il D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nella L. 19 dicembre 1984, n. 863, all'art. 5, comma 10, prevede che la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale è ammessa solo su accordo delle parti, risultante da atto scritto, convalidato dall'Ufficio Provinciale del Lavoro e sentito il lavoratore interessato.
3. Col terzo motivo di doglianza sono denunziati i seguenti vizi della sentenza: - Violazione e falsa applicazione del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, commi 2 e 10, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, dell'art. 2094 c.c., dell'art. 1207 c.c., comma 2, dell'art. 2126 c.c., e dell'art. 2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 - Violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. - Omessa o insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.
Nel denunziare le suddette violazioni la ricorrente parte dal presupposto che, pur ammettendosi la mancanza di un accordo scritto sulla riduzione dell'orario di lavoro, incombeva sul lavoratore l'onere di dimostrare di aver messo a disposizione le proprie energie lavorative in favore della parte datoriale per il tempo restante, in quanto solo attraverso un formale atto di messa in mora poteva giustificarsi, in un rapporto governato dai principi della effettività e corrispettività delle prestazioni, la pretesa risarcitoria per le retribuzioni non percepite per le ore lavorative effettivamente non prestate, pena un indebito arricchimento del lavoratore. Il motivo è infondato.
In realtà, la tesi sopra esposta sulle regole del riparto dell'onere probatorio e sulla ritenuta necessità della messa in mora della parte datoriale per il soddisfacimento delle pretese creditizie avanzate dal lavoratore, tesi sostenuta dall'odierna ricorrente nell'intento di giustificare l'esonero dal pagamento delle ore lavorative non espletate per effetto della riduzione dell'orario di lavoro, non coglie nel segno: la ragione di tale infondatezza risiede nel fatto che, nel caso in esame, la Corte di merito ha compiutamente accertato che la riduzione dell'orario di lavoro era stata disposta unilateralmente dalla stessa parte datoriale senza il consenso del lavoratore, per cui non poteva ricadere su quest'ultimo l'onere di dimostrare di aver inutilmente messo a disposizione le proprie energie lavorative al fine di reclamare il pagamento delle restanti ore lavorative, il cui svolgimento non gli era stato consentito dalla controparte.
4. Con l'ultimo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione dell'art. 2126 c.c., comma 1, del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, commi 2 e 10, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l'omessa o insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5. Si contesta, in particolare, che la Corte territoriale sia incorsa in errore nel ritenere che la riduzione unilaterale dell'orario di lavoro potesse comportare l'automatica instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo pieno e si aggiunge che una tale conseguenza non poteva scaturire nemmeno dalla nullità della clausola verbale di effettuazione del lavoro a tempo parziale, potendosi attribuire, semmai, a norma dell'art. 2126 c.c., comma 1, la retribuzione proporzionata alla prestazione in concreto eseguita.
Il motivo è infondato.
Invero, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. sez. lav. n. 5330 del 10/3/2006), "la nullità della clausola sul tempo parziale, per difetto di forma scritta, anche sulla scorta delle indicazioni offerte con la sentenza della Corte costituzionale n. 283 del 2005, non implica, ai sensi dell'art. 1419 c.c., comma 1, l'invalidità dell'intero contratto - a meno che non risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte colpita da nullità - e comporta, per il principio generale di conservazione del negozio giuridico colpito da nullità parziale, che il rapporto di lavoro deve considerarsi a tempo pieno. (Nella specie la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva, tra l'altro, rilevato che era onere del datore di lavoro dedurre e dimostrare che non avrebbe mai voluto costituire un rapporto a tempo pieno, circostanza in concreto nemmeno adombrata dallo stesso datore)".
Il medesimo giudice delle leggi ha aggiunto che è possibile un'interpretazione costituzionale orientata, già indicata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 210 del 1992, secondo la quale la nullità per vizio di forma della clausola sulla riduzione dell'orario di lavoro "non è comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne determina la c.d. conversione in un "normale contratto di lavoro", o meglio determina "la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro, in ragione dell'inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale". A tale risultato, secondo il giudice delle leggi, può pervenirsi facendosi ricorso alla disciplina ordinaria della nullità parziale (art. 1419 c.c., comma 1), che esprime un'esigenza di carattere generale di tendenziale conservazione del contratto, ove il vizio di forma sia circoscrivibile ad una o più clausole (come quella che prevede l'orario di lavoro ridotto) e sempre che la clausola nulla non risulti avere carattere essenziale per entrambe le parti del rapporto, nel senso che, in particolare, anche il lavoratore, il quale di regola aspira ad un impiego a tempo pieno, non avrebbe stipulato il contratto se non con la clausola della riduzione di orario.
La conclusione del giudice delle leggi è nel senso che risulta chiaramente tracciata - anche nel non più vigente regime della disposizione censurata - un'interpretazione di essa, che, pur non affermando (ed anzi escludendo) la conversione automatica del rapporto a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, è comunque idonea a scongiurare, di massima, una volta accertato il difetto della forma scritta della clausola a tempo parziale, la totale nullità del rapporto di lavoro. Tra l'altro, non può sottacersi che nella fattispecie il rapporto lavorativo in esame era già all'origine a tempo pieno, per cui per effetto della impugnata sentenza è stato in concreto ripristinato l'ordinario rapporto, cosi come configurato dalle parti all'atto della sua nascita.
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore del solo C. delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 2500,00 per onorario, oltre Euro 40,00, per esborsi, nonchè I.V.A, C.P.A e spese generali ai sensi di legge.
Così deciso in Roma, il 28 settembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2011