DIRITTO CIVILE. Comunione legale tra coniugi: il diritto alla restituzione è escluso per le somme impiegate nell'acquisto di beni caduti in comunione? Cass. civ. 10 ottobre 2011 n-. 20878.



Nota dell'Avv. Rosalia Terrei

Nel giudizio di primo grado la moglie citava il marito per ottenere una pronuncia che dichiarasse la risoluzione di un contratto preliminare, con il quale si era obbligata a vendere al coniuge separato la sua parte di un immobile, in comunione dei beni, per indempimento del promisssario acquirente. Inoltre, l’attrice chiedeva anche che si procedesse alla divisione dello stesso bene.
I giudizi di merito si chiudono con una pronuncia della Corte d’Appello che riconosciuto l’inadempimento e dichiarato lo scioglimento della comunione attribuiva l’intera proprietà dell’immobile alla moglie.
Avverso la pronuncia di secondo grado il marito ricorre per Cassazione.
In particolare, il ricorrente si lamenta dell’interpretazione della Corte d’Appello, sulla quale si fonda il rigetto della sua impugnativa, per cui le spese dallo stesso sostenute, riferibili alla res immobile, non possono essere considerate come attributive ex art. 1115, III comma, c.c. di una maggiore quota nella divisione, in quanto le stesse devono qualificarsi come adempimento dell’obbligo di contribuzione ex art. 143 c.c.
Inoltre, si duole il ricorrente che la stessa Corte di Merito ha ritenuto le spese pagate dalla moglie come, seppur non rimborsabili ex art. 1115 c.c. , comunque idonee a determinare la prevalenza della stessa nell’assegnazione dell’immobile.
Tale decisione è a parere del ricorrente, in primo luogo contraddittoria, per il diverso trattamento dei “comunisti”, ed in secondo luogo è adottata in violazione dei principi generali secondo cui tutte le obbligazioni e i debiti contratti per la cosa comune sono da ritenere a carico dei comproprietari senza che però sorgesse alcun diritto di rimborso a carico della moglie. Infine, lamenta l’immotivata svalutazione dell’immobile rispetto ad una perizioa disposta in sede esecutiva.
L’impianto motivazionale della sentenza che si annota, prende le mosse dall’art. 192, III comma, c.c. 
In particolare, i Giudici di Legittimità affermano che solo in tale ipotesi è riconosicuto in capo ai coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio perosnale e impiegate per spese o investimenti del patrimonio comune. Diversamente non vi è diritto alla ripetizione del valore degli immobili che provenendo dal patrimonio personale sono conferiti in comunione.
Sulla base di tale principio la Corte esclude che si possa configurare, nel caso di specie, il diritto al rimborso del denaro di uno dei coniugi impiegato per acquistare un bene immobile caduto in comunione.
E’ opportuno, infatti, rilevare come l’art. 192 c.c. , individua un procedimento liquidatorio finalizzato alla divisione del patrimonio comune. In tale fase si determina l’entità della massa da dividere. 
Tale norma va interpretata in maniera restrittiva, per non minare l’essenza stessa del regime di comunione legale che, in relazione ad una visione solidaristica della famiglia, rende ogni coniuge partecipe delle vicende economiche dell’altro.
Dunque, l’opinione prevalente anche in dottrina è nel senso di eslcudere che si possa pretendere la restituzione delle somme che siano ricavate dalla vendita di beni personali e che siano impiegate per l’acquisto di beni comuni, perchè in tal modo si renderebbe superflua la norma ex art. 179, I comma, lett. f), c.c.
Per poter chiedere la restituzione è necessario che le somme prelevate dal patrimonio personale siano state impiegate per “spese ed investimenti” del patromino comune. L’intepretazione maggioritaria ritiene di poter definire “le spese” come “gli esborsi finalizzati alla manutenzione ordinaria e straordinaria dei beni comuni” e “gli investimenti” come “le somme impiegate in funzione del miglioramento e dell’accrescimento dei beni comuni”.
Tale principio si basa sul fatto che il bene acquistato in regime di comunione legale resta soggetto a tale regime patrimoniale ed anche alla norma ex art. 194 c.c. che, disciplinando la divisione dei beni comuni, afferma che l’attivo e il passivo devono essere ripartiti ugualmente senza che assuma alcun rilievo la misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi nella spese del bene caduto in comunione.
Dunque, nulla poteva essere riconosciuto al marito a titolo di rimborso in quanto i costi erano stati sostenuti dallo stesso in costanza del regime di comunione legale.
Diversamente nel caso in cui intervenuta una delle cause di sciglimento della comunione ex art. 191 c.c. , uno dei coniugi chieda la divisione del patrimonio comune secondo quanto stabilito dagli art. 192 e seg. c.c.
Su tali principi si fonda la decisione della Corte d’Appello che ha riconosciuto alla moglie il diritto a richiedere la restituzione ex art. 192, III comma, c.c. delle somme prelevate dal proprio patrimonio personale e impiegate per sopportare i costi riferibili al bene comune, successivamente alla separazione legale.
Nell’ulteriore passaggio motivazionale la Corte afferma che allo scioglimento della comunione si applicano le norme dettate in materia di divisione ereditaria come previsto dalla norma di applicabilità, art. 1116 c.c. .
In particolare il riferimento è alla norma della norma ex art. 1115, III comma, c.c. che attribuisce al comunista che ha pagato il debito, e non è stato rimborsato il diritto ad una quota maggiore.
Dunque, sulla base di tali ragioni i Giudici di legittimità sulla stesso solco tracciato dalla Corte d’Appello,  affermano che la moglie, sostenute spese per la cosa comune successivamente allo scioglimento della comunione aveva diritto alla restituzione delle stesse ex art. 192 c.c. 
Non avendo ottenuto alcun rimborso e sulla base della clausola di applicabilità ex art. 1116 c.c. , era logico procedere all’assegnazione dell’immobile alla moglie, dopo aver riconosciuto alla stessa una quota maggiore della res nel procedimento di divisione  ex art. 1115, III comma, c.c.  .
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Cassazione civile  sez. VI 10 ottobre 2011 n. 20878
M.L. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 23 febbraio 2010 che nell'ambito dell'originario giudizio promosso da F.D. nei suoi confronti per ottenere declaratoria di risoluzione del contratto preliminare con il quale aveva promesso di vendere al coniuge separato la sua porzione di proprietà dell'immobile in comunione per inadempimento del promissario acquirente, nonchè la divisione del bene medesimo, nel confermare parzialmente la sentenza di primo grado che ha riconosciuto l'inadempimento del convenuto, dichiarando lo scioglimento della comunione in essere tra le parti, con attribuzione alla F. dell'intera proprietà del fabbricato, ha determinato in Euro 240.000,00 il valore complessivo del bene, oltre a rivedere le partite di dare ed avere fra le parti.
Il ricorso è affidato a tre motivi di impugnazione.
Si è costituita con controricorso la F..
Nominato, a norma dell'art. 377 c.p.c., il consigliere relatore ha depositato la relazione di cui all'art. 380 bis c.p.c. ritenendo che il ricorso fosse da rigettare.
Parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
All'udienza camerale il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni conformi a quelle di cui alla relazione.
DIRITTO
Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., che di seguito si riporta:
"Con la prima censura il ricorrente ha dedotto che la corte di merito ha disatteso la domanda del M. affermando che le spese sostenute dall'appellante in riferimento all'immobile in questione non potevano essere tenute in considerazione al fine di giustificare una sua maggiore quota nella divisione ai sensi dell'art. 1115 c.c., comma 3, e quindi la sua prevalenza nell'assegnazione dell'intero immobile, considerando che l'incremento edificatorio del bene di proprietà comune sarebbe da considerare, in adempimento dell'obbligo di contribuzione ex art. 143 c.c., inglobato nel valore dell'immobile. Aggiungeva, che di converso, la medesima corte aveva ritenuto che le spese pagate dalla controricorrente, seppure non rimborsabili ex art. 1115 c.c., davano alla F. la possibilità di prevalere nell'assegnazione dell'immobile. Detta motivazione oltre ad essere contraddittoria perchè trattava diversamente le posizioni dei comunisti, era stata, inoltre, adottata in violazione dei principi generali di cui agli artt. 1101, 1004 e 1010 c.c. e secondo la regola generale dell'art. 1294 c.c., si doveva affermare il principio che tutte le obbligazioni ed i debiti contratti per la cosa comune erano solidalmente a carico dei comproprietari, senza però che ne venisse disposto il rimborso a carico della controricorrente. Ne conseguiva che la quota di spettanza del M. andava incrementata di Euro 43.131,88 (pari al 50% dell'importo di Euro 72.060,62, comprensiva anche del coefficiente di rivalutazione utilizzato dalla stessa corte di merito). Inoltre lamentava che non era sostenuta da alcuna motivazione la riduzione forfetaria del 40% dei valore dell'immobile portato da una perizia in sede esecutiva in Euro 400.000,00.
La censura di violazione di legge e di vizio di motivazione, riportata alla prima delle doglianze è infondata.
Occorre premettere che costituisce orientamento costante di questa suprema corte (Cass. Sez. 1^, 24 maggio 2005 n. 10896; Cass. Sez. 1^, 4 febbraio 2005 n. 2354), che solo nell'ipotesi disciplinata dall'art. 192 c.c., comma 3, viene conferito a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate per spese ed investimenti a favore del patrimonio comune; non anche il diritto alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale proprio e conferiti alla comunione. Tale principio è da ritenere applicabile, similmente, nel caso in esame per escludere il diritto al rimborso, totale o parziale, del denaro proprio, asseritamele speso per l'acquisto di un immobile caduto in comunione.
Questa conclusione deriva dalla circostanza che il bene acquisito in regime di comunione legale fra coniugi resta immediatamente soggetto alla relativa disciplina e, pertanto, anche alla norma inderogabile dell'art. 194 c.c., comma 1, per cui, in sede di divisione, l'attivo ed il passivo (cioè, da una parte, i beni costituenti il patrimonio comune e, dall'altra, i debiti) debbono essere ripartiti in parti eguali, senza riguardo alla misura della partecipazione (eventualmente totale ed esclusiva) di ciascuno dei coniugi nella spesa per l'acquisto del bene caduto in comunione. E ciò a prescindere dal valutare la tempestività o meno della domanda proposta sul punto dal ricorrente, che dalla medesima sentenza impugnata risulta essere stata precisata solo in sede di gravame.
Da ciò discende che correttamente i giudici del merito non hanno riconosciuto alcunchè al M. a titolo di rimborso in quanto costi sostenuti in costanza del vincolo matrimoniale. D'altro canto una volta intervenuto lo scioglimento della comunione legale per effetto della separazione dei coniugi (art. 191 c.c.) - ed essendo quindi cessata la funzione di mantenimento della famiglia attribuita ai beni della comunione dall'art. 186 c.c., lett. c), ciascuno di essi può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti dagli artt. 192 e 194 c.c..
La norma dell'art. 192 c.c., comma 3, attribuisce, inoltre, a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal proprio patrimonio personale ed impiegate per spese ed investimenti a favore del patrimonio comune (escluse quelle adoperate per l'acquisto di singoli beni caduti in comunione). Tale disposizione deve essere coordinata con quella del precedente art. 186, lett. b), per cui i beni della comunione rispondono di tutti i carichi dell'amministrazione: ciò significa che il debito per il rimborso delle spese cui si riferisce il citato art. 192, comma 3, resta a carico della comunione.
Pertanto, al momento della divisione dei beni comuni dette passività, se sussistenti, debbono essere divise in parti uguali fra i condividenti, ai sensi dell'art. 194 c.c., comma 1. Ed è ciò che ha accertato la corte di merito nel riconoscere alla controricorrente il rimborso al 50% dei costi sopportati per il bene comune, spese maturate successivamente alla separazione legale.
Allo scioglimento di una comunione, inoltre, debbono applicarsi - qualora si tratti di beni indivisibili, come nella specie - le specifiche norme dettate in materia di divisione ereditaria ed espressamente richiamate dall'art. 1116 c.c. (assegnazione dei beni ai partecipi aventi diritto alla quota maggiore, con addebito dell'eccedenza; vendita dei beni con ripartizione del prezzo tra i compartecipi). Per tale ragione il giudice del gravame ha tenuto presente, quale necessaria componente del suo giudizio, la concreta entità delle quote dei singoli condividenti, per adempiere il precetto di legge secondo cui gli immobili debbono essere "preferibilmente" compresi per intero nella porzione di uno dei condividenti aventi diritto alla quota maggiore. Pertanto, avendo riconosciuto il diritto della F., ai sensi dell'art. 1115 c.c., comma 3, ad un incremento della propria quota per avere pagato un debito, sorto dopo la separazione, in solido per la cosa comune senza ottenere alcun rimborso, ha proceduto all'assegnazione del bene in questione dopo avere accertato i rapporti di credito e di debito tra i condividenti (v. Cass. Sez. 2^, 16 aprile 1981 n. 2309).
L'argomentazione che precede esclude anche la sussistenza di un preteso vizio di motivazione, in quanto conduce alla stessa conclusione cui sono motivatamente pervenuti i giudici di merito attraverso il rilievo che le spese sostenute dal M. per l'acquisto del terreno e per la successiva progettazione ed edificazione dell'immobile essendo "già inglobate nel valore dell'immobile oggetto della comunione, non possono riemergere come partite di un rendiconto o di un rimborso per indebito".
L'impugnata decisione non merita, quindi, le critiche mosse sul punto dal ricorrente, avendo la corte d'appello sufficientemente motivato.
Con il secondo motivo censura la sentenza impugnata che ha disatteso la domanda subordinata proposta dal ricorrente di divisione dell'immobile in due porzioni da assegnare alle parti e ciò in base a riferimento alla L. n. 47 del 1985, art. 17, abrogato e sostituito dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, che invece non era applicabile alla fattispecie in esame in quanto la costruzione era stata iniziata prima del 17.3.1985. Diversamente nella specie doveva trovare applicazione la L. n. 47 del 1985, art. 40, non includente fra gli atti peri quali è prevista la nullità lo scioglimento della comunione (v. Cass. 13.7.2005 n. 14764).
Anche detta censura non è da accogliere.
Il concetto della comoda divisibilità, fissato dall'art. 720 c.c., deve intendersi nel senso della possibilità della ripartizione del bene comune senza spese rilevanti, senza pregiudizio per il suo originario valore economico e senza dovere imporre al cespite frazionato, per il suo godimento, eccessivi pesi, servitù o limitazioni (v. Cass. Sez. 2^, 29 luglio 1966 n. 2117; Cass. Sez. 2^ 22 luglio 1963 n. 2034). Tutto ciè è stato verificato dal giudice del merito che facendo richiamo ai motivi ostativi alla divisione in natura del fabbricato esposti dal c.t.u. con note integrative del 28.5.2009, ha ampiamente e logicamente motivato la sua decisione. In questo ambito, la accertata irregolarità urbanistica dell'immobile costituisce una ulteriore dimostrazione della non comoda divisibilità del bene.
Nè il ricorrente ha denunciato con specifiche censure le deduzioni del consulente tecnico di ufficio sì da inficiarne le conclusioni.
Con il terzo motivo lamenta che la corte di merito ha asserito che solo in secondo grado il ricorrente ha formulato domanda per ottenere il rimborso da parte della F. del 50% delle spese da lui effettuate, mentre già nella comparsa di costituzione e risposta depositata in primo grado egli aveva concluso "affinchè la F. fosse dichiarata tenuta al pagamento in suo favore del corrispettivo equivalente all'aumento di valore arrecato alla sua quota del terreno dall'incremento edificatorio costituito da tali oneri da lui sostenuti", tanto che il giudice di prime cure aveva accolto, sia pure soltanto per un modesto importo, tale domanda di rimborso.
La doglianza risulta superata da quanto esposto con riferimento al primo motivo di censura.
I motivi sono dunque tutti privi di pregio e vanno rigettati.
In definitiva, ritiene il relatore che appaiono sussistenti le condizioni per pervenire a rigetto del ricorso avanzato nell'interesse del M. per sua manifesta infondatezza con riguardo a tutti e tre (per mero errore riprodotto solo il numero di "due") i motivi precedentemente riportati".
Nè possono essere condivise le osservazioni di parte ricorrente che nulla aggiungono alle questioni sopra esaminate, in particolare circa la novità delle argomentazioni basate sull'interpretazione dell'art. 194 c.c., comma 1, e art. 192 c.c., comma 3, in quanto, costituendo l'accertamento circa le reciproche posizioni di dare ed avere fra i comunisti un presupposto per la pronunzia di divisione della comunione, deve ritenersi osservato l'obbligo del giudice di merito allorquando dal complesso della motivazione, anche implicitamente, emerga che il giudice abbia comunque considerato gli elementi che incidevano sulle rispettive spettanze, in specie delle regole relative ad acquisto di bene in regime di comunione legale fra coniugi . In definitiva, il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo grado di giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione che vengono liquidate in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile - 2, il 29 aprile 2011.
Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2011

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