Cos'è la concorrenza parassitaria?

La concorrenza c.d. parassitaria è una delle forme di concorrenza sleale e consiste nel comportamento dell'imprenditore che in modo sistematico e continuo segue le orme di un imprenditore concorrente. Cass. n. 22118 del 29 ottobre 2015.



Tra le numerose richieste di informazioni che arrivano quotidianamente in redazione me n'è arrivata una che ha particolarmente destato la mia attenzione...soprattutto perchè non è mai arrivata alcuna domanda oppure osservazione su un argomento così particolare come quello della concorrenza parassitaria.

Ebbene, cominciamo dall'esaminare l'art. 2598 c.c. in tema di concorrenza sleale, per poi passare ad una recentissima sentenza sull'argomento, il tutto corredato da un estratto delle più importanti massime giurisprudenziali.

Compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.

La nozione di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c.impone alle imprese operanti nel mercato regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuno si possa avvantaggiare nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l'adozione di metodi contrari all'etica delle relazioni commerciali.

La concorrenza sleale deve ritenersi fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, non configurabile, pertanto, ove manchi il presupposto soggettivo del c.d. rapporto di concorrenzialità.

Tuttavia nonn è esclusa la configurabilità dell'illecito concorrenziale anche quando l'atto lesivo del diritto del concorrente venga compiuto da un soggetto, il c.d. terzo imposto, il quale, pur non possedendo egli stesso i necessari requisiti soggettivi, agisca per conto di un concorrente del danneggiato stesso, nel qual caso il terzo va legittimamente ritenuto responsabile, in solido, con l'imprenditore che si sia giovato della sua condotta (Cass. 9 agosto 2007 n. 17459).

Nella previsione di cui all'art. 2598, n. 3, c.c. rientrano tutte le condotte che integrano una illecita appropriazione dei risultati ottenuti da una impresa concorrente. 

In conclusione, si verifica un'ipotesi di concorrenza sleale parassitaria, quando l'attività commerciale dell'imitatore si traduce in un cammino continuo e sistematico, anche se non integrale, essenziale e costante sulle orme altrui, perché l'imitazione di tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente, l'adozione più o meno immediata di ogni sua nuova iniziativa, seppure non realizzano una confusione di attività o di prodotti, sono contrarie alle regole che presiedono all'ordinato svolgimento della concorrenza. 

Nella cosiddetta concorrenza parassitaria, l'imitazione può considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza sleale diacronica) o dall'ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), là dove per “breve” deve intendersi quell'arco di tempo per tutta la durata del quale l'ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari (di incassi, di pubblicità, di avviamento) dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dal pubblico dei clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto.

Ciò in quanto la creatività è tutelata nel nostro ordinamento solo per un tempo determinato, fino a quando, cioè, può considerarsi originale, nel senso che, quando l'originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commercializzare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di tutti quanti operano nel settore, essendosi così ammortizzato (almeno secondo l'id quod plerumque accidit) da parte del primitivo imprenditore il capitale impiegato nello sforzo creativo, imitare quell'attività che, originale nel suo nascere e nel suo formarsi, si è poi generalizzata e spersonalizzata, non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l'altrui azienda. 

Nelle ipotesi di concorrenza sleale per imitazione servile di cui all'art. 2598, n. 1, c.c., l'imitazione di forme banali o standardizzate è priva di rilievo perché inidonea a creare confusione. 

L'illiceità dell'imitazione servile non confusoria non può farsi derivare dalla pura e semplice inclusione della stessa nello schema atipico di cui al n. 3 dell'art. 2598 c.c., atteso che tale norma non racchiude ipotesi complementari rispetto a quelle contemplate dai nn. 1 e 2, ma casi alternativi e diversi, dotati di una connotazione loro propria.

La recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 22118 del 29 ottobre 2015.

IL CASO.

La Società X chiedeva al Tribunale competente la nullità, invalidità e/o illegittimità dei certificati di deposito rilasciati dal Ministero dei Beni Culturali in favore della Società Y in relazione ad oggetti usati per le pratiche religiose in quanto non costituenti opere dell'ingegno.

La Società Y, convenuta, chiedeva l'accertamento del plagio e della concorrenza parassitaria diacronica ad opera della Società X.

La Corte di Appello accertava la validità del modello ornamentale e dichiarava inammissibile la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta dalla Società Y, in ordine alla contraffazione dei diritti di privativa nella titolarità di questi ultimi ed alla sussistenza degli atti di concorrenza sleale, ex art. 2598 c.c., n. 3, con l'inibitoria alla Società X della contraffazione, commercializzazione e pubblicazione, sotto ogni forma, dei corrispondenti "rosari", fissando una penale per ogni ulteriore violazione o inosservanza o ritardo nell'esecuzione della sentenza, e con la pubblicazione della stessa.

Con riferimento ai copyrights in relazione alla causa in oggetto la normativa applicabile era da individuarsi nella L. n. 633 del 1941, art. 1, e art. 2, n. 4, (L. A.), che non riserverebbe tutela e protezione alle sole opere di grande o particolare valore artistico ma anche alle creazioni di modesta misura, in presenza dell'individualità e dell'originalità dell'opera.

Con riferimento alle opere dell'incisione e delle altri arti figurative similari, infatti, quand'anche applicate all'industria, l'abrogazione dell'inciso relativo alla scindibilità delle raffigurazioni tutelare rispetto al carattere industriale del prodotto - contenuto nella menzionata previsione legislativa -, operata dal D.Lgs. n. 95 del 2001, successivamente a sua volta abrogato dal D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 246, lett. gg), (C.P.I.), andrebbe letto in senso limitativo e correttivo, diversamente da quanto il nuovo codice della proprietà industriale avrebbe fatto con riferimento ad altre disposizioni, nelle quali avrebbe dato per scontato la perdurante vigenza delle norme introdotte dal D.Lgs. n. 95 cit. (ad es. negli artt. 44 e 239), onde la permanenza attuale del requisito della c.d. scindibilità del valore artistico dell'opera applicata al prodotto industriale.

Oltre a vari altri aspetti la Corte di Appello ha confermato la responsabilità della Società X  per gli atti di concorrenza sleale compiuti, da qualificarsi, ai sensi dell'art. 2598 c.c., n. 3, come concorrenza parassitaria diacronica, nonostante non fosse stata riscontrata l'ipotesi dell'imitazione servile dei prodotti, ai sensi dell'art. 2598 c.c., nn. 1 e 2.

La Società X proponeva ricorso per cassazione.

La decisione della  Corte di Cassazione.

Per quanto concerne la qualificazione delle opere protette come prodotti dell'industrial design, allo scopo di richiedere una loro valutazione più severa, ai fini della nullità, invalidità e/0 illegittimità dei certificati di deposito rilasciati dal Ministero dei Beni culturali, questa è stata riconosciuta dalla Corte di Appello con il richiamo al principio della scindibilità tra l'oggetto materiale, idoneo ad assolvere la funzione (nella specie: quella di culto), ed il sue decoro, ottenuto per mezzo delle sovrapposizioni ornamentali agli elementi dello strumento oggetto di produzione seriale e utilizzato per le pratiche religiose (i "rosari"), richiamando una giurisprudenza elaborata da questa Corte nel corso degli anni 90 ossia ben prima che scendesse in campo l'allora CE e che provvedesse ad esigere dagli Stati nazionali una diversa considerazione (e valorizzazione) del design, basata sulla rivendicabilità della protezione autorale accordabile solo in caso di scindibilità dell'incisione dal supporto materiale "muto", oggetto della produzione industriale.

Tuttavia, il giudice distrettuale, se da un lato sembra ricondurre tali beni ai prodotti dell'industrial design, da un altro, sia pure con una motivazione assolutamente lapidaria, li qualifica come oggetti ad uso religioso, e perciò come prodotti estranei alle problematiche di valorizzazione del disegno industriale quasi che, in materia religiosa (dove la qualità artistica del bene non è la ragione primaria dell'utilizzazione dell'oggetto per la pratica di culto, che segue rituali comunitari e procedure che, a volte, si conformano ad apposite prescrizioni della stessa autorità religiosa), essi dovrebbero essere esclusi da una valutazione di qualità innovativa e di pregevolezza.

La Corte di Cassazione evidenzia che :

a seguito dell'intervento della CE (ora UE) nella materia (con la direttiva n. 98/71/CE), l'Italia, con il D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 95, di attuazione dello strumento comunitario ha, da un lato, eliminato il criterio della scindibilità contenuto nell'art. 2, n. 4 LA (sopprimendo l'inciso: "anche se applicate all'industria, semprechè il loro valore artistico sia scindibile dal carattere industriale del prodotto al quale sono associate") e, da un altro, inserito nell'elenco delle opere protette un nuovo numero, il 10, relativo alle "opere del disegno industriale che presentino di per sè carattere creativo e valore artistico". Nè l'espressione "di per contenuta nel menzionato art. 2, n. 10, può essere intesa come una sorta di nuova introduzione, in diversa forma, del citato criterio della scindibilità, atteso che in senso del tutto opposto (ossia, nella direzione dell'eliminazione di quella posizione, tutta interna alla nostra legislazione nazionale) era l'orientamento dell'allora legislatore comunitario (fin dal "libro verde sulla tutela giuridica dei modelli e disegni industriali", elaborato dalla Commissione CE nel 1991, per finire con l'approdo alla direttiva n. 98/71/CE) teso dare valore all'opera del design, senza prescindere cioè dal carattere industriale del prodotto in cui sono incorporate, ma lasciando libero ciascuno Stato nazionale di determinare "l'estensione della protezione e le condizioni alle quali essa è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve possedere".

Secondo i giudici di legittimità, alla luce delle menzionate modificazioni legislative, le creazioni di design sono oggetto di una protezione speciale, tendenzialmente soggetta alla formalità costitutiva della registrazione, individuata in un qualcosa di diverso da ciò che può costituire disegno o modello, secondo un'interpretazione del requisito del valore artistico come volto a riservare la tutela autorale ai prodotti di particolare pregio estetico, di facile riconoscibilità, anche attraverso il ricorso a criteri indiziari, opportunamente pesati (dal suo riconoscimento in ambiti critico- specialististici, alla presenza di tratti sicuramente innovativi, sia sul terreno progettuale che realizzativo, fino ad una precoce ed attendibile musealizzazione, ecc.).

Resta fermo, tuttavia, che quando la richiesta di tutela sia stata posta ancor prima che tali riscontri esterni siano intervenuti, il giudice non può che procedere al giudizio ex ante, più difficile ma non impossibile, utilizzando - anche in ambito processuale - l'esperienza e il sapere specialistico di consulenti idonei a fornirgli elementi valutativi, dei quali dovrà poi essere data ragione con il provvedimento giurisdizionale conclusivo del giudizio.

Può dunque concludersi affermando il seguente principio di diritto, cui dovrà attenersi il giudice del rinvio, e secondo cui:

  • in tema di proprietà intellettuale, la L. n. 633 del 1941, art. 2, n. 10, (applicabile ratione temporis), a mente del quale sono comprese nella protezione delle opere del disegno industriale quelle "che presentino di per sè carattere creativo e valore artistico", va interpretato nel senso che i menzionati parametri debbono risultare riconoscibili, anche attraverso il ricorso a criteri indiziari, opportunamente pesati (ove presenti), sulla base di un giudizio ex ante, formulato - se del caso attraverso il ricorso all'esperienza e al sapere specialistico di consulenti idonei a fornire al giudice idonei elementi valutativi.

La Corte nella sentenza evidenzia anche in cosa consiste la concorrenza sleale parassitaria: essa consiste in un continuo e sistematico operare, da parte di un imprenditore, sulle orme dell'imprenditore concorrente, attraverso l'imitazione di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest'ultimo, e quindi non solo dei prodotti tutelati, compiute in tempi più o meno ravvicinati.

Nella questione in oggetto la Corte di Appello - spiega la Cassazione - non ha spiegato se gli elementi appena evidenziati della concorrenza sleale parassitaria abbiano integrato o meno il comportamento della Società X, sia con riferimento alla quasi totalità dei prodotti imitati, sia con riferimento all'esistenza anche di altre attività imprenditoriali copiate, di modo che si possa dire che il procedere imprenditoriale sia stato sistematicamente plagiato sia nei prodotti commerciati che nelle attività imprenditoriali poste in essere, con una certa sistematicità.

La Corte di Appello ha altresì escluso l'imitazione servile dei prodotti della società Y da parte del suo concorrente, senza tuttavia chiarire quale sia stato il quid pluris, rispetto al suo comportamento imitativo, atteso che se si afferma (come è avvenuto nella specie) che il mero fatto della contraffazione non induce in inganno la clientela è davvero difficile o problematico individuare il danno del concorrente, ciò che dovrebbe condurre ad escludere l'applicabilità della norma invocata (l'art. 2598 c.c., n. 3).

La Corte di Cassazione chiede quindi al giudice del rinvio di riesaminare le emergenze processuali alla luce del principio di diritto secondo cui: la concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall'art. 2598 c.c., n. 3, che riguarda comportamenti idonei a danneggiare l'altrui azienda con ogni "altro" mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale, si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici di cui precedenti nn. 1 e 2, onde ove si sia correttamente escluso nell'elemento dell'imitazione servile dei prodotti altrui il centro dell'attività imitativa (requisito pertinente solo alla fattispecie di concorrenza sleale prevista dallo stesso art. 2598, n. 1) devesi indicare quali siano state le attività del concorrente sistematicamente e durevolmente plagiate, con l'adozione e lo sfruttamento, più o meno integrale ed immediato, di ogni sua iniziativa, studio o ricerca, contraria alle regole della correttezza professionale. 

  • LA MASSIMA

La concorrenza parassitaria consiste nel comportamento dell'imprenditore che in modo sistematico e continuo segue le orme di un imprenditore concorrente, ne imita le iniziative con assiduità e costanza, non limitandosi a copiare un unico oggetto. La contraffazione parassitaria si differenzia quindi dalla contraffazione semplice o dalla c.d. copia servile perché genera condotte sovrapponibili, capaci di indurre in errore il consumatore e conseguentemente generare danni patrimoniali a carico dell'imprenditore originale.Cass. 29 ottobre 2015 n. 22118 

LA GIURISPRUDENZA.

  • L’art. 2598 n. 3 c.c. fissa una nozione di concorrenza sleale ampia che si riferisce all’uso diretto o indiretto di ogni altro mezzo contrario ai principi della correttezza professionale; l’idoneità di tale uso a danneggiare l’altrui azienda, per il suo potenziale effetto di sviamento della clientela, rende irrilevante la confondibilità obiettiva e materiale dei prodotti e delle attività concorrenti. La cosiddetta concorrenza parassitaria, presa in considerazione da tale ultima norma, può essere ritenuta sussistente allorché l’attività commerciale dell’imitatore si traduca in un cammino continuo e sistematico, essenziale e costante, sulle orme altrui, atteso che l’imitazione di tutto o quasi tutto ciò che fa il concorrente, ovvero l’adozione più o meno immediata di ogni nuova iniziativa, seppure non realizzino una confusione di attività e di prodotti, risultano tuttavia contrarie alle regole che presiedono all’ordinario svolgimento della concorrenza. Trib. Napoli del 18 febbraio 2014.
  • Va inibito, con provvedimento d'urgenza, ad una società che gestisce siti Internet per la consultazione, a pagamento, di dati relativi a vendite giudiziarie, l'ulteriore estrazione, reimpiego, pubblicazione e utilizzo di atti, testi e documenti provenienti da una banca dati altrui, pubblicati sul relativo sito web, una volta accertato che quella attività, non consentita dal titolare della banca dati, abbia riguardato una parte sostanziale del contenuto di quest'ultima (da accertarsi anche a mezzo di perizia stragiudiziale) ovvero comunque sia avvenuta ripetutamente, con conseguente pregiudizio del costitutore, nella specie anche sotto il profilo della concorrenza sleale parassitaria. Trib. Milano 19 settembre 2013.
  • Deve ritenersi compresa tra gli atti di concorrenza sleale di cui al n. 3 dell'art. 2598 c.c. la cosiddetta concorrenza parassitaria, laddove l'attività commerciale dell'imitatore si traduca in un cammino continuo e sistematico, anche se non integrale, essenziale e costante sulle orme altrui, giacché l'imitazione di tutto o di quasi tutto quello che fa il concorrente, nonché l'adozione più o meno immediata di ogni sua nuova iniziativa, seppure non realizzi una confusione di attività e di prodotti, è contraria alle regole che presiedono all'ordinato svolgimento della concorrenza. Pertanto, la sommatoria di atti leciti potrebbe dar luogo anche ad un illecito, qualificato appunto in termini di concorrenza parassitaria, valutando l'attività asseritamente imitativa nel suo complesso. Trib. Milano n. 6095 del 2 maggio 2013. 
  • L'imprenditore che produce e offre in vendita prodotti che imitano pedissequamente grandissima parte di quelli realizzati da un concorrente e da questi registrati come modelli compie illecito di contraffazione di modelli registrati nonché atto di imitazione servile e di concorrenza parassitaria. Trib. Milano 12 marzo 2012. 
  • La concorrenza parassitaria è integrata da una pluralità di atti succedentisi nel tempo, diretti tutti ad una continua e ripetuta imitazione delle iniziative del concorrente che rappresentano lo sfruttamento sistematico del lavoro e della creatività altrui proprio della natura di tale illecito. Trib. Milano 23 febbraio 2012.
  • Si verifica la cosiddetta concorrenza parassitaria quando la liceità di singoli atti cessa di essere tale, ove gli stessi vengono considerati non singolarmente ma nel loro insieme, ovvero in una situazione complessiva che si connota e qualifica negativamente per la scorrettezza professionale dell'insieme che ne risulta. Corte Appello Milano n. 2086 dell’8 luglio 2011.
  • La previsione incriminatrice di cui all'art. 513 bis c.p. sanziona solo la condotta tipica sostanziatasi nel compimento di atti di concorrenza illecita posti in essere con violenza o minaccia (boicottaggio, storno di dipendenti, rifiuto di contrattare ecc.) nei confronti di altri soggetti economici operanti nello stesso settore, mentre è inapplicabile ad atti di violenza e minaccia, non sostanziatisi nel compimento di atti di illecita concorrenza, pur quando la limitazione della concorrenza sia stata la finalità perseguita dall'agente. Cass. pen. n. 33791 del 6 luglio 2011. 
  • L'interposizione commerciale, civilisticamente riferibile al contratto di mediazione ovvero anche a negoziazione atipica, sorretta però da una causa civile volta al perseguimento di finalità pratiche non contra legem ed anzi riconosciuta in tutte le pratiche di compravendita (mobiliare ed immobiliare) non appare idonea ad integrare, sol perché qualificata parassitaria, condotta riconducibile al reato di cui all'art. 513 bis c.p. 8illecita concorrenza con minaccia o violenza) sia perché oggettivamente esclusa dalla tipizzazione delittuosa, sia perché, nella specie, consumata senza che il giudice del merito ne chiarisse i profili violenti ovvero minacciosi. Cass. pen. n. 33791 del 6 luglio 2011. 
  • La creatività è tutelata nel nostro ordinamento fino a quando può ancora considerarsi originale, nel senso che quando l’originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commerciare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di tutti quanti operano nel settore, e si sia così ammortizzato da parte del primitivo imprenditore il capitale impiegato nello sforzo creativo. Trib. Milano n. 8874 del 5 luglio 2011. 
  • In tema di concorrenza parassitaria l’imitazione può considerarsi illecita se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente, nella concorrenza parassitaria diacronica, o dall’ultima e più significativa di esse, in quella sincronica, là dove per "breve" deve intendersi quell’arco di tempo per tutta la durata del quale l’ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dal pubblico dei clienti. Trib. Milano n. 8874 del 5 luglio 2011. 
  • L'utilizzo di numeri di telefono e informazioni sensibili di clienti selezionati da un concorrente per la loro propensione alla spesa nel suo settore integra una modalità di natura parassitaria di ingresso sul mercato vietata dall'art. 2598, n. 3, c.c., in quanto consente di acquisire, senza sopportare onere alcuno, il risultato dell'altrui attività di selezione e relazione con la clientela, realizzata nel tempo e con rilevante impegno di collaboratori e mezzi. Trib. Milano 18 marzo 2011. 
  • Allorché l'ex dipendente utilizzi la professionalità acquisita alle dipendenze di altro imprenditore, si deve far richiamo alle regole della correttezza professionale, che rinviano al buon costume commerciale. La linea di confine può individuarsi nel divieto di quei comportamenti volti a sviare a proprio vantaggio i valori aziendali di imprese preesistenti ed in particolare di quella di provenienza. Tale affermazione va tuttavia bilanciata con la tutela della libertà di impresa e di lavoro, cosicché non può considerarsi illecita l'utilizzazione di quel valore aziendale che può dirsi costituito dalle capacità professionali dello stesso ex dipendente, allo stesso appartenenti e non distinguibili dalla sua persona, poiché si perverrebbe altrimenti all'inammissibile risultato di vanificare i valori della libertà individuale inerenti alla personalità del lavoratore, costringendolo ad una situazione di dipendenza che andrebbe oltre i limiti contrattuali, e di privilegiare nell'impresa, precedente datrice di lavoro, una rendita parassitaria derivante, una volta per tutte, dalla scelta felicemente a suo tempo fatta con l'assunzione di quel dipendente. Trib. Milano 12 luglio 2010.
  • La fattispecie di concorrenza parassitaria ex n. 3 art. 2598 c.c. ricorre quando l'attività commerciale dell'imitatore si traduce in un cammino continuo e sistematico, essenziale e costante, sulle orme altrui, poiché l'imitazione di tutto o quasi tutto ciò che fa il concorrente, ovvero l'adozione più o meno immediata di ogni sua nuova iniziativa, seppure non realizzino una confusione di attività e di prodotti, risultano tuttavia contrarie alle regole che presiedono all'ordinario svolgimento della concorrenza; ed invero l'imprenditore commerciale che si pone nella scia del concorrente in modo sistematico e continuativo viene a trarre profitto dagli studi, dalle spese di preparazione e di penetrazione altrui e, utilizzando le realizzazioni già sperimentate, evita il rischio dell'insuccesso, integrando così, in linea di principio, un comportamento idoneo a danneggiare l'altrui azienda, a causa dei minori costi di produzione ai quali deve sottostare l'imitatore, che gli consentono di praticare, a parità di prodotti, prezzi inferiori a quelli del concorrente e di avviare verso la propria impresa una quantità di affari e di clienti che avrebbero potuto invece avviarsi verso l'imprenditore imitato.Trib. Bologna 8 luglio 2010. 
  • La condotta imitativa non costituisce di per sé elemento idoneo a suffragare l’esistenza di una condotta parassitaria, se non nei limiti in cui venga a trarsi vantaggio dall’altrui attività di progettazione, ricerca, sviluppo e commercializzazione del prodotto imitato, in particolar modo allorquando l’appropriazione delle potenzialità dell’altrui attività di impresa si dipani in più di una fase del processo produttivo ovvero in una pluralità di processi produttivi, i cui esiti vengono così a riversarsi anche a beneficio del concorrente parassita. Trib. Firenze n. 742 dell’8 marzo 2010. 
  • Il giudizio verte sulla concorrenza parassitaria realizzata da un prodotto successivo del tutto analogo ad un prodotto precedente, a prescindere da eventuali violazioni brevettuali; il primo viene infatti presentato in termini pressoché identici, ma a prezzi sensibilmente inferiori. In questo quadro, l'identità di messaggi promozionali e delle istruzioni dei prodotti in questione realizza l'illecito per appropriazione di pregi e scorrettezza professionale. Né l'identità di messaggio pubblicitario e di istruzioni d'uso possono ridursi da un lato a un mero problema di descrizione di qualità tecniche e dall'altro a indicazioni di utilizzo tecnicamente necessitate, sia perché la reclame, largamente aggettivata e identica, va ben oltre la mera descrizione tecnica; sia perché l'identità espressiva delle istruzioni d'uso va inquadrata nel contesto dell'utilizzo del medesimo nome e dei medesimi claims pubblicitari. Corte di Appello di Milano n. 2068 dell’08 luglio 2011.
  • La condotta integrante la concorrenza c.d. parassitaria è costituita tecnicamente da tutti i casi di imitazione sistematica delle iniziative imprenditoriali del proprio concorrente, anche nei casi in cui ciascun comportamento non appare sussumibile nella fattispecie di cui all'art. 2598, n. 1, c.c. per assenza, nelle condotte, di aspetti confusori, e la cui illiceità nel sistema, si ricollega al fatto che l'utilizzo sistematico degli elementi distintivi introdotti dal concorrente comporta una alterazione potenziale del meccanismo concorrenziale laddove avvantaggia in modo rilevante colui che non opera nel campo della innovazione, mirando al contrario quest'ultimo ad appropriarsi illecitamente del risultato di mercato dell'organizzazione dell'impresa concorrente. Trib. Bologna del 17 luglio 2009.
  • L'imitazione sistematica e durevole dell'attività del concorrente, con l'adozione e lo sfruttamento di ogni sua iniziativa, studio e ricerca, ancorché non comporti confusione tra nomi, segni distintivi o prodotti, né imitazione servile di questi ultimi o violazione di brevetti, è contraria alle regole della correttezza commerciale e, quindi può configurare concorrenza parassitaria, ai sensi dell'art. 2598, n. 3 c.c., nel senso che l'imprenditore commerciale il quale si ponga nella scia del concorrente in modo sistematico e continuativo, viene a trarre profitto dagli studi, dalle spese di preparazione e di penetrazione altrui e, utilizzando le realizzazioni già sperimentate, evita il rischio dell'insuccesso; comportamento questo idoneo a danneggiare l'altrui azienda, a causa dei minori costi di produzione ai quali deve sottostare l'imitatore, che gli consentono di praticare, a parità di prodotti, prezzi inferiori a quelli del concorrente e di avviare verso la propria impresa una quantità di affari e di clienti che avrebbero potuto invece avviarsi verso l'imprenditore imitato. Trib. Napoli del 15 luglio 2009.
  • Compie illecito anticoncorrenziale ex art. 2598 n. 3, c.c., sotto il profilo della concorrenza parassitaria, chi, nella propria attività, utilizza informazioni industriali e commerciali di un concorrente adeguatamente protette, con conseguente ulteriore violazione degli artt. 98 e 99 c.p.i., e, senza licenza alcuna, una copia di un software in uso su licenza al medesimo concorrente, con gli ovvi vantaggi discendenti dal godere di un programma informatico senza avere sostenuto alcun costo correlato all'acquisto della licenza d'uso. Trib. Catania del 20 giugno 2009.
  • Un consapevole intento di appropriazione parassitaria dei risultati delle iniziative altrui si sostanzia nei caratteri di continuità e sistematicità della condotta, dovendosi escludere quelle attività che sono poste in essere quando le iniziative altrui siano diventate ormai patrimonio comune di conoscenze per gli operatori del settore. Non costituisce indebito agganciamento l'utilizzo di fatti e situazioni insuscettibili di tutela concorrenziale, quali l'uso di parole descrittive o di colori e immagini comuni nel mercato di riferimento. Trib. Milano del 23 maggio 2009.
  • Per potersi parlare di concorrenza sleale per imitazione servile o anche di concorrenza parassitaria è necessario che i prodotti a confronto coesistano sullo stesso mercato e creino confusione o sviamento di clientela. Trib. Torino del 6 aprile 2009.
  • In sede cautelare la valutazione della sussistenza degli illeciti di concorrenza sleale per imitazione servile non può avere quale punto di riferimento uno stile creativo in sé considerato descritto in termini, inevitabilmente, troppo generici per consentire, con la dovuta certezza, l'individuazione di generali motivi stilistici idonei a differenziarsi con chiarezza dall'ampia produzione di un settore merceologico estremamente vario e in continua evoluzione come quello dell'abbigliamento. È dunque necessario individuare specifici elementi decorativi in sé non banali e generalizzati che, in quanto costantemente ripresi ed utilizzati nella produzione della ricorrente, possono ritenersi ormai dotati di quel profilo distintivo che consente di collegare il prodotto alla sfera di attività della ricorrente e la cui ripresa appare presupposto rilevante ai fini dell'illecito di cui all'art. 2598, n. 1. c.c. per la sua attitudine a determinare confusione tra i prodotti delle parti.
  • La concorrenza sleale per imitazione servile consiste nella realizzazione di prodotti identici nella forma a quelli del concorrente ovvero nell'imitazione pedissequa di una forma dotata di capacità distintiva e tale da identificare un certo prodotto come proveniente da un determinato imprenditore. L'imitazione deve, cioè, riguardare le c.d. forme capricciose o superflue, vale a dire caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante che non può essere attribuita a forme banali ovvero a forme funzionali, necessitate o imposte da una determinata funzione. La concorrenza sleale parassitaria ricorre quando l'attività commerciale dell'imitatore si traduce in un cammino continuo e sistematico sulle orme altrui ed è illecita perché l'imitazione di tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente e l'adozione più o meno immediata di ogni sua nuova iniziativa, seppure non realizzino una confusione di attività e di prodotti, sono contrarie alle regole che presiedono all'ordinario svolgimento della concorrenza, con la conseguenza che non integra tale forma di concorrenza sleale l'episodica imitazione di alcuni prodotti. L'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa non comprende anche l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendosi già assolto l'onere della parte di dimostrare la sussistenza e l'entità materiale del danno né essendo la parte stessa esonerata dal fornire gli elementi probatori e di fatto occorrenti ai fini dell'apprezzamento equitativo. La contraffazione del brevetto dà diritto al suo titolare al risarcimento equitativo del danno solo se è provato il prodursi di un pregiudizio economicamente apprezzabile, ma non dimostrabile nel suo preciso ammontare secondo quanto previsto dall'art. 1226 c.c., non essendo tale norma derogata od ampliata dall'art. 125 c.p.i., che autorizza la stima globale del danno sulla scorta degli atti di causa e delle presunzioni che ne derivano. La commercializzazione rappresenta autonoma fattispecie contraffattiva e, in assenza di garanzie prestate al rivenditore da parte del fornitore dei prodotti contraffatti, la domanda di manleva deve essere respinta. Ex art. 126 c.p.i. possono formare oggetto di pubblicazione i soli provvedimenti che accertano la violazione di diritti di proprietà industriale e non anche quelli che accertano la non violazione. Trib. Torino del 31 ottobre 2008.
  • Quanto al carattere creativo di un'opera di disegno industriale, lo stesso deve affermarsi ogniqualvolta ci si trovi di fronte ad una personale elaborazione dell'autore, capace di esprimere un grado anche modesto di originalità: eventualmente anche in caso di una personale elaborazione di un tema noto. Quanto al presupposto del valore artistico, la questione deve essere affrontata partendo dal concetto di gradiente estetico, per la cui valutazione, peraltro, assume rilievo ausiliario ed eventuale (ma non esclusivo) il riconoscimento collettivo ad opera di mostre, recensioni, opinioni d'esperti. Il design industriale, infatti, a differenza delle opere d'arte in genere, attiene direttamente al mercato ed il mercato non può sopportare un monopolio così duraturo nel tempo quale quello assicurato dalla tutela autorale, se ciò non sia giustificato da una particolare meritevolezza dell'opera. La tutela autorale può essere riconosciuta solo in presenza di opere di design che, per poter essere qualificate come opere d'arte, devono presentare un significativo merito estetico. Dunque, il valore artistico di cui all'art. 2 n. 10 L. aut. può essere riconosciuto solo in presenza di una spiccata valenza estetica dell'opera di cui si discute. La concorrenza sleale per imitazione servile di prodotti richiede qualcosa in più della mera “copiatura” del modello altrui: deve infatti determinare la confondibilità tra i prodotti medesimi. Sennonché la confusione tra due prodotti anche identici avviene solo se, quando sul mercato interviene il secondo prodotto, la forma del prodotto imitato appariva esclusiva del primo produttore così da distinguerlo tra quelli dello stesso genere; in sostanza, quindi, può riconoscersi l'imitazione servile solo quando i prodotti con riguardo ai quali viene denunciata l'illegittima imitazione siano dotati di carattere individualizzante, cioè di idoneità ad identificare la merce come proveniente da una determinata impresa. Detto carattere non è ravvisabile nei settori merceologici molto affollati, ove la produzione non presenta caratteri tali da potersi distinguere nettamente da molte altre similari produzioni. Può essere rilevata una pratica di concorrenza parassitaria laddove sia riconoscibile che un imprenditore nell'arco di un significativo lasso di tempo, riprenda, ripeta ed imiti plurime iniziative di un proprio concorrente: con una sistematicità tale da sfruttare il suo impegno lavorativo ed innovativo, beneficiando parassitariamente (appunto) dei sui investimenti ed attività creativa. Riprodurre sistematicamente modelli identici a quelli del concorrente, sulla base di un disegno portato dal cliente comune ed applicando un prezzo più basso rispetto a quello richiesto dal concorrente ideatore del modello, integra una vera e propria condotta parassitaria ed illegittima. Trib. Venezia del 31 ottobre 2008.
  • Il rischio di confusione, e dunque la concorrenza sleale per imitazione servile, non viene meno in considerazione dell'apparente semplicità della forma geometrica imitata. Pur restando libera l'idea che sta alla base della forma del prodotto, il ricorso a tale concetto deve essere effettuato differenziandosi opportunamente dai concorrenti che in precedenza hanno già percorso tale strada, evitando così il rischio di confusione. L'imitazione di un elevato numero di prodotti costituisce atto di concorrenza parassitario.  Sussiste il periculum in mora, con specifico riferimento al richiesto provvedimento inaudita altera parte, quando la previa instaurazione del contraddittorio potrebbe comportare la prosecuzione di un illecito che risulta in espansione e il conseguente rischio di sostanziale vanificazione della misura. Trib. Milano del 23 ottobre 2008.
  • È legittimato ad agire per concorrenza sleale non soltanto l'importatore esclusivo del prodotto imitato, ma altresì l'impresa straniera che lo fabbrica. L'identità fonetica tra i segni è necessaria e sufficiente ad integrare la contraffazione di marchio per identità e/o somiglianza ex art. 20 c.p.i. quando entrambi i marchi si riferiscono a prodotti dello stesso genere merceologico. L'azione di concorrenza sleale per imitazione servile può concorrere con l'azione di contraffazione di brevetto nei casi in cui la condotta del convenuto non si è concretizzata e sostanziata solo nella riproduzione degli elementi rivendicati dal brevetto, ma si sia spinta alla imitazione delle stesse caratteristiche formali del prodotto, quali le dimensioni, le proporzioni delle parti ed altro, ingenerando una situazione di confondibilità dei prodotti che si affianca, e che quindi deve trovare sua autonoma sanzione, all'interferenza nell'area di protezione accordata al trovato. Ai fini dell'accertamento della concorrenza sleale per imitazione servile è irrilevante che i prodotti imitativi rechino marchi diversi più o meno riconoscibili e che l'impresa che commercializza tali prodotti operi all'ingrosso, in quanto il pubblico al quale occorre fare riferimento per valutare la confondibilità è comunque quello finale. L'imitazione di soli quattro modelli di orologio non costituisce concorrenza sleale parassitaria ex art. 2598 n. 3 c.c. Corte Appello di Milano del 17 settembre 2008. 
  • A fronte di marchi dotati di una distintività sufficiente a garantirne la validità, se il gradiente distintivo non è particolarmente elevato e non risulta accresciuto dalla notorietà, occorre valutare gli elementi effettivamente ripresi dal marchio pretesamene contraffattorio. Qualora l'elemento piu' caratterizzante del segno depositato non sia stato in alcun modo ripreso, e ad un giudizio sintetico di confondibilità dei segni questi, tenuto conto del pubblico cui si rivolgono, non appaiono tali, non può ritenersi sussistente la contraffazione né la fattispecie della concorrenza sleale. Trib. Roma del 24 luglio 2008.
  • L'imitazione servile non è repressa in sé e per sé, ma soltanto in quanto idonea a creare confusione con i prodotti e l'attività di un concorrente, con la conseguenza che rilevano soltanto le forme esteriori del prodotto, le uniche di per sé idonee a produrre confusione. Nella previsione di cui all'art. 2598, n. 3, c.c. rientrano tutte le condotte che integrano una illecita appropriazione dei risultati ottenuti da una impresa concorrente. Si verifica un'ipotesi di concorrenza sleale parassitaria, quando l'attività commerciale dell'imitatore si traduce in un cammino continuo e sistematico, anche se non integrale, essenziale e costante sulle orme altrui, perché l'imitazione di tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente, l'adozione più o meno immediata di ogni sua nuova iniziativa, seppure non realizzano una confusione di attività o di prodotti, sono contrarie alle regole che presiedono all'ordinato svolgimento della concorrenza. Nella cosiddetta concorrenza parassitaria, l'imitazione può considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza sleale diacronica) o dall'ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), là dove per “breve” deve intendersi quell'arco di tempo per tutta la durata del quale l'ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari (di incassi, di pubblicità, di avviamento) dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dal pubblico dei clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto. Ciò in quanto la creatività è tutelata nel nostro ordinamento solo per un tempo determinato, fino a quando, cioè, può considerarsi originale, nel senso che, quando l'originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commercializzare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di tutti quanti operano nel settore, essendosi così ammortizzato (almeno secondo l'id quod plerumque accidit) da parte del primitivo imprenditore il capitale impiegato nello sforzo creativo, imitare quell'attività che, originale nel suo nascere e nel suo formarsi, si è poi generalizzata e spersonalizzata, non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l'altrui azienda. Nelle ipotesi di concorrenza sleale per imitazione servile di cui all'art. 2598, n. 1, c.c., l'imitazione di forme banali o standardizzate è priva di rilievo perché inidonea a creare confusione. L'illiceità dell'imitazione servile non confusoria non può farsi derivare dalla pura e semplice inclusione della stessa nello schema atipico di cui al n. 3 dell'art. 2598 c.c., atteso che tale norma non racchiude ipotesi complementari rispetto a quelle contemplate dai nn. 1 e 2, ma casi alternativi e diversi, dotati di una connotazione loro propria. Trib. Torino del 20 giugno 2008. 
  • La trasformazione della veste societaria non determina la cessazione di una società, ma, al contrario una prosecuzione dell'attività sociale senza soluzione di continuità. Pertanto ove nelle more della trasformazione societaria sia rimasto invariato il legale rappresentante, la procura è da ritenersi valida seppur menzioni la veste societaria precedente e non quella attuale. In presenza di un marchio non forte e rinomato la contraffazione deve essere valutata tenuto conto dell'utilizzo fatto del segno pretesamene contraffatto — cioè se in funzione meramente descrittiva o in funzione distintiva — e deve essere verificata la affinità dei settori merceologici. In questo quadro un utilizzo di un segno identico nel suo cuore per il medesimo settore merceologico, per prodotti che si rivolgono allo stesso target di clienti potenziali, se utilizzato in funzione distintiva, ovvero come marchio, determina la sussistenza della contraffazione. La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 c.c. presuppone una sistematicità ed una sincronicità temporale delle iniziative promosse da un concorrente a imitazione di quelle promosse da un altro. L'utilizzo nella propria attività di iniziative usuali nel settore merceologico di riferimento e la proposizione di servizi largamente diffusi in tale settore, non costituisce di per sé atto di concorrenza parassitaria. In assenza di una concreta prova di pregiudizio economico da parte dell'attore, la richiesta risarcitoria deve essere respinta. Trib. Roma del 21 maggio 2008. 
  • Le fattispecie di concorrenza sleale interferenti con la tutela della proprietà industriale ed intellettuale, per le quali sussiste la competenza delle sezioni specializzate, ai sensi dell'art. 3 d.lg. 168/03, si configurano allorché - a fondamento di una domanda di repressione della concorrenza sleale o di risarcimento dei danni conseguenti - siano dedotti fatti, in astratto, interferenti con l'esistenza di una privativa industrialistica, oggetto di accertamento almeno indiretto, mentre non occorre che la domanda di concorrenza sleale sia accessoria ad una autonoma azione reale a tutela di un diritto esclusivo. Cass. n. 9167 del 9 aprile 2008. 
  • Per poter applicare la tutela dettata dall'art. 2598 c.c. contro l'imitazione servile, in assenza di diritti di privativa su invenzioni o su modelli, occorre verificare se il prodotto imitato presenti forme caratteristiche individualizzanti, idonee a comunicare al pubblico la provenienza dello stesso da una determinata impresa e sussista al contempo pericolo di confusione sul mercato. Tale verifica va compiuta tenendo conto dell'acquirente tipico dei prodotti oggetto di contestazione. Per concorrenza c.d. parassitaria si intende un comportamento che integri una pluralità di atti volti alla continua e ripetuta imitazione delle iniziative del concorrente, ovvero l'imitazione, seppur in un unico momento specifico, di tutte le iniziative del concorrente così da sfruttarne il lavoro e la creatività. A seguito dell'introduzione col D.Lgs. 1687/2003 delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale e ancor più dopo l'entrata in vigore del codice della proprietà industriale, appare pacifica la competenza delle suddette sezioni nelle fattispecie di cui all'art. 2598, 1 e 2, c.c.     Trib. Roma del 18 luglio 2007.
  • Ai fini della valutazione della confondibilità tra prodotti per giudicare della sussistenza della concorrenza sleale per imitazione servile occorre venga accertato che, quanto meno in astratto, sussiste il pericolo di introdurre elementi di incertezza nei consumatori sulla provenienza del prodotto. Trib. Milano n. 76063 del 13 dicembre 2006. 
  • Costituisce atto di concorrenza sleale la pubblicazione o riproduzione sistematica e parassitaria, a scopo di lucro, di informazioni o notizie il cui sfruttamento spetta ad altri. Cass. n. 20410 del 20 settembre 2006. 
  • L'essenza degli illeciti in discussione è riconducibile alle modalità concrete di commercializzazione dei prodotti, presentati in contenitori esteticamente simili, sia per colore sia per caratteri tipografici, posizionati, senza soluzione di continuità, su un medesimo ripiano delle scaffalature interne di varie farmacie, unitamente alla presenza di cartelli indicanti la sostanziale equivalenza tra i due prodotti e la convenienza economica di quello prodotto dalla resistente. L' art. 20 D.Lgs. n. 30/05 vieta ogni riferimento di contenuto lato sensu pubblicitario del marchio altrui. L' accostamento dei prodotti e il richiamo suggestivo al prodotto della ricorrente concreta una chiara ipotesi di utilizzazione parassitaria del prodotto e marchio altrui, ovvero di agganciamento al prodotto dell' azienda concorrente. La condotta lesiva, sia commissiva sia omissiva, va ricondotta alla società resistente, diretta interessata alla vendita dei propri prodotti.
  • Il giudice adito è competente per territorio, in relazione al fatto che l'illecito concorrenziale dedotto si è realizzato anche dove il ricorrente ha la propria sede e dove ha subito gli effetti lesivi della condotta illecita. Il pericolo di danno irreparabile è conseguenza del rischio di uno sviamento di clientela dagli esiti non preventivabili né determinabili con equivalente pecuniario a posteriori, nonché del rischio di associazione dei due marchi, dei due prodotti e delle due imprese di riferimento, la cui portata lesiva è del pari indeterminabile e non ricostituibile a posteriori in sede di giudizio di merito. Non accoglibile la richiesta di descrizione della documentazione contabile della resistente, attesa l'ampiezza di tale richiesta e la mancanza di riferimenti temporali certi alla durata delle condotte illecite. Non accoglibile la richiesta di pubblicazione dell'ordinanza, tenuto conto della rilevanza negativa che la pubblicazione in sé può portare in capo alla resistente a fronte di un illecito verosimilmente rilevato al suo originare. Trib. Roma del 25 luglio 2006. 
  • Le capacità professionali acquisite nel corso ed a causa dell'esperienza lavorativa costituiscono parte indistinguibile della personalità del lavoratore, la cui tutela ha valore costituzionale, e ben possono da questi esser utilizzate per favorire la propria crescita professionale, sia alle dipendenze di altri imprenditori, sia di una propria iniziativa imprenditoriale. Quando le modalità di acquisizione di tali cognizioni sono lecite, l'utilizzo delle stesse non costituisce ipotesi di concorrenza parassitaria. Trib. Padova n. 1041 dell’11 maggio 2006. 
  • Il nuovo sistema di diritto del marchio risponde ad una ratio di protezione dello stesso, in funzione non tanto distintiva, quanto promozionale, a tutela degli interessi professionali degli imprenditori a che siano salvaguardati gli investimenti aziendali e pubblicitari effettuati per la conservazione dell'incremento sul mercato del selling power del marchio. Il fenomeno noto come look-alike, ossia l'imitazione del c.d. trade-dress del prodotto, cioè della sua confezione, del suo design, del logo nelle modalità di marketing è in ogni caso sussumibile nella fattispecie di concorrenza sleale ai sensi dell'c.c., art. 2598, per confusione tra i segni (notori) ed i prodotti del concorrente. Il fenomeno del knock-off costituisce appropriazione indiretta dei pregi del prodotto del concorrente, rispetto a cui la confezione riveste una funzione attrattiva primaria, ai sensi dell' c.c., art. 2598, nonché modalità scorretta dell'esercizio dell'impresa in quanto atto di concorrenza parassitaria ai sensi dell' c.c., art. 2598, per avere il concorrente risparmiato i costi degli investimenti aziendali e promozionali, confidando nel mero agganciamento dei propri prodotti al più noto marchio altrui. La concorrenza confusoria e parassitaria nei confronti di un marchio rinomato ha come effetto quello di vanificare gli investimenti pubblicitari e in genere promozionali fatti dall'impresa per garantire il consolidamento della fascia di mercato e penetrarne una più ampia di quella già acquisita e mantenere la propria globale competitività. In questo sta la causa del pregiudizio che, anche in ragione della sua diffusività, non è congruamente quantificabile e risarcibile in sede di merito. Trib. Roma del 27 marzo 2006. 
  • L'attività di un'impresa, volta ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela dei concorrenti, sfruttando gli sforzi organizzativi e gli investimenti di carattere pubblicitario da costoro realizzati e senza sostenere alcuno di tali oneri economici, costituisce concorrenza parassitaria contraria alle regole di correttezza professionale. Trib. Roma 16 gennaio 2006. 
  • La denominazione sociale dell'impresa produttrice costituisce il cuore del marchio; i numeri aggiunti alla denominazione sociale sono privi di capacità individualizzante, tenuto conto della diffusione, nel settore della cartoleria, dell' uso di numeri per indicare le diverse caratteristiche dei prodotti commercializzati (dimensioni, grammatura, spessore, ecc.). La dimostrazione del secondary meaning della componente numerica richiede precisi riscontri linguistici, non identificandosi con la diffusione del segno. Essendo la notorietà dei marchi ricondotta alla denominazione del produttore, non sussiste alcun rischio di associazione. Non è ravvisabile concorrenza sleale nel comportamento della reclamata, avendo la reclamante ammesso l'insussistenza del rischio di confusione. La concorrenza parassitaria presuppone che vengano imitate sistematicamente le iniziative del concorrente, mentre nel caso in esame il comportamento censurato consiste in un'unica iniziativa imprenditoriale. Trib. Roma del 2 novembre 2005. 
  • Il documento informatico sprovvisto di firma elettronica, essendo pur sempre un documento ed una rappresentazione meccanica (elettronica) di fatti o di cose, ha, ai sensi dell'art. 10 D.P.R. 445/2000, come modificato dall'art. 6 D. Lgs. 10/2002, l' efficacia probatoria prevista dall' art. 2712 c.c. riguardo ai fatti ed alle cose rappresentate, se colui contro il quale esso è prodotto non ne disconosce circostanziatamente la conformità ai fatti o alle cose medesime. Non opera la normativa penale a tutela della corrispondenza, qualora il datore di lavoro abbia avvertito i propri dipendenti (attraverso un regolamento di utilizzo della posta elettronica, nel quale venga precisato che la posta elettronica è strumento aziendale e non è da considerarsi corrispondenza privata), che qualsiasi messaggio di posta elettronica, in quanto attinente all' attività lavorativa, può essere reso pubblico in qualsiasi momento. La registrazione/conservazione di qualsiasi messaggio di posta elettronica sul server aziendale e/o sul computer in uso al dipendente costituisce trattamento di dati e deve essere preceduto da informativa, da una specifica regolamentazione aziendale e da consenso scritto, ove necessario, del dipendente. L'account aziendale, messo a disposizione dal datore di lavoro, in quanto strumento che l'azienda mette a disposizione del dipendente, è uno strumento che l'azienda offre al lavoratore solo per consentirgli di svolgere la propria attività e, come tale, rimane nella completa e totale disponibilità del datore di lavoro. Perché possa individuarsi un atto di concorrenza sleale da storno di dipendenti è necessario che l'attività di “sottrazione” sia posta in essere con meccanismi obiettivi di portata talmente ampia da non potersi giustificare, se non alla stregua di una strategia diretta a danneggiare l'impresa concorrente, avuto riguardo alla quantità dei soggetti stornati, alla portata dell'organizzazione complessiva dell'impresa concorrente, alla posizione che i dipendenti rivestivano in questa, alla loro non agevole sostituibilità ed ai metodi adottati per convincerli a passare alle proprie dipendenze. La sistematica attività di distrazione della clientela e di imitazione delle iniziative imprenditoriali della società concorrente attuata con modalità scorrette costituisce concorrenza parassitaria. La tutela delle informazioni aziendali riservate e contro gli atti di concorrenza sleale, di cui all' art. 2598, interferenti con l'esercizio della proprietà industriale, rientra nella competenza della Sezione Specializzata, ma, nel caso di specie non si applica il c.d. rito societario, perché, trattandosi di procedimento cautelare ante causam, si deve fare riferimento alla data di deposito del ricorso di prime cure e non alla data di deposito del reclamo. La controversia non rientra tra quelle contemplate dall'art. 1 lett. d) D. Lgs. 5/2003 (rapporti societari), in quanto tale espressione non può essere intesa come comprensiva di tutte le controversie comunque insorte “tra società”. Non è competente il Giudice del Lavoro, ex art. 409 c.p.c., avendo l'odierna società resistente in prime cure dedotto un illecito concorrenziale posto in essere dagli ex dipendenti già nella vigenza del rapporto con essa e comunque proseguito dopo la sua cessazione. La notifica del ricorso introduttivo al soggetto resistente si è perfezionata tardivamente, di tal che il giudice di prime cure avrebbe dovuto dichiarare d'ufficio la nullità della notifica e non emettere la pronuncia cautelare anche nei confronti di detto resistente; l'ordinanza emessa nei suoi confronti, pertanto, è nulla. Il giudice del reclamo è investito di un completo riesame nel merito della fattispecie ed il provvedimento adottato in questa fase viene a sostituire del tutto quello reclamato. Trib. Roma del 1 dicembre 2005. 
  • La riproduzione dei notiziari delle emittenti televisive a scopo di lucro può diventare concorrenza sleale parassitaria. Anche se tali riproduzioni non hanno provocato confusione perché contenenti la fonte della notizia. Cass. n. 17699 del 2 settembre 2005. 
  • La concorrenza sleale parassitaria, connessa all'appropriazione ed all'uso illegittimo di prodotti della Rai Radiotelevisione s.p.a., non lede diritti di rilevanza costituzionale della stessa Rai, nè incide sulla sua immagine, sicché in relazione ad essa va esclusa, ai sensi dell'art. 2059 c.c., la risarcibilità del danno morale cagionato dal comportamento sleale. Cass. n. 17699 del 2 settembre 2005. 
  • L'imitazione servile, ex art. 2598, n. 1, c.c. ricorre solamente quando la realizzazione di un prodotto uguale a quello del concorrente possa beneficiare finanche della capacità individualizzante acquisita nel tempo da parte di quest'ultimo. Un tale requisito non può riconoscersi nel caso di servizi organizzati e resi dal tour operator che riguardino programmi di viaggi in località usualmente frequentate dai turisti ed incluse nelle comuni offerte di pacchetti turistici. Per quanto concerne la concorrenza sleale c.d. “parassitaria”, che può essere ricondotta alla clausola generale di cui all' art. 2598, non è sufficiente che l'imprenditore concorrente si appropri, ovvero imiti sistematicamente, continuativamente e reiteratamente idee e creazioni originali altrui, ma è necessario che siffatte condotte siano attuate a breve distanza di tempo da ognuna di esse (“concorrenza parassitaria diacronica”), ovvero dall'ultima e più significativa di esse (“concorrenza parassitaria sincronica”), là dove per “breve” deve intendersi quell'arco di tempo per tutta la durata del quale l'ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari (di incassi, di pubblicità, di avviamento) dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dal pubblico dei clienti e si impone alla loro attenzione nella scelta del prodotto. Nel nostro ordinamento, la creatività è tutelata solo per un tempo determinato, ossia fino a quando può considerarsi “originale”; in altri termini, quando l'originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commerciare sia divenuto patrimonio comune di conoscenze e di esperienze di tutti gli operatori del settore, essendosi così ammortizzato da parte del primitivo imprenditore il capitale impiegato nello sforzo creativo, l'imitare quell'attività, che, originale al suo nascere e nel suo formarsi, si sia poi generalizzata e spersonalizzata, non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l'altrui azienda. Trib. Napoli del 12 agosto 2005. 
  • Per la configurabilità dell'ipotesi di concorrenza sleale prevista dall'art. 2598 n. 3 c.c. non è richiesto che la concorrenza, svolta direttamente o indirettamente con mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale, abbia provocato confusione con i prodotti e l'attività dell'imprenditore danneggiato, essendo tale requisito pertinente solo alla fattispecie di concorrenza sleale prevista dal n. 1 dello stesso art. 2598. Cass. n. 17699 del 2 settembre 2005. 

 

  • Nell'ipotesi di concorrenza sleale prevista dall'art. 2598, n. 2, c.c. rientrano anche i comportamenti attraverso i quali il concorrente si presenta al pubblico equiparandosi in modo esplicito ad altro concorrente o ai suoi prodotti. Nell'ipotesi di concorrenza sleale prevista dall'art. 2598 n. 2 c.c. l'illiceità del comportamento consiste nell'utilizzo della notorietà del marchio o del prodotto altrui per raggiungere sul mercato una visibilità che altrimenti non si avrebbe (o non si avrebbe così velocemente). Configura un'ipotesi di “ agganciamento” rilevante ai sensi dell'art. 2598 n. 2 c.c. la promozione di una linea di prodotti che riproponga le caratteristiche salienti che hanno determinato il successo commerciale di una linea di prodotti concorrente. La fattispecie della concorrenza sleale parassitaria può essere caratterizzata, oltre che dall'imitazione del prodotto o delle iniziative commerciali altrui, anche da un elemento cronologico quale la riproduzione, a breve distanza di tempo, di ogni singola iniziativa del concorrente (concorrenza parassitaria diacronica) ovvero dall'ultima e più significativa di esse (concorrenza sincronica). Il pericolo nel ritardo deve ritenersi imminente non solo quando l'attività illecita è in atto, ma anche quando vi è fondato rischio che possa essere ripresa o ripetuta determinando un ulteriore aggravamento del danno. Il pericolo nel ritardo deve ritenersi sussistente in caso di esplicito agganciamento con il prodotto del ricorrente, con inevitabile rischio di drenaggio di clientela e di annacquamento dell'immagine commerciale dei prodotti del ricorrente, entrambi fonte di danno di difficile quantificazione. La richiesta di pubblicazione del provvedimento cautelare non può essere accolta ove il ricorrente non abbia fatto valere titoli di proprietà industriale, così che non può trovare applicazione il disposto dell'art. 126 cod. prop. ind. Né è invocabile l'art. 2600, 2° co., comma secondo c.c., che prevede esclusivamente l'ipotesi, a titolo di risarcimento del danno, di pubblicazione della sentenza che accerti la sussistenza della dedotta fattispecie di concorrenza. Trib. Torino del 12 agosto 2005. 
  • Non costituendo la trascrizione del contratto di licenza un elemento della fattispecie acquisitiva dei diritti sul brevetto, avendo funzione di pubblicità solo dichiarativa, la mancata o tardiva trascrizione del contratto di licenza non preclude la legittimazione del licenziatario all'azione di contraffazione nei confronti dei terzi. Trib. Bari del 13 aprile 2005. 
  • Tenuto conto del fatto che il giudice ha il dovere di emettere i provvedimenti più consoni per la cessazione dell'attività illecita di concorrenza sleale, l'eliminazione dal mercato del prodotto illecitamente posto in vendita costituisce la sola misura efficace e non sembra rilevante a tal fine il tipo di norma violata. Corte di Appello di Trento del 19 febbraio 2005. 
  • Ancorché la concorrenza sleale per imitazione servile trovi sanzione autonoma rispetto alla concorrenza parassitaria, deve ritenersi che la stessa imitazione servile possa essere dimostrazione della concorrenza parassitaria dato che il quadro di una imitazione parassitaria può passare sia attraverso singoli atti di imitazione servile sia attraverso atti che non possono di per sè essere considerati di imitazione servile perché in essi prevale la "evocatività" del prodotto del concorrente piuttosto che l'imitazione servile dello stesso. Corte di Appello di Trento del 19 febbraio 2005. 
  • Tra i diritti attribuiti ex art. 102 bis l.a.al costitutore di una banca dati è compreso quello di vietare le operazioni di estrazione ovvero di reimpiego della totalità o di una parte sostanziale della banca dati, come pure di vietare l'estrazione ed il reimpiego ripetuti e sistematici di parti non sostanziali qualora importino operazioni contrarie alla normale gestione della banca dati o rechino un pregiudizio ingiustificato al suo costitutore. Trib. Roma del 24 dicembre 2004. 
  • La tutela mediante il divieto di concorrenza sleale, richiede, oltre alla sussistenza di un rapporto di concorrenza fra le imprese, anche che il carattere individuale della forma in esame abbia efficacia idonea a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, abbia cioè capacità distintiva della stessa, con il conseguente rischio di confondibilità in caso di imitazione servile della stessa forma. Trib. Torino del 17 dicembre 2004. 
  • La mancata installazione di un prodotto contraffatto non esclude la contraffazione. La concorrenza parassitaria richiede quale presupposto la dimostrazione di una condotta durevole e sistematica, di un cammino continuo sulle orme del concorrente. La pluralità e la genericità dei fatti esposti ritenuti lesivi, il richiamo indistinto a serie di brevetti ornamentali multipli registrati costituiti da numerosi disegni e modelli o da altre figure tutelabili al di fuori dei brevetti, il carattere indeterminato delle misure di inibitoria e sequestro richieste, inducono una complessità degli accertamenti istruttori, anche di natura tecnica, necessari a conferire concretezza ad eventuali provvedimenti e male si conciliano con i caratteri della tutela urgente ed anticipatoria. Trib. Bologna del 28 settembre 2004. 
  • Per ritenere integrata la fattispecie di concorrenza sleale parassitaria non è sufficiente lo sfruttamento di una sola iniziativa commerciale di un imprenditore concorrente, essendo necessaria una imitazione sistematica delle iniziative di quest'ultimo che si traduca nella costante attuazione delle medesime strategie. Trib. Roma del 20 settembre 2004. 
  •  Va esclusa la possibilità di qualificare e reprimere come concorrenza parassitaria quelle episodiche condotte di emulazione che rientrano nel normale gioco economico e che consistono nell'adottare i prodotti altrui come punto di partenza per uno sviluppo autonomo che conduca all'innovazione della caratteristiche del prodotto oppure dell'abbattimento dei costi di produzione o di commercializzazione, e comunque quelle condotte che presentino carattere episodico e non diffuso nel tempo. Trib. Monza del 3 settembre 2004. 
  • In ipotesi di contraffazione di marchio, la ricorrenza del requisito del "periculum in mora", deve essere valutata sul piano strettamente oggettivo e non certamente sulla base delle intenzioni soggettive o della condotta "ante acta" della parte che subisce il pregiudizio; sussiste, inoltre, il pericolo della perdita della clientela, anche potenziale, in quanto comportamenti di concorrenza parassitaria "sub specie" di contraffazione di marchio idonei a generare confusione sulla provenienza dei prodotti appaiono particolarmente rilevanti in termini di efficacia dello sviamento. Trib. Bologna del 22 luglio 2004. 
  • Non si configura un'ipotesi di concorrenza parassitaria quando la somiglianza tra i prodotti di un imprenditore e quelli del concorrente non dipende dalla pedissequa imitazione di caratteri originali, ma da un determinato modo di produrre e commerciare, divenuto patrimonio comune di conoscenza ed esperienza di quanti operano nel settore. Cass. n. 13423 del 20 luglio 2004. 

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