Il labile confine tra diritto di cronaca e diffamazione a mezzo stampa.

Il diritto di cronaca, specie negli ultimi anni, è oggetto di diatribe dottrinali e giurisprudenziali, posto il confine con il reato di diffamazione, di cui all’art. 595 c.p.



A cura della Dott.ssa Daniela Cardillo

Il diritto di cronaca, specie negli ultimi anni, è oggetto di diatribe dottrinali e giurisprudenziali, posto il confine con il reato di diffamazione, di cui all’art. 595 c.p.

Al centro del dibattito vi è il binomio libertà di stampa o di espressione e diritti inviolabili della persona, garantiti e riconosciuti rispettivamente dall’art 21 e dall’art. 2 della Costituzione.

Orbene, si tratta dunque di verificare la sussistenza e la potenziale applicabilità della scriminante del diritto di cronaca, quale esercizio di un diritto, ai sensi dell’art. 51 del codice penale.

Operando tale scriminante, seppur la condotta posta in essere dall’agente si configurasse come diffamatoria, verrebbe meno la sua antigiuridicità.

A tal fine è bene conoscere i limiti da rispettare per non incorrere in un’eventuale condanna penale. Vediamo insieme, nello specifico, quali sono i detti limiti. Anzitutto, assume notevole rilievo la verità della notizia.

E’ questo il primo limite che l’articolista deve rispettare.

Il fatto divulgato non può essere oggetto di proprie considerazioni o alterazioni del vero, ma deve essere rappresentato così come verificatosi nella realtà.

L’elaborato deve essere oggettivo, neutro ed affidabile; dunque privo di qualsivoglia tipo o genere di accuse.

Il secondo limite è la continenza nella sua esposizione, da intendersi come il rispetto della forma dell’espressione che deve caratterizzare la cronaca per la sua neutralità, ovvero la correttezza dell’esposizione dei fatti.

L’esercente del diritto di cronaca non deve mai calarsi, infatti, nella morale delle persone, bensì deve prendere in considerazione soltanto i fatti posti alla sua attenzione.

Altro limite è il pubblico interesse della notizia.

Al fine di non violare i limiti del diritto di cronaca, occorre valutare se la questione affrontata sia di pubblica rilevanza.

Sul punto, la Giurisprudenza predilige un’interpretazione estensiva, riconducendo al concetto di pubblico interesse, anche quello di attualità.

Ovvero, deve trattarsi di un caso attuale.

Appare evidente che laddove si trattasse di un caso ormai “vecchio” in quanto tale verrebbe a mancare l’elemento del pubblico interesse e pertanto non sarebbe più scriminato dal diritto di cronaca.

In questo contesto, infatti, assume rilievo il diritto all’oblio, inteso come garanzia che ogni individuo dovrebbe avere affinchè non siano diffusi precedenti pregiudizievoli, lesivi per il suo onore, la sua reputazione e la sua riservatezza.

Tale garanzia trova riconoscimento anche a livello comunitario, nel regolamento entrato in vigore il 25 Maggio 2016 ove viene sancito che ogni interessato ha diritto ad ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano.

Peraltro, non va in questa sede, tralasciata la funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27 della Costituzione la cui giustificazione non può che rinvenirsi nelle esigenze preventive e sociali, atte a garantire al condannato un reinserimento nella comunità sociale.

La scriminante del diritto di cronaca non può trovare applicazione quando la condotta dell'agente trasmodi oltre i detti limiti, venendo meno la veridicità oggettiva della cronaca e la correttezza dell’informazione in capo all’interessato nonché la pertinenza dei fatti divulgati.

Com’è noto il bene giuridico tutelato dalla dall’art. 595 c.p. è l’onore di un soggetto e pertanto affinchè si configuri tale delitto occorre che vi sia offesa all’onore e alla reputazione personale di un soggetto a mezzo di una comunicazione con più interlocutori e senza la presenza della persona offesa.

Il delitto di diffamazione è perseguibile soltanto a querela di parte, trattandosi di un interesse strettamente personale del soggetto leso e pertanto non soggetto a tutela pubblica ex officio.

E’ evidente che la sussistenza della verità del fatto oggetto di contestazione del reato di diffamazione non è, dunque riconducibile a presunta inidoneità della notizia a ledere l'altrui reputazione ma, semmai, ad un requisito intrinseco della causa di giustificazione del diritto di cronaca.

Come ribadito anche di recente dalle Sezioni Unite, l'accertamento dell'esistenza di una scriminante, determina l'assoluzione dell'imputato poiché il fatto non costituisce reato, venendo meno l’elemento dell’antigiuridicità.

Circa il risarcimento del danno da diffamazione in sede civile.

Negli ultimi anni, si assiste ad una prevalenza dell’azione civile su quella penale in merito alla diffamazione a mezzo stampa dovuta, probabilmente, alle condizioni più favorevoli per il danneggiato. In primis il tempo a disposizione per richiedere il risarcimento derivante da diffamazione, in sede civile ai sensi dell’art. 2947 c.c. si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto illecito si è verificato; ex adverso in sede penale il termine utile per sporgere querela è di 90 giorni.

Altra conditio agevole per l’attore, è la mancanza dell’attività di “filtro”, in sede civile, a differenza di quella penale invece dove tale attività è espletata dal pubblico ministero, dominus delle indagini preliminari il quale potrebbe ben decidere di non esercitare l’azione penale, richiedendo l’archiviazione della notizia di reato al Giudice delle indagini preliminari.

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